DOMENICA
Tempo grigio a nord della Loira.
Foschie e nebbie nelle valli.
Comincia verso le tre. Il pranzo della domenica è finito da poco. C’è stato il solito episodio dei piatti. «A chi tocca?» «A me no! Ho già apparecchiato.» «E perché a lui non tocca mai? Non lo fa neanche durante la settimana…»
Lui, sono io. E il turno dei piatti non mi tocca durante la settimana semplicemente perché non ci sono, sono via. Frequento il liceo come interno in un convitto, a ottanta chilometri da qui, dall’altra parte di Parigi.
Posso anche farli, i piatti, se insistono. Tanto è come se già fossi via. Sono arrivato ieri, verso le sei, e tra poco riparto. Me ne vado ancora prima che se ne accorgano. Non partecipo nemmeno più a queste discussioni che solo l’anno scorso erano parte della mia vita. Sono qui provvisoriamente, e li guardo da lontano. Nella mia testa, mi sono già chiuso la porta alle spalle.
Faccio un po’ d’ordine in camera mia. O meglio, nella mia vecchia camera: ci sto così poco ormai, che di me non c’è quasi più traccia. Mio fratello Eric ha invaso tutto, attaccato alle pareti i poster coi piloti di formula uno, seminato sul letto e la moquette i suoi vestiti e le sue riviste.
Ora sono solo. I miei fratelli sono già usciti, uno dopo l’altro. Mio padre non so dov’è. Mia madre è in soggiorno a stirarmi la camicia.
Ed ecco, comincia. Mal di pancia. Non proprio male. Solo una sensazione di vuoto, una mano, dentro, che mi stringe lo stomaco. In questi momenti ho freddo. Parto fra un’ora. Un’ora persa, ingoiata da questa paura vaga. Angoscia.
La valigia non è ancora chiusa. Ci ho messo la camicia stirata e il sacco di tela per la biancheria sporca della settimana. Come su tutti i miei vestiti e sui miei oggetti personali sopra ci sono un numero e una lettera: 92A. Là non sono che un numero.
Faccio scattare le serrature, a sinistra e a destra. La valigia non è grande né troppo pesante. Una valigia a buon mercato, in Skai, con una tasca esterna. Ci sistemo anche il panino che mi ha preparato mia madre (prosciutto, tre fette di pomodoro, una foglia di insalata). Non lo mangerò, ma è indispensabile, credo, al rito della partenza.
Parto ancora prima di partire. Prendo le distanze da loro. Che restano al caldo, alla luce, e mi respingono. Ce l’ho con loro ma non lo dico, taccio. Incomprensibile, come al solito, nello spazio segreto che mi sono costruito. Invisibile, ma non lo sanno, perché non mi guardano.
Li amo, certo, senza dubbio, ma è un’evidenza, una necessità. Sarebbe un inferno non amarli. Li amo per precauzione, per errore. Perché si ha bisogno di amare, ci sono slanci incontrollati che mettono in pericolo fuori dalla propria zona di sicurezza. Quando uno ama, si espone, mette a nudo una parte di se stesso, ed è proprio lì che possono ferirti. Ferire a vita, ferire a morte.
Amare i genitori e i fratelli è un rischio minimo. È un amore così banale che non sconvolge, non impegna.
Amo questo genere di pensieri, mi ci diverto segretamente. E me ne vergogno. Sono un ingrato, un egoista. È male. Me li lascio girare in testa, sono armi contro un male più assoluto: non essere riamato, amare e non essere amato. So bene che se mi lasciassi andare, se non reprimessi il mio cuore fino a soffocarlo, amerei alla follia, brucerei d’amore. A volte mi capita, nei momenti in cui l’emozione è d’obbligo, Natale o la festa della mamma, e scrivo poesie ridicole, grondanti di amore inutile.
Quello che avete appena letto, è l'attacco del romanzo di Bernard Friot, Un autre que moi (Éditions de la Martinière, 2003), da noi pubblicato nella collana Gli anni in tasca con il titolo Un altro me.
