Ero arrivata dai Topipittori da qualche settimana, quando Paolo mi mostrò il catalogo della mostra Calpestare la guerra alla Casa d’Arte Futurista Depero di Rovereto. La mostra riunisce una singolarissima raccolta di tappeti afghani raffiguranti immagini di guerra dal 1979, anno dell’invasione sovietica, a oggi. Il libro mi colpì subito, ma senza darmi una chiara percezione dell’effetto che i tappeti avevano su di me. Lo portai a casa e, solo a distanza di giorni, mi tornò in mente il meraviglioso saggio di Cristina Campo sui racconti de Le mille e una notte.
Nella postfazione al catalogo, i curatori della mostra spiegano che di recente i tappeti di guerra hanno attirato l’interesse di critici e galleristi d’arte contemporanea di fama internazionale. L’esposizione alla Casa Depero, tuttavia, ha scelto di riportare gli artefatti alla loro funzione originaria di ornamento, sul quale il fruitore (visitatore) posa il piede, in barba al magnifico disegno impresso dall’artista. Un atteggiamento anticonvenzionale, se si pensa alle cautele con cui ci avviciniamo agli arazzi abitualmente nelle pareti dei musei.
Le mille e una notte, Léon Carré.
Lungo il percorso espositivo, infatti, i tappeti sono disposti a terra
e, come lascia presagire il titolo della mostra, non si tratta di una
cifra stilistica quanto di una morale dichiarazione d’intenti. Perché
protagonisti di questi tappeti sono pattern di carri armati, kalashnikov
e bombe a mano in ossessiva ripetizione, che danno testimonianza di una
vera e propria propaganda bellica.
Tappeto Baluchi 1990, Kabul.
Nel suo illuminante saggio Il flauto e il tappeto, Cristina Campo analizza alcuni aspetti della fiaba – difficilmente altrove si può trovare un equilibrio così ben riuscito tra critica e folgorazione poetica – e de Le mille e una notte, in particolare. È evidente che il tappeto ha un ruolo predominante nella cultura mediorientale perché lo si ritrova in quasi tutti i racconti di Shahrazad e per i più disparati uffici. Su di lui si giocano questioni di amore, morte, potere e magia.
Il tappeto magico, Monro S. Orr.
Ma, si chiede ripetutamente Cristina Campo, perché siano proprio i tappeti a volare. In fin dei conti, i cavalli alati e gli unicorni delle fiabe della tradizione occidentale sono creature più inclini al moto, di una stuoia riccamente decorata. Il motivo che arriva a individuare, con maestria da funambola, è che il tappeto è la superficie di contatto con la preghiera, la meditazione e la ricerca di sé. Quindi con l’elevazione mistica, la levitazione, il volo. Nei paesi islamici, esistono tappeti che, in assenza di una moschea, i fedeli utilizzano nei momenti della preghiera. Sineddoche del luogo sacro che riproducono l’arco a sesto acuto e la lampada votiva da orientare verso la Mecca, sono per la Campo delle piccole moschee portatili.
Tappeto per la preghiera.
Tres destinos, Remedios Varo.
Inoltre, l’atto di tessere ricorda l’opera di un creatore che ordisce
trame per le sue creature, tanto che nella tradizione orientale il
destino dell’uomo è paragonato al rovescio nodoso di un tappeto di meravigliosa complicazione per cui solo attraverso qualche intuizione fugace è possibile intravedere l’altro lato.
I disegni dei tappeti orientali, che hanno una tradizione millenaria e
ramificata in tutto il Medioriente e l’Asia centrale, prefigurano spesso
un paesaggio edenico, dove giunge soltanto colui che si raccoglie in
una pratica ascetica.
In un viaggio recente a Istanbul, ho sperimentato io stessa il potere di grande intimità di una stanza interamente ricoperta di tappeti. Entrare in una moschea è spogliarsi delle scarpe, sentirsi vicini al resto delle persone per via della nudità dei piedi e, allo stesso tempo, estraniati dal mistero insondabile dei versi e di una danza sconosciuta. Niente di più distante dalla processione di ori, cappotti e pettinature delle messe domenicali della mia infanzia. Un tappeto è un invito a fermarsi, inginocchiarsi, stendersi. È un mezzo di isolamento e contemplazione estatica, ma è anche condivisione: quando si è bambini, per giocare si preferisce il tappeto al divano e, quando si è adulti, sedersi su un tappeto significa annullare la distanza formale dalla seduta per sentirsi alla pari con gli altri.
Tappeto volante (con qualche supporto!)
Per rispondere alla sua domanda sul tappeto volante, Cristina Campo risale alla tradizione dei tappeti come strumenti di narrazione ed è qui che trovo il motivo della mia iniziale perplessità. I tappeti raccontavano poemi, saghe famigliari, testi sacri, cosmogonie, in un linguaggio mistico, di grande raffinatezza estetica e sapienza artigianale. Esperte nell’arte erano le donne (donne erano anche le ricamatrici afghane dei tappeti di Alighiero Boetti) e persino i bambini, le cui uniche mani erano in grado di intrecciare i diecimila nodi in un decimetro quadrato dei tappeti Senneh.
I mille fiumi più lunghi del mondo, Alighiero Boetti.
Questo codice fatto di segni, schemi e grovigli, veniva tramandato ai tessitori locali dai maestri del telaio in viaggio per i villaggi del Medioriente. E il grado elevatissimo di laboriosità e sofisticazione è così espresso dalla Campo:
Tejiendo el manto terrestre, Remedios Varo.
Parlare per il tappeto di simbolismo non è meno infantile che parlarne della fiaba e la parabola, sensi e oltresensi vi sono annodati insieme altrettanto strettamente quanto l’ordito allo stame e in essi ciascun uomo – come nelle storie di quell’antico maestro, delle quali ciascun uditore non udiva che una sola parte, ma completa e perfetta – leggerà il messaggio destinato a lui e a nessun altro. Su questa soggettiva oggettività la mente che contempla un tappeto può riposare soavemente, come in un bosco animato da una sorgente nascosta. Le sapienti misure, il disegno concentrico, il ristoro balsamico di colori puri, distillati dalla natura e rinfrescati in acque correnti convertono il tappeto in un fulcro di contemplazione, non indegno qualche volta di una delicata parentela col sacro mandala.
Segue, da questa osservatrice di suprema eleganza, una lunga serie di interpretazioni possibili dei messaggi di un tappeto attraverso gli occhi delle diverse culture orientali che lo guardano. Ciò che mi dà da pensare è, da un lato, l’aspetto fortemente rituale della fabbricazione e dell’utilizzazione del tappeto. Ho sempre notato questo tipo di cura nei gesti di mia nonna, ai quali da bambina non sapevo dare un significato. Lei attribuiva una diversa destinazione d’uso a ogni tappeto, ognuno era il prescelto per una determinata stanza, una determinata stagione e persino una determinata ora del giorno e della notte, in una geometria scandita dai cicli temporali e da una rincuorante abitudine. Quando ci penso, ho ancora sotto il naso l’odore muschiato del lunghissimo tappeto azzurro che ci obbligava a stendere in terra e poi a riporre, piegato a ventaglio, sul davanzale della finestra una volta finito il bagno. Non erano gesti vuoti ma una rete magica di obblighi e doveri di grande delicatezza, da osservare come la metrica del poeta e il breviario del monaco, direbbe forse Cristina Campo.
Tappeto di Pazyryk, il più antico al mondo.
Ed è sempre a mia nonna che collego la seconda riflessione sui tappeti di guerra, al suo insegnamento a dare a ogni cosa il suo nome con precisione di sfumatura. Da piccola, pensavo che solo noi a casa avessimo la credenza, la cassapanca, il comò, l’abat-jour, che fossero nomi usciti dalla sua fantasia perché nessun’altro li usava. Si trattava, invece, di un’accuratezza e una varietà lessicale non troppo comuni. Ed eccomi arrivare al confronto tra i tappeti di guerra e i tappeti orientali di cui parla la Campo: manca totalmente, nei primi, la ricchezza, l’enigma, la polisemia. La capacità di evocare significati plurimi, figure e astrazioni. Danno un’unica lettura possibile, che ognuno di noi classifica secondo i propri filtri culturali, ma senza grandi sforzi d’immaginazione.
Tappeto Baluchi 1980, Herat.
I contorni frastagliati delle armi, dei motori e delle munizioni di questi tappeti, sullo sfondo piatto monocolore ricordano quasi la grafica 8 bit dei videogiochi degli anni ’80.
Il videogioco Space invaders.
A farla da padrone, in alcuni di essi, è la cronaca. L’immagine dell’attacco alle torri gemelle è particolarmente inquietante, non tanto per il clamore delle esplosioni e l’iperbole apocalittica (anche qui da videogioco: ci sono persino un missile e una portaerei ai piedi delle torri), ma per le silhouettes, in evidente sproporzione, che si lanciano dai grattacieli. In altri ancora, la celebrazione di figure politiche contravviene al divieto della rappresentazione figurativa della cultura islamica, inaugurando forse una nuova forma di comunicazione. In fin dei conti, se il tappeto è una delle più antiche forme di narrazione, probabilmente è inevitabile che il linguaggio si adegui alle forme del contemporaneo.
Tappeto Karghay 2001, Herat.
Tappeto Baluchi 1995, Herat.
E a chi proprio non riuscisse a rassegnarsi alla perdita del potere immaginifico dell’arte, consiglierei di andare a visitare i dipinti fiamminghi del Rijksmuseum di Amsterdam, soffermandosi sui pittori minori che riservano ispirazioni inattese, portandosi in testa le minuziose descrizioni della luce di Cristina Campo. Provare per credere.
Tutte le puntate precedenti de I regni dell'immagine le trovate qui.
Qualche tempo fa, non ricordo in che libro, qualcuno si chiedeva che soddisfazione potesse esserci nel conoscere il nome di un fiore: non è sufficiente osservarlo, annusarlo, toccarlo? Mi ha fatto pensare, questa riflessione. Personalmente, conosco i nomi di molti fiori che mi fa piacere riconoscere, quando incontro. È una forma di saluto. Come il chiamare per nome una persona: la prima volta che lo si fa, costituisce una piccola emozione. