[di Lisa Topi]
Alison Gopnik è docente e ricercatrice all’Università di Berkeley. Nel suo libro Il bambino filosofo, diventato caso editoriale nel 2009, argomenta la tesi per cui è la configurazione della mente dei bambini che ci consente di cambiare il mondo. Gopnik è una delle cento personalità più innovative del pianeta secondo il catalogo 100 Global Minds curato da Gianluigi Ricuperati, al quale devo la lettura di questo saggio, mentre a lei mi sento intimamente debitrice per aver dato una rigorosa struttura teorica a un’intuizione fumosa che mi è capitato di percepire osservando i bambini (così come sarà capitato a chiunque abbia a che fare con i bambini), intuizione che, finora, ho sempre pensato fosse solo il frutto della disposizione introspettiva e poetica del primo bambino che è entrato a far parte della mia vita.
Anni fa seppi che un mio zio neuropsichiatra alla prima seduta consigliava a molti dei suoi pazienti di leggere Il rosso e il nero di Stendhal (non so se adotti ancora questo metodo, ma pensarlo mi dà fiducia nel trionfo della ragione). Alison Gopnik si chiede come mai si ha spesso l’impressione che dai romanzi, dai miti, dal teatro e dalla poesia, si apprenda di più sulla natura umana che dai manuali di psicologia. La finzione letteraria è in grado di rivelarci delle verità nascoste perché non risponde solo a un bisogno antropologico collettivo e una volontà di sublimazione individuale, ma rispecchia una caratteristica evolutiva di fondamentale importanza per la nostra specie, quella che nei bambini si manifesta con il gioco del fare finta.
Facciamo un passo indietro.
Con le sue ricerche, Gopnik intende dimostrare che l’infanzia non è solo uno snodo decisivo dell’esistenza e un dato comune a tutti gli esseri: l’infanzia è esattamente ciò che ci rende umani. Occorre per questo colmare le lacune di duemilacinquecento anni di studi giacché, nonostante i bambini rappresentino una combinazione classicamente territorio della filosofia per il loro modo di essere profondi e sconcertanti, la filosofia non si è mai, o quasi, occupata di loro. Con dovizia di esperimenti e verifiche – che trovo gli aspetti più stupefacenti del libro – Gopnik prova che i bambini esercitano fin da neonati molte delle facoltà che determinano il nostro successo evolutivo. Non sono tanto i risultati ottenuti ad avermi sbalordito quanto la breccia da lei aperta nel percorso di conoscenza della mente infantile, l’angolazione e la messa a fuoco di uno scenario vasto e affascinante del quale tantissimi particolari rimangono ancora oscuri.
Il punto di partenza di questa tesi è che la caratteristica distintiva degli uomini rispetto ad altre specie è la capacità di cambiamento del mondo. I bambini trascorrono gran parte del loro tempo a fingere e, se fino a non molto tempo fa, sulla scia delle teorie psicanalitiche e pedagogiche di Freud e Piaget, si pensava che ciò fosse dovuto alla loro inabilità a distinguere la fantasia dalla realtà, è stato dimostrato che sono ben consapevoli di fingere. Quando i bambini creano scenari immaginari non fanno altro che mettere in pratica il pensiero controfattuale, lo stesso che adottano gli scienziati per formulare le loro teorie. Infatti, poter concepire possibilità multiple, persino inverosimili, è un fattore cruciale per cambiare le circostanze dell’ambiente in cui viviamo e il nostro futuro. Come gli scienziati, i bambini costruiscono delle mappe causali del mondo e del suo funzionamento, basate su modelli che, aggiustandosi di pari passo con la loro crescita, sono in continua trasformazione. Se non fosse per tutti i case studies citati, si crederebbe a stento che fin dai nove mesi i bambini traggono una serie di calcoli statistici e probabilità dalle loro sperimentazioni. Si tratta di mappe inconsce e codificate nel loro cervello, ma a un altissimo grado di complessità e astrazione, ben lontane dallo stereotipo che, fino a solo venti anni fa, voleva i bambini connessi unicamente con l’esperienza percettiva immediata.