Un giorno, Bernard mi ha raccontato di avere ricevuto più lettere dai suoi lettori per questa autobiografia della sua giovinezza, che per tutti gli altri suoi libri (titoli come le famose Histoires pressées che in Francia hanno venduto centinaia di migliaia di copie, se non qualche milione, e avute numerosissime ristampe). Come la lettera di una giovane lettrice chi gli scrisse: "Questo libro mi ha aiutato a richiudere la porta sulla mia adolescenza".
Lettere di adulti, ma anche di ragazzi, che lo ringraziavano per aver raccontato quel periodo così difficile della sua esistenza: trovare espresso un disagio così forte, e così poco facile da esprimere, con quella precisione, aveva avuto un effetto liberatorio, salutare, catartico per molti di coloro che avevano incontrato quel libro sulla propria strada.
Dare parole, e quindi ordine, forma, senso, a esperienze, emozioni, stati d'animo rimasti senza parole, è uno dei grandi compiti e meriti della letteratura, ed è una delle ragioni per cui si ritengono i libri e la lettura tanto importanti nella formazione di bambini, ragazzi, adolescenti.
Non è una esperienza facile, quella della letteratura. Tutt'altro: richiede attenzione, capacità analitica, intima disposizione al confronto, e a queste bisogna esser educati. Ma varrebbe la pena riflettere che queste doti sono fondamentali anche nella vita, oltre che nella letteratura, e che quindi la letteratura può costituire una palestra ideale in questo senso, facendo attenzione a non sottrarre alla lettura quella dimensione di privatezza, mistero e scoperta personale che la rendono attraente.
Ci siano accorti che la collana Gli anni in tasca muove in modo specifico il desiderio di mettersi in contatto con gli autori per condividere il piacere della lettura, e a propria volta per condividere le proprie esperienze.
La condivisione dell'esperienza è importante, e forse la ragione per cui la collana Confessions di Éditions de la Martinière, come Gli anni in tasca, muove questo desiderio è che parte esattamente dal presupposto di condividere con i lettori gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza.
Quasi tutte le persone che si sono cimentate nello scrivere le autobiografie de Gli anni in tasca ci hanno riportato un'esperienza complessa, a un tempo liberatoria e frustrante, appagante e ardua. Il passato ha quella sua tipica bellezza da cartolina solo quando lo si tiene a debita distanza. Quando si è costretti a osservarlo da vicino, rivela una complessità sconcertante, a volte paralizzante. E chi accetta di affrontarla mostra una certa tempra.
Deve essere per questo che questi libri, se non hanno incontrato, eccetto alcuni casi, un largo pubblico, hanno avuto grandi appassionati, estimatori profondi, lettori attentissimi e motivati, che poi, a loro volta, hanno anche avuto il merito, dal nostro punto di vista, di farsene interpreti con i ragazzi.
Di questo siamo piuttosto orgogliosi. Ci piacerebbe naturalmente che le potenzialità di questi libri potessero esprimersi meglio, arrivando a un pubblico più largo. Ma non disperiamo.
Con il permesso di Bernard Friot, oggi pubblichiamo due lettere di un ragazzo di venunt'anni, Mathieu, che riflette sul libro Un altro me (la prima inviata all'editore, la seconda all'autore, dopo aver ricevuta la sua risposta):
Mi piace quando il sonno tarda ad arrivare.
Ci sono persone che temono l'insonnia, non è il mio caso: se l'uomo della sabbia, una sera, è occupato altrove, altri compagni più reali sono sempre là, sul mio comodino. I libri.
Questa notte mi sono sintonizzato su “Un altro me” di B. Friot.
La sua copertina dagli occhi blu mi guardava con espressione fredda e tranquilla, e ho cominciato a girare le pagine meccanicamente.
Come al solito quando apro un libro, sono arrivato alla fine tutto d'un fiato. E raramente ho incontrato un libro capace di far provare tante emozioni con così poche parole. Come dire? È un po' come se avessi letto la mia stessa storia. Mi identifico sempre un po' troppo con gli eroi.
Non sapremo mai cosa ne sia stato di Cahuzac, ne quale fosse la realtà familiare di Delpech. Sta al lettore immaginarlo.
È buffo, ma questo libro mi ha fatto venire voglia, a mia volta, di scrivere delle confessioni. Benché a ventun'anni sia ancora un po' giovane per questo.
In ogni caso, grazie per questo bel testo.
Cordialmente
***
Alla fine trovo il coraggio di rispondere.
