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lunedì 10 febbraio 2014

Sposare un geometra e andare sulla luna

Galileo Galilei, Osservazioni della Luna, acquerelli, 1609.
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale [ms. Gal. 48].
C'erano una volta mia madre e una bambina di sette, forse otto anni. «E tu cosa vuoi fare da grande?» «Voglio sposare un geometra.» La Zoboli è corsa a nascondersi in bagno, ma da dietro la porta si sentiva l'inequivocabile, imbarazzante fragore delle risate. Alla stessa domanda, i bambini della mia generazione rispondevano, «l'astronauta». Sembrava non ci fosse altro mestiere possibile.

L'esplorazione dello spazio e la conquista della Luna non sono state solo uno strumento di supremazia politica e militare e una delle tante armi non convenzionali con le quali si è combattuta la Guerra fredda. Sono state anche una missione per l'umanità intera, un'intrapresa che ha unito - non diviso - piccoli pionieri sovietici, boy scout statunitensi, monelli di strada napoletani e figli della piccola borghesia milanese.

Io, timido rappresentante di quest'ultima, menavo gran vanto della gigantesca mappa della Luna, allegata a un numero del National Geographic, che vegliava sulle mie notti, succedaneo del satellite che da milioni di anni vegliava sulle notti dell'uomo e che io guardavo assai di rado, un po' perché mi spedivano a letto dopo Carosello, un po' perché abbandonarsi alla meraviglia sarebbe stato poco s-c-i-e-n-t-i-f-i-c-o: sulla Luna bisognava andarci; la Luna bisognava scoprirla e conquistarla; e tutto questo aveva ben poco a che fare con la poesia.

Il "mio" poster della Luna.

Valeva per me quel che affermava George Santayana: per la maggior parte degli esseri umani le stelle sono belle, ma se si domanda loro perché non sapranno rispondere fino a quando non avranno ricordato qualche nozione di astronomia. «Le vaghe e illusorie idee così suscitate si adattano così bene alla sciocca emozione che stavamo provando che attribuiamo questa emozione a quelle idee e ci persuadiamo che la potenza dei cieli stellati stia nella suggestione dei fatti astronomici.» Insomma, dobbiamo "parlare" la meraviglia e, se non ci riusciamo, guardiamo da un'altra parte.

Thomas Harriot, tre disegni della Luna, 1609-1611. Collezione privata.

Certo, la Luna era bella. Come diceva Henri Poincaré «lo scienziato non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ne prova piacere, e ne prova piacere perché essa è bella.» Se la Luna non fosse stata bella, non sarebbe valsa la pena di conoscerla, di conquistarla, di esplorarla. Ma da lì ad abbandonarsi alla sciocca emozione... Il chiaro di luna l'aveva già ucciso un tal Marinetti, nell'aprile del 1909: ai tempi di mio nonno.

Michel Florent van Langren, Plenilunii Lumina Austriaca Philippica, 1645.
Edimburgo, Crawford Library.
Poi, sulla Luna ci siamo andati. E la cosa è finita lì: nel nulla della polvere e dei sassi di quel coso che ci gira intorno. Abbiamo continuato ad andare nello spazio, ma non gliene frega più niente a nessuno. Non è più un'avventura, non è più una missione per l'umanità. È roba tecnica. Roba che finisce sui giornali solo se capita una catastrofe, o se un russo rimane chiuso in una stazione spaziale orbitante grande come uno sgabuzzino per le scope per 437 giorni e 18 ore. Ma è un po' come  se avesse mangiato 21 scorpioni vivi: nessuno osa domandare il perché.