Quando, al museo di storia naturale, ho detto a mio nipote cinquenne che l’uomo deriva dalla scimmia, lui, anziché opporre gli interrogativi che visibilmente stavano invadendo la sua testa, ha raccolto in silenzio. Giorni dopo, all’asilo, ne ha dato questa spiegazione: “sì, maestra, noi veniamo dalla scimmia, altrimenti perché mangiamo le banane?”. Come sostiene Gopnik, i bambini producono e chiedono decine di spiegazioni causali al giorno che potrebbero non sempre essere le stesse che fornirebbe un adulto ma rispondono a una logica.
Le mappe causali dei bambini non riguardano solo il mondo fisico ma anche la biologia, l’affettività, la psicologia. Anzi, da specie sociale qual è l’uomo, l’abilità di comprendere la mente umana è un fattore fondamentale per la nostra sopravvivenza. E’ questo lo scopo che serve l’amico immaginario, un fenomeno molto comune nei bambini e, contrariamente a quanto si pensi, niente affatto collegato a forme di nevrosi o genialità. Racconta Gopnik che Olivia, una bambina cresciuta nella Manhattan letteraria, inventò un amico immaginario, Charlie Ravioli, che però era troppo indaffarato per giocare con lei [per cui] gli lasciava sistematicamente dei messaggi nella segreteria ai quali lui non rispondeva mai. A soli tre anni, Olivia ha già interiorizzato la complessità delle relazioni di un intellettuale newyorkese.
Senza azzardare formule o quantificazioni, l’autrice spiega che l’analisi dell’esperienza dei bambini potrebbe contribuire anche a fare luce nella spinosa questione filosofica della coscienza. E’ molto interessante notare che i bambini hanno piena consapevolezza del proprio pensiero ma sembrano attingervi in maniera irrazionale e, soprattutto, non lo concepiscono come un flusso di coscienza spontaneo (si pensa a qualcosa solo se c’è qualcosa da pensare). C’è di più: fin da piccolissimi, si pongono interrogativi morali, i concetti di bene e male non sono collegati a un sistema di ricompense e punizioni, come erroneamente si credeva, ma a un’etica propria. Tendono a comportarsi altruisticamente e a manifestare giudizi nei quali sanno distinguere tra l’infrazione di una regola e un torto vero e proprio. La prima conta meno del secondo, nonostante la natura prevalentemente normativa del loro ragionamento, il che significa che l’empatia nei bambini è una forza in grado di far cambiare le norme più radicate. Una forza rivoluzionaria.
Questo libro offre tanti spunti di riflessione ed è con tre di questi, apparentemente slegati tra loro, che concluderei perché mi sembrano di un’importanza vitale nella prospettiva concreta di migliorare la nostra civiltà.
Uno. Per dare campo all’immaginazione occorre conoscere e, benché il cervello di un bambino sia lo strumento più avanzato e potente di apprendimento, questo processo richiede tempo. Il fatto che il bisogno dei bambini delle cure dei genitori si protragga tanto a lungo, non dipende solo da un istinto primordiale di attaccamento e protezione ma dalla loro necessità di essere liberi dalle incombenze quotidiane per dedicarsi al gioco come strumento cognitivo. Un bimbo di tre anni magari non riesce neanche a infilarsi il cappotto (le distrazioni sono decisamente troppe: deve badare alla tigre fantastica e all’amico immaginario, accertarsi che si copra bene anche lui). In realtà, però, sta esercitando alcune delle capacità più sofisticate e profonde sulla natura umana dal punto di vista filosofico.
Due. Nelle ricerche che tendono a stabilire se a plasmare il carattere del bambino incidano più i fattori ereditari o l’ambiente, si è scoperto che per i bambini poveri il quoziente intellettivo sarebbe meno influenzato dai geni rispetto ai bambini ricchi. Questo significa che investire nella scolarizzazione in ambienti disagiati, anche con interventi minimi, può fare la differenza.
Tre. Gli esseri umani si dedicano ai bambini in maniera più generalizzata e totalizzante di qualsiasi altra specie. I bambini assolvono a una funzione molto più ampia della semplice riproduzione dei geni: consentono di accumulare conoscenze , adattarsi a nuovi ambienti e crearne di nuovi.
Rispettare e coltivare la cultura dell’infanzia, al di là delle preoccupazioni immediate e dell’interesse egoriferito dei genitori, prima ancora che un imperativo morale è un grande vantaggio per tutti noi.