Mi sono piaciute molto la sue riflessioni sul libro, “un messaggio spedito al mare”. Mi sembra il punto di vista delle edizioni La Martinière che offrono ai lettori la possibilità di contattare gli autori. E questo mi ricorda alcuni progetti.
Una volta letto, cosa fare di un libro? Chiuderlo da qualche parte, in biblioteca, finché non ci torna la voglia di riprenderlo o in attesa che qualche ospite non ce lo chieda in prestito? Perché, piuttosto, non regalarlo, condividere la sua emozione con un altro? Insomma, trasmettere il messaggio... Alla fine di ogni libro bisognerebbe mettere una quindicina di pagine bianche, perché i lettori possano lascia traccia del loro passaggio, e lasciare, a loro volta, una testimonianza. Così il libro si arricchirebbe dei contributi dei suoi lettori... e se un giorno, per il più incredibile dei casi, tornasse nelle mani del suo autore, che piacere sarebbe per lui scoprire il cammino percorso dal suo libro!
La ringrazio dell'incoraggiamento. Sono davvero creativo? Non lo so. Piuttosto ho l'impressione di creare per rispondere a una piccola voce che mi dice sempre “tu non sei niente”, provare a me stesso che non sono il vuoto. La mia forza forse è quella della disperazione... O quella della speranza: come saperlo?
Così, scriverò. Forse non delle Confessioni. Perché, a parte tutto, mi sento ancora troppo vicino alla mia infanzia per poterla guardare obiettivamente, ma altre cose. Mi piacerebbe scrivere per i ragazzi, scrivere quello che non ho potuto leggere da bambino. Scrivere quello che avrebbe potuto dare speranza ad alcuni miei amici che oggi non ci sono più.
Cosa l'ha spinta a scrivere? Perché ha deciso di scrivere libri per bambini? Le risposte mi interessano :).
Buona continuazione
Tempo grigio a nord della Loira.
Foschie e nebbie nelle valli.
Comincia verso le tre. Il pranzo della domenica è finito da poco. C’è stato il solito episodio dei piatti. «A chi tocca?» «A me no! Ho già apparecchiato.» «E perché a lui non tocca mai? Non lo fa neanche durante la settimana…»
Lui, sono io. E il turno dei piatti non mi tocca durante la settimana semplicemente perché non ci sono, sono via. Frequento il liceo come interno in un convitto, a ottanta chilometri da qui, dall’altra parte di Parigi.
Posso anche farli, i piatti, se insistono. Tanto è come se già fossi via. Sono arrivato ieri, verso le sei, e tra poco riparto. Me ne vado ancora prima che se ne accorgano. Non partecipo nemmeno più a queste discussioni che solo l’anno scorso erano parte della mia vita. Sono qui provvisoriamente, e li guardo da lontano. Nella mia testa, mi sono già chiuso la porta alle spalle.
Faccio un po’ d’ordine in camera mia. O meglio, nella mia vecchia camera: ci sto così poco ormai, che di me non c’è quasi più traccia. Mio fratello Eric ha invaso tutto, attaccato alle pareti i poster coi piloti di formula uno, seminato sul letto e la moquette i suoi vestiti e le sue riviste.
Ora sono solo. I miei fratelli sono già usciti, uno dopo l’altro. Mio padre non so dov’è. Mia madre è in soggiorno a stirarmi la camicia.
Ed ecco, comincia. Mal di pancia. Non proprio male. Solo una sensazione di vuoto, una mano, dentro, che mi stringe lo stomaco. In questi momenti ho freddo. Parto fra un’ora. Un’ora persa, ingoiata da questa paura vaga. Angoscia.
La valigia non è ancora chiusa. Ci ho messo la camicia stirata e il sacco di tela per la biancheria sporca della settimana. Come su tutti i miei vestiti e sui miei oggetti personali sopra ci sono un numero e una lettera: 92A. Là non sono che un numero.
Faccio scattare le serrature, a sinistra e a destra. La valigia non è grande né troppo pesante. Una valigia a buon mercato, in Skai, con una tasca esterna. Ci sistemo anche il panino che mi ha preparato mia madre (prosciutto, tre fette di pomodoro, una foglia di insalata). Non lo mangerò, ma è indispensabile, credo, al rito della partenza.
