In un una delle sue numerose riflessioni sull'infanzia, raccolte nel volume Orbis pictus, di Emme Edizioni, curato da Giulio Schiavoni, Walter Benjamin scrisse di credere letteralmente alle fiabe (oggi il volume è fuori catalogo; ne è uscito però un altro del filosofo berlinese, altrettanto interessante: Figure dell'infanzia, curato da Francesco Cappa e Martino Negri).
Mi ha sempre fatto molta impressione questo pensiero, dato che nell'opinione corrente fiaba è sinonimo di dimensione fantastica, e tutto quel che vi accade, tutti i personaggi che la abitano pertengono al regno dell'immaginazione, dove i fatti sono regolati da leggi e princìpi altri rispetto a quelli della realtà.
Affermare di credere letteralmente alla fiaba, prestare fede ai fatti che vi accadono come ad avvenimenti reali, significa invece sgombrare il campo da equivoci in questo senso, spazzando via d'un solo colpo ogni rassicurante separazione fra immaginario e reale, per stabilire un discrimine fra le due dimensioni più fluttuante, sottile e inquietante, con scambi e flussi sfuggenti e incontrollabili.
Quando sono uscita dal cinema dopo la visione di Un'estate da giganti, per la regia del belga Bouli Lanners (vincitore di una cospicua messe di premi, fra cui miglior film belga del 2011), mi sono chiesta chi fossero i giganti nominati.
Nella versione italiana questi sembrerebbero i tre ragazzi protagonisti, ma in quella francese, Les géants potrebbe anche essere riferito alla fauna di adulti che popolano il film, con la stessa minacciosa presenza nera di orchi e giganti, appunto, di fronte a esseri le cui principali caratteristiche sono, all'opposto, fragilità e piccolezza (fisica e anagrafica).
Ossia esseri dotati di una strapotenza contro la quale non c'è difesa, e che produce sulle vittime un effetto di umiliazione, vergogna e terrore paralizzanti. Che i tre ragazzi protagonisti della storia, Zach, Seth e Dany (Zacharie Chasserriaud, Marin Nissen, Paul Bartel), siano essi stessi fiabeschi è indubbio. Sono soli come nelle fiabe lo sono i bambini abbandonati nel bosco da boscaioli ottusi, madri crudeli, re distratti e regine sanguinarie. Due di loro sono stati abbandonati da una madre, diplomatica a Bruxelles, che si materializza unicamente come voce telefonica sempre più flebile e lontana nella ripetizione di pretestuose e vaghe giustificazioni: impegni pressanti da sbrigare e vacue, generiche raccomandazioni (a fronte di un'assenza immensa e minacciosa travestita da 'normale amministrazione', «Voi però fate i bravi e comportatevi bene.»)
I due fratelli, tredici e quindici anni, in vacanza in campagna nella grande casa di un nonno che non c'è più, non hanno peraltro di che vivere: esauriti provviste e denaro, si trovano a far fronte niente meno che alla sopravvivenza. Al loro sperdimento si unisce un terzo ragazzo, anch'esso in fuga dalla solitudine: un quindicenne del luogo vessato da un fratello decerebrato e violento, scortato da molossi nevrastenici, che sembra balzato fuori dal grembo stesso del male, i lineamenti del viso stravolti da uno stato di belluina imbecillità.
Più che arrabbiati, e ne avrebbero ben donde, i tre ragazzi sembrano sgomenti e insieme rassegnati allo stato delle cose: come se, nonostante la sorpresa di essere precipitati in un abisso non solo retoricamente senza fondo, si fossero rapidamente fatti una ragione della ipocrita crudeltà della logica adulta che, sia applicata a opere di bene o di male, non prevede interazione con i soggetti su cui si esercita, riducendoli a oggetti fra i tanti che abitano la scena del mondo. Una contingenza che non ha riparazione e contro cui la speranza consiste unicamente nella fuga. In questo senso, emblematici sono l'anziano pusher cocainome e la sua gigantesca fidanzata strabica, ingolositi dall'occasione di una razzia facile, che li depredano di tutto, lasciandoli letteralmente senza casa e abiti; come pure l'anziana signora con figlia down che offre loro un riparo sicuro nella sua casa da Biancaneve dove, su un divano a rose inglesi, dopo averli rimpannucciati con magliette decorate di paillettes, li intrattiene con estenuanti sonate al pianoforte.