Alison Gopnik è docente e ricercatrice all’Università di Berkeley. Nel suo libro Il bambino filosofo, diventato caso editoriale nel 2009, argomenta la tesi per cui è la configurazione della mente dei bambini che ci consente di cambiare il mondo. Gopnik è una delle cento personalità più innovative del pianeta secondo il catalogo 100 Global Minds curato da Gianluigi Ricuperati, al quale devo la lettura di questo saggio, mentre a lei mi sento intimamente debitrice per aver dato una rigorosa struttura teorica a un’intuizione fumosa che mi è capitato di percepire osservando i bambini (così come sarà capitato a chiunque abbia a che fare con i bambini), intuizione che, finora, ho sempre pensato fosse solo il frutto della disposizione introspettiva e poetica del primo bambino che è entrato a far parte della mia vita.
Anni fa seppi che un mio zio neuropsichiatra alla prima seduta consigliava a molti dei suoi pazienti di leggere Il rosso e il nero di Stendhal (non so se adotti ancora questo metodo, ma pensarlo mi dà fiducia nel trionfo della ragione). Alison Gopnik si chiede come mai si ha spesso l’impressione che dai romanzi, dai miti, dal teatro e dalla poesia, si apprenda di più sulla natura umana che dai manuali di psicologia. La finzione letteraria è in grado di rivelarci delle verità nascoste perché non risponde solo a un bisogno antropologico collettivo e una volontà di sublimazione individuale, ma rispecchia una caratteristica evolutiva di fondamentale importanza per la nostra specie, quella che nei bambini si manifesta con il gioco del fare finta.
Facciamo un passo indietro.
Con le sue ricerche, Gopnik intende dimostrare che l’infanzia non è solo uno snodo decisivo dell’esistenza e un dato comune a tutti gli esseri: l’infanzia è esattamente ciò che ci rende umani. Occorre per questo colmare le lacune di duemilacinquecento anni di studi giacché, nonostante i bambini rappresentino una combinazione classicamente territorio della filosofia per il loro modo di essere profondi e sconcertanti, la filosofia non si è mai, o quasi, occupata di loro. Con dovizia di esperimenti e verifiche – che trovo gli aspetti più stupefacenti del libro – Gopnik prova che i bambini esercitano fin da neonati molte delle facoltà che determinano il nostro successo evolutivo. Non sono tanto i risultati ottenuti ad avermi sbalordito quanto la breccia da lei aperta nel percorso di conoscenza della mente infantile, l’angolazione e la messa a fuoco di uno scenario vasto e affascinante del quale tantissimi particolari rimangono ancora oscuri.
Il punto di partenza di questa tesi è che la caratteristica distintiva degli uomini rispetto ad altre specie è la capacità di cambiamento del mondo. I bambini trascorrono gran parte del loro tempo a fingere e, se fino a non molto tempo fa, sulla scia delle teorie psicanalitiche e pedagogiche di Freud e Piaget, si pensava che ciò fosse dovuto alla loro inabilità a distinguere la fantasia dalla realtà, è stato dimostrato che sono ben consapevoli di fingere. Quando i bambini creano scenari immaginari non fanno altro che mettere in pratica il pensiero controfattuale, lo stesso che adottano gli scienziati per formulare le loro teorie. Infatti, poter concepire possibilità multiple, persino inverosimili, è un fattore cruciale per cambiare le circostanze dell’ambiente in cui viviamo e il nostro futuro. Come gli scienziati, i bambini costruiscono delle mappe causali del mondo e del suo funzionamento, basate su modelli che, aggiustandosi di pari passo con la loro crescita, sono in continua trasformazione. Se non fosse per tutti i case studies citati, si crederebbe a stento che fin dai nove mesi i bambini traggono una serie di calcoli statistici e probabilità dalle loro sperimentazioni. Si tratta di mappe inconsce e codificate nel loro cervello, ma a un altissimo grado di complessità e astrazione, ben lontane dallo stereotipo che, fino a solo venti anni fa, voleva i bambini connessi unicamente con l’esperienza percettiva immediata.
Quando, al museo di storia naturale, ho detto a mio nipote cinquenne che l’uomo deriva dalla scimmia, lui, anziché opporre gli interrogativi che visibilmente stavano invadendo la sua testa, ha raccolto in silenzio. Giorni dopo, all’asilo, ne ha dato questa spiegazione: “sì, maestra, noi veniamo dalla scimmia, altrimenti perché mangiamo le banane?”. Come sostiene Gopnik, i bambini producono e chiedono decine di spiegazioni causali al giorno che potrebbero non sempre essere le stesse che fornirebbe un adulto ma rispondono a una logica.
Le mappe causali dei bambini non riguardano solo il mondo fisico ma anche la biologia, l’affettività, la psicologia. Anzi, da specie sociale qual è l’uomo, l’abilità di comprendere la mente umana è un fattore fondamentale per la nostra sopravvivenza. E’ questo lo scopo che serve l’amico immaginario, un fenomeno molto comune nei bambini e, contrariamente a quanto si pensi, niente affatto collegato a forme di nevrosi o genialità. Racconta Gopnik che Olivia, una bambina cresciuta nella Manhattan letteraria, inventò un amico immaginario, Charlie Ravioli, che però era troppo indaffarato per giocare con lei [per cui] gli lasciava sistematicamente dei messaggi nella segreteria ai quali lui non rispondeva mai. A soli tre anni, Olivia ha già interiorizzato la complessità delle relazioni di un intellettuale newyorkese.
Senza azzardare formule o quantificazioni, l’autrice spiega che l’analisi dell’esperienza dei bambini potrebbe contribuire anche a fare luce nella spinosa questione filosofica della coscienza. E’ molto interessante notare che i bambini hanno piena consapevolezza del proprio pensiero ma sembrano attingervi in maniera irrazionale e, soprattutto, non lo concepiscono come un flusso di coscienza spontaneo (si pensa a qualcosa solo se c’è qualcosa da pensare). C’è di più: fin da piccolissimi, si pongono interrogativi morali, i concetti di bene e male non sono collegati a un sistema di ricompense e punizioni, come erroneamente si credeva, ma a un’etica propria. Tendono a comportarsi altruisticamente e a manifestare giudizi nei quali sanno distinguere tra l’infrazione di una regola e un torto vero e proprio. La prima conta meno del secondo, nonostante la natura prevalentemente normativa del loro ragionamento, il che significa che l’empatia nei bambini è una forza in grado di far cambiare le norme più radicate. Una forza rivoluzionaria.
Questo libro offre tanti spunti di riflessione ed è con tre di questi, apparentemente slegati tra loro, che concluderei perché mi sembrano di un’importanza vitale nella prospettiva concreta di migliorare la nostra civiltà.
Uno. Per dare campo all’immaginazione occorre conoscere e, benché il cervello di un bambino sia lo strumento più avanzato e potente di apprendimento, questo processo richiede tempo. Il fatto che il bisogno dei bambini delle cure dei genitori si protragga tanto a lungo, non dipende solo da un istinto primordiale di attaccamento e protezione ma dalla loro necessità di essere liberi dalle incombenze quotidiane per dedicarsi al gioco come strumento cognitivo. Un bimbo di tre anni magari non riesce neanche a infilarsi il cappotto (le distrazioni sono decisamente troppe: deve badare alla tigre fantastica e all’amico immaginario, accertarsi che si copra bene anche lui). In realtà, però, sta esercitando alcune delle capacità più sofisticate e profonde sulla natura umana dal punto di vista filosofico.
Due. Nelle ricerche che tendono a stabilire se a plasmare il carattere del bambino incidano più i fattori ereditari o l’ambiente, si è scoperto che per i bambini poveri il quoziente intellettivo sarebbe meno influenzato dai geni rispetto ai bambini ricchi. Questo significa che investire nella scolarizzazione in ambienti disagiati, anche con interventi minimi, può fare la differenza.
Tre. Gli esseri umani si dedicano ai bambini in maniera più generalizzata e totalizzante di qualsiasi altra specie. I bambini assolvono a una funzione molto più ampia della semplice riproduzione dei geni: consentono di accumulare conoscenze , adattarsi a nuovi ambienti e crearne di nuovi.
Rispettare e coltivare la cultura dell’infanzia, al di là delle preoccupazioni immediate e dell’interesse egoriferito dei genitori, prima ancora che un imperativo morale è un grande vantaggio per tutti noi.
Bellissimo post! Grazie.
RispondiEliminaGrazie. Ottima recensione. Complimenti. Se ti interessa l'argomento ti suggerisco i lavori di Ellen Dissanayake, oltre all'imperdibile Tuo figlio è un genio" di Gopnik, Meltzoff e Kuhl. E poi anche "Etologia umana" di Eibl-Eibesfeldt. Grazie ancora. Aurora
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