Parto ancora prima di partire. Prendo le distanze da loro. Che restano al caldo, alla luce, e mi respingono. Ce l’ho con loro ma non lo dico, taccio. Incomprensibile, come al solito, nello spazio segreto che mi sono costruito. Invisibile, ma non lo sanno, perché non mi guardano.
Li amo, certo, senza dubbio, ma è un’evidenza, una necessità. Sarebbe un inferno non amarli. Li amo per precauzione, per errore. Perché si ha bisogno di amare, ci sono slanci incontrollati che mettono in pericolo fuori dalla propria zona di sicurezza. Quando uno ama, si espone, mette a nudo una parte di se stesso, ed è proprio lì che possono ferirti. Ferire a vita, ferire a morte.
Amare i genitori e i fratelli è un rischio minimo. È un amore così banale che non sconvolge, non impegna.
Amo questo genere di pensieri, mi ci diverto segretamente. E me ne vergogno. Sono un ingrato, un egoista. È male. Me li lascio girare in testa, sono armi contro un male più assoluto: non essere riamato, amare e non essere amato. So bene che se mi lasciassi andare, se non reprimessi il mio cuore fino a soffocarlo, amerei alla follia, brucerei d’amore. A volte mi capita, nei momenti in cui l’emozione è d’obbligo, Natale o la festa della mamma, e scrivo poesie ridicole, grondanti di amore inutile.
Lavoro realizzato dai ragazzi della scuola media Leonardo da Vinci, di Palermo, nel 2102, dopo la lettura di Un altro me di Bernard Friot, (nella foto). |
Quello che avete appena letto, è l'attacco del romanzo di Bernard Friot, Un autre que moi (Éditions de la Martinière, 2003), da noi pubblicato nella collana Gli anni in tasca con il titolo Un altro me.
Un giorno, Bernard mi ha raccontato di avere ricevuto più lettere dai suoi lettori per questa autobiografia della sua giovinezza, che per tutti gli altri suoi libri (titoli come le famose Histoires pressées che in Francia hanno venduto centinaia di migliaia di copie, se non qualche milione, e avute numerosissime ristampe). Come la lettera di una giovane lettrice chi gli scrisse: "Questo libro mi ha aiutato a richiudere la porta sulla mia adolescenza".
Lettere di adulti, ma anche di ragazzi, che lo ringraziavano per aver raccontato quel periodo così difficile della sua esistenza: trovare espresso un disagio così forte, e così poco facile da esprimere, con quella precisione, aveva avuto un effetto liberatorio, salutare, catartico per molti di coloro che avevano incontrato quel libro sulla propria strada.
Palermo, 2102, dopo la lettura di Un altro me di Bernard Friot. |
Non è una esperienza facile, quella della letteratura. Tutt'altro: richiede attenzione, capacità analitica, intima disposizione al confronto, e a queste bisogna esser educati. Ma varrebbe la pena riflettere che queste doti sono fondamentali anche nella vita, oltre che nella letteratura, e che quindi la letteratura può costituire una palestra ideale in questo senso, facendo attenzione a non sottrarre alla lettura quella dimensione di privatezza, mistero e scoperta personale che la rendono attraente.
Ci siano accorti che la collana Gli anni in tasca muove in modo specifico il desiderio di mettersi in contatto con gli autori per condividere il piacere della lettura, e a propria volta per condividere le proprie esperienze.
La condivisione dell'esperienza è importante, e forse la ragione per cui la collana Confessions di Éditions de la Martinière, come Gli anni in tasca, muove questo desiderio è che parte esattamente dal presupposto di condividere con i lettori gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza.
Quasi tutte le persone che si sono cimentate nello scrivere le autobiografie de Gli anni in tasca ci hanno riportato un'esperienza complessa, a un tempo liberatoria e frustrante, appagante e ardua. Il passato ha quella sua tipica bellezza da cartolina solo quando lo si tiene a debita distanza. Quando si è costretti a osservarlo da vicino, rivela una complessità sconcertante, a volte paralizzante. E chi accetta di affrontarla mostra una certa tempra.