Per sottrarsi alle minacce distruttive di questi giganti minati da una stupidità mortifera, che ricordano tanto i gendarmi, i pescatori, le fatine e i contadini in cui si imbatte Pinocchio nella sua corsa a perdifiato attraverso il buco nero dell'infanzia, i tre si danno alla fuga per i campi e i boschi di una natura a dir poco idilliaca. Il fiume che attraversa queste lande e che offre ai tre provvidenziali barchette, anse sabbiose, legna secca e capanni di avvistamento, se da una parte evoca il regale, maestoso Mississipi di Twain, ideale scuola di avventura, riscatto e libertà per orfani vagabondi, dall'altra mi ha ricordato un fiume recentemente visto in un film italiano, L'estate di Giacomo, anch'esso scenario di metamorfosi adolescenziali e avventure estive.
In particolare, mi ha fatto pensare al momento in cui il protagonista spiega a un'amica che di natura non ce n'è una sola, ce ne sono due: una bella e una «di merda». E loro, ovviamente, essendosi persi in cerca del fiume, sono finiti in quella «di merda» (al che lo spettatore, mirando pioppete labirintiche e sterminati campi di granoturco geneticamente modificato, non può che convenire con l'osservazione di Giacomo).
L'impressione è che anche i ragazzini di Les géants siano finiti nella natura «di merda». Ma ciò che è inquietante è che, se nell'Estate di Giacomo la natura era palesemente, riconoscibilmente alterata, qui è idillicamente bella, ma percepibilmente abitata da una malattia terribile. E dunque?
Dunque qui entra in scena la fiaba, quella fiaba 'reale', più reale della realtà, che Benjamin, discorrendo di letteratura per ragazzi, ha il coraggio di opporre al desiderio di incoscienza e tranquillità degli adulti. I tre bambini dai capelli d'oro (tintura platino che i tre si fanno nel corso di una notte di follie in una casa di vacanze vuota, e che per il potere magico dell'infanzia assurge immediatamente a segno di elezione e di alterità) nel momento in cui non 'appartengono', non sono più di nessuno, escono dal rassicurante ed esiguo cono di luce cui il demente occhio adulto affida la passività della propria coscienza nel buio pesto del mistero universale. In balia di forze potentissime attraverso cui devono imparare a scivolare, contro cui devono destreggiarsi con il solo aiuto del proprio sguardo e della propria attenzione, sempre vigili, svegli e accesi, i tre sprofondano nella più fiabesca delle missioni: quella di crescere per salvarsi la pelle.
Una pelle straordinariamente preziosa perché vergine: la bellissima, miracolosamente intatta pelle dell'infanzia così viva e ricettiva nello scambio col mondo, ancora capace di sentire e rispondere alle sollecitazioni delle cose (non oggetti disertati dall'anima, e invece sempre soggetti animati da una vita avvertita pienamente).
Quella miracolosa capacità di sentire - cioè di sapere coi piedi, la pancia, la testa, il cuore, le mani -, che si è qui e ora, facoltà che gli adulti, cadaveri ambulanti, hanno smarrito, e che forse è il segreto motore di tanto odio, di tali vendette orrende perpetrate contro bambini e ragazzi. Ecco, a pensarci una delle ragioni per cui oggi forse agli adulti le fiabe, nella loro versioni più lontane e antiche, più popolari e classiche, suonano tanto improprie e minacciose è proprio la consapevolezza, nascosta sotto una tranquillizzante e vacua opinione del regno della 'fantasia', che le fiabe, come sapeva Benjamin sono letteralmente vere, verissime. Perché nessuna dimensione più della realtà è frequentata da orchi, giganti, mostri, vampiri, streghe, matrigne di ogni fatta e genere, pronti a fare il male con metodica applicazione appena gli sguardi siano meno vigili, le orecchie meno tese, l'olfatto meno aguzzo, le mani meno sensibili. Appena il buio cali a spegnere la luce dell'intelligenza, della coscienza.