Abbiamo, insomma, perso quel senso di scopo collettivo che ci dava la conquista dello spazio che, oltre ad averci portato su un pianeta inutile (non era fatto di formaggio; non era popolato di strane creature di intelligenza superiore; né prometteva di potersi trasformare rapidamente in una nuova Disneyland), ci aveva sottratto il desiderio di guardare la Luna, ormai relegata nell'ambito della tecnica, depurata del fascino e del mistero, scansita e analizzata nella sua composizione, tracciata con precisione millimetrica nella sua orbita, scrutata da occhi elettronici. Certo, ogni tanto ci capitava anche di abbandonarci alla meraviglia, di avvertire il vortice dell'ineffabile, ma quella cosa lì nel cielo, con la sua mutevolezza e i suoi prevedibili capricci, non era più la seducente amante che per millenni era stata, ma una vecchia compagna della quale si pensa di sapere tutto solo perché non la si guarda più con attenzione.



D'altra parte, già Walter Benjamin, che non era proprio l'ultimo arrivato, aveva parlato di come l'ebbrezza (Rausch) che distingueva la contemplazione antica del cielo fosse andata scomparendo con la crescita dell'astronomia moderna, legata all'“unione ottica” con l'universo, cioè con la conoscenza fornita dal telescopio. L'ebbrezza dell'uomo antico poteva nascere soltanto all'interno della comunità e «l'aberrazione che minaccia i moderni è di ritenere questa esperienza irrilevante, trascurabile, di lasciarla all'individuo come estetica contemplazione di una bella notte stellata.»


Poi è arrivato un libro. Questo qui, del quale guardate le immagini. Almeno, è arrivato per me. Ed è stato, sempre per me, rivelatore: mi sono reso conto con sorpresa di quanto poco avessi osservato la luna; e anche di come fosse necessaria, assolutamente necessaria, una narrazione come questa per riaccendere la vecchia fiamma. È stata per me la dimostrazione lampante, diretta e personale del bisogno che abbiamo delle storie come strumenti di integrazione nella realtà. Magari anche di storie senza parole. Anzi, soprattutto senza parole, se la materia di cui si tratta è l'ineffabile.


Ma è stata anche la rivelazione di come, contrariamente a quanto ci suggerisce Benjamin, la conoscenza scientifica, profonda e dettagliata, che questo libro rivela non sia che un amplificatore dell'energia poetica che l'oggetto di tanta osservazione contiene in sé.


Ecco, così, sulle pagine di questo libro, per me la Luna ha finalmente cessato di essere solo l'unico satellite della Terra. Certo, è rimasta pur sempre quel corpo celeste che compie un'orbita ellittica della sfera celeste, calcolata rispetto alle stelle fisse, in media ogni 27,321661 giorni eccetera. Ma è finalmente tornata a essere anche «una lampadina attaccata al plafone.» E le stelle, se non lo sapevate, «sembrano limoni tirati nell'acqua.»



Questo libro non  ha un titolo, né parole, né nome di un autore, né il marchio di un editore in copertina. Solo un fondo di un blu violaceo sul quale si staglia un tondo argentato che rispecchia, a tenerselo davanti al volto, un'immagine fantasmatica. Dentro, replica per sessantaquattro pagine sostanzialmente la stessa immagine.



All'ultima pagina, prima dei risguardi di quel blu scurissimo che identifica la notte e l'eleganza archetipiche (midnight blue lo chiamava il Duca di Windsor, che lo preferiva al nero per le sue dinner jacket) si scopre che si intitola Dans la Lune, che è stato realizzato da Fanette Mellier per le Èditions du Livre, che è dedicato a Marcus, che è stato ispirato da una mostra realizzata al Centre Cultural pour l'Enfance di Tinoueux e che è stato pubblicato con il sostegno della direzione per gli affari culturali dell'Alsazia.



Il libro si compie in una sequenza di ventotto rappresentazioni della luna nel corso del suo ciclo, giocate sul bianco del disco (o della sua porzione visibile) che risalta sullo sfondo blu scuro, reso leggermente marezzato dal pelo della carta, e alonato da un gioco sapientissimo di velature diluite di giallo tenue o blu ceruleo e di neri pieni. Un lavoro graficamente impeccabile e un'esecuzione quasi perfetta (ma dato che sono notoriamente un rompiscatole, avrei scelto una carta diversa). Chi lo volesse lo può ordinare nel sito dell'editore, o correre da Spazio Bk a Milano o alla Libreria Sempreliberi di Lodi.

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