Deve essere per questo che questi libri, se non hanno incontrato, eccetto alcuni casi, un largo pubblico, hanno avuto grandi appassionati, estimatori profondi, lettori attentissimi e motivati, che poi, a loro volta, hanno anche avuto il merito, dal nostro punto di vista, di farsene interpreti con i ragazzi.
Di questo siamo piuttosto orgogliosi. Ci piacerebbe naturalmente che le potenzialità di questi libri potessero esprimersi meglio, arrivando a un pubblico più largo. Ma non disperiamo.
Con il permesso di Bernard Friot, oggi pubblichiamo due lettere di un ragazzo di venunt'anni, Mathieu, che riflette sul libro Un altro me (la prima inviata all'editore, la seconda all'autore, dopo aver ricevuta la sua risposta):
Mi piace quando il sonno tarda ad arrivare.
Ci sono persone che temono l'insonnia, non è il mio caso: se l'uomo della sabbia, una sera, è occupato altrove, altri compagni più reali sono sempre là, sul mio comodino. I libri.
Questa notte mi sono sintonizzato su “Un altro me” di B. Friot.
La sua copertina dagli occhi blu mi guardava con espressione fredda e tranquilla, e ho cominciato a girare le pagine meccanicamente.
Come al solito quando apro un libro, sono arrivato alla fine tutto d'un fiato. E raramente ho incontrato un libro capace di far provare tante emozioni con così poche parole. Come dire? È un po' come se avessi letto la mia stessa storia. Mi identifico sempre un po' troppo con gli eroi.
Non sapremo mai cosa ne sia stato di Cahuzac, ne quale fosse la realtà familiare di Delpech. Sta al lettore immaginarlo.
È buffo, ma questo libro mi ha fatto venire voglia, a mia volta, di scrivere delle confessioni. Benché a ventun'anni sia ancora un po' giovane per questo.
In ogni caso, grazie per questo bel testo.
Cordialmente
***
Alla fine trovo il coraggio di rispondere.
Mi sono piaciute molto la sue riflessioni sul libro, “un messaggio spedito al mare”. Mi sembra il punto di vista delle edizioni La Martinière che offrono ai lettori la possibilità di contattare gli autori. E questo mi ricorda alcuni progetti.
Una volta letto, cosa fare di un libro? Chiuderlo da qualche parte, in biblioteca, finché non ci torna la voglia di riprenderlo o in attesa che qualche ospite non ce lo chieda in prestito? Perché, piuttosto, non regalarlo, condividere la sua emozione con un altro? Insomma, trasmettere il messaggio... Alla fine di ogni libro bisognerebbe mettere una quindicina di pagine bianche, perché i lettori possano lascia traccia del loro passaggio, e lasciare, a loro volta, una testimonianza. Così il libro si arricchirebbe dei contributi dei suoi lettori... e se un giorno, per il più incredibile dei casi, tornasse nelle mani del suo autore, che piacere sarebbe per lui scoprire il cammino percorso dal suo libro!
La ringrazio dell'incoraggiamento. Sono davvero creativo? Non lo so. Piuttosto ho l'impressione di creare per rispondere a una piccola voce che mi dice sempre “tu non sei niente”, provare a me stesso che non sono il vuoto. La mia forza forse è quella della disperazione... O quella della speranza: come saperlo?
Così, scriverò. Forse non delle Confessioni. Perché, a parte tutto, mi sento ancora troppo vicino alla mia infanzia per poterla guardare obiettivamente, ma altre cose. Mi piacerebbe scrivere per i ragazzi, scrivere quello che non ho potuto leggere da bambino. Scrivere quello che avrebbe potuto dare speranza ad alcuni miei amici che oggi non ci sono più.
Cosa l'ha spinta a scrivere? Perché ha deciso di scrivere libri per bambini? Le risposte mi interessano :).
Buona continuazione
Palermo, 2102: suggestioni dalla lettura di Un altro me di Bernard Friot. |
1 commento:
Questo libro è bellissimo, durissimo, coraggiosissimo.
Io non ho avuto il coraggio di dire davvero il dolore senza infiocchettarlo, c'è come un tabù (tra adulti) a parlare del dolore dei bambini e dei ragazzi.
Friot del tabù se n'è fatto un baffo, ha detto come stava davvero. La verità ci tocca e ci raggiunge sempre, qualunque essa sia: è questo che fa bene.
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