Mi ha sempre fatto molta impressione questo pensiero, dato che nell'opinione corrente fiaba è sinonimo di dimensione fantastica, e tutto quel che vi accade, tutti i personaggi che la abitano pertengono al regno dell'immaginazione, dove i fatti sono regolati da leggi e princìpi altri rispetto a quelli della realtà.
Affermare di credere letteralmente alla fiaba, prestare fede ai fatti che vi accadono come ad avvenimenti reali, significa invece sgombrare il campo da equivoci in questo senso, spazzando via d'un solo colpo ogni rassicurante separazione fra immaginario e reale, per stabilire un discrimine fra le due dimensioni più fluttuante, sottile e inquietante, con scambi e flussi sfuggenti e incontrollabili.
Quando sono uscita dal cinema dopo la visione di Un'estate da giganti, per la regia del belga Bouli Lanners (vincitore di una cospicua messe di premi, fra cui miglior film belga del 2011), mi sono chiesta chi fossero i giganti nominati.
Nella versione italiana questi sembrerebbero i tre ragazzi protagonisti, ma in quella francese, Les géants potrebbe anche essere riferito alla fauna di adulti che popolano il film, con la stessa minacciosa presenza nera di orchi e giganti, appunto, di fronte a esseri le cui principali caratteristiche sono, all'opposto, fragilità e piccolezza (fisica e anagrafica).
Ossia esseri dotati di una strapotenza contro la quale non c'è difesa, e che produce sulle vittime un effetto di umiliazione, vergogna e terrore paralizzanti. Che i tre ragazzi protagonisti della storia, Zach, Seth e Dany (Zacharie Chasserriaud, Marin Nissen, Paul Bartel), siano essi stessi fiabeschi è indubbio. Sono soli come nelle fiabe lo sono i bambini abbandonati nel bosco da boscaioli ottusi, madri crudeli, re distratti e regine sanguinarie. Due di loro sono stati abbandonati da una madre, diplomatica a Bruxelles, che si materializza unicamente come voce telefonica sempre più flebile e lontana nella ripetizione di pretestuose e vaghe giustificazioni: impegni pressanti da sbrigare e vacue, generiche raccomandazioni (a fronte di un'assenza immensa e minacciosa travestita da 'normale amministrazione', «Voi però fate i bravi e comportatevi bene.»)
I due fratelli, tredici e quindici anni, in vacanza in campagna nella grande casa di un nonno che non c'è più, non hanno peraltro di che vivere: esauriti provviste e denaro, si trovano a far fronte niente meno che alla sopravvivenza. Al loro sperdimento si unisce un terzo ragazzo, anch'esso in fuga dalla solitudine: un quindicenne del luogo vessato da un fratello decerebrato e violento, scortato da molossi nevrastenici, che sembra balzato fuori dal grembo stesso del male, i lineamenti del viso stravolti da uno stato di belluina imbecillità.
Più che arrabbiati, e ne avrebbero ben donde, i tre ragazzi sembrano sgomenti e insieme rassegnati allo stato delle cose: come se, nonostante la sorpresa di essere precipitati in un abisso non solo retoricamente senza fondo, si fossero rapidamente fatti una ragione della ipocrita crudeltà della logica adulta che, sia applicata a opere di bene o di male, non prevede interazione con i soggetti su cui si esercita, riducendoli a oggetti fra i tanti che abitano la scena del mondo. Una contingenza che non ha riparazione e contro cui la speranza consiste unicamente nella fuga. In questo senso, emblematici sono l'anziano pusher cocainome e la sua gigantesca fidanzata strabica, ingolositi dall'occasione di una razzia facile, che li depredano di tutto, lasciandoli letteralmente senza casa e abiti; come pure l'anziana signora con figlia down che offre loro un riparo sicuro nella sua casa da Biancaneve dove, su un divano a rose inglesi, dopo averli rimpannucciati con magliette decorate di paillettes, li intrattiene con estenuanti sonate al pianoforte.
Per sottrarsi alle minacce distruttive di questi giganti minati da una stupidità mortifera, che ricordano tanto i gendarmi, i pescatori, le fatine e i contadini in cui si imbatte Pinocchio nella sua corsa a perdifiato attraverso il buco nero dell'infanzia, i tre si danno alla fuga per i campi e i boschi di una natura a dir poco idilliaca. Il fiume che attraversa queste lande e che offre ai tre provvidenziali barchette, anse sabbiose, legna secca e capanni di avvistamento, se da una parte evoca il regale, maestoso Mississipi di Twain, ideale scuola di avventura, riscatto e libertà per orfani vagabondi, dall'altra mi ha ricordato un fiume recentemente visto in un film italiano, L'estate di Giacomo, anch'esso scenario di metamorfosi adolescenziali e avventure estive.
In particolare, mi ha fatto pensare al momento in cui il protagonista spiega a un'amica che di natura non ce n'è una sola, ce ne sono due: una bella e una «di merda». E loro, ovviamente, essendosi persi in cerca del fiume, sono finiti in quella «di merda» (al che lo spettatore, mirando pioppete labirintiche e sterminati campi di granoturco geneticamente modificato, non può che convenire con l'osservazione di Giacomo).
L'impressione è che anche i ragazzini di Les géants siano finiti nella natura «di merda». Ma ciò che è inquietante è che, se nell'Estate di Giacomo la natura era palesemente, riconoscibilmente alterata, qui è idillicamente bella, ma percepibilmente abitata da una malattia terribile. E dunque?
Dunque qui entra in scena la fiaba, quella fiaba 'reale', più reale della realtà, che Benjamin, discorrendo di letteratura per ragazzi, ha il coraggio di opporre al desiderio di incoscienza e tranquillità degli adulti. I tre bambini dai capelli d'oro (tintura platino che i tre si fanno nel corso di una notte di follie in una casa di vacanze vuota, e che per il potere magico dell'infanzia assurge immediatamente a segno di elezione e di alterità) nel momento in cui non 'appartengono', non sono più di nessuno, escono dal rassicurante ed esiguo cono di luce cui il demente occhio adulto affida la passività della propria coscienza nel buio pesto del mistero universale. In balia di forze potentissime attraverso cui devono imparare a scivolare, contro cui devono destreggiarsi con il solo aiuto del proprio sguardo e della propria attenzione, sempre vigili, svegli e accesi, i tre sprofondano nella più fiabesca delle missioni: quella di crescere per salvarsi la pelle.
Una pelle straordinariamente preziosa perché vergine: la bellissima, miracolosamente intatta pelle dell'infanzia così viva e ricettiva nello scambio col mondo, ancora capace di sentire e rispondere alle sollecitazioni delle cose (non oggetti disertati dall'anima, e invece sempre soggetti animati da una vita avvertita pienamente).
Quella miracolosa capacità di sentire - cioè di sapere coi piedi, la pancia, la testa, il cuore, le mani -, che si è qui e ora, facoltà che gli adulti, cadaveri ambulanti, hanno smarrito, e che forse è il segreto motore di tanto odio, di tali vendette orrende perpetrate contro bambini e ragazzi. Ecco, a pensarci una delle ragioni per cui oggi forse agli adulti le fiabe, nella loro versioni più lontane e antiche, più popolari e classiche, suonano tanto improprie e minacciose è proprio la consapevolezza, nascosta sotto una tranquillizzante e vacua opinione del regno della 'fantasia', che le fiabe, come sapeva Benjamin sono letteralmente vere, verissime. Perché nessuna dimensione più della realtà è frequentata da orchi, giganti, mostri, vampiri, streghe, matrigne di ogni fatta e genere, pronti a fare il male con metodica applicazione appena gli sguardi siano meno vigili, le orecchie meno tese, l'olfatto meno aguzzo, le mani meno sensibili. Appena il buio cali a spegnere la luce dell'intelligenza, della coscienza.
molto bello e suggestivo, grazie.
RispondiEliminasi parva licet, questo riecheggia un po': http://waterbreath.blogspot.it/2012/07/folktales-night.html
Grazie per l'apprezzamento, gg77. Una segnalazione interessante.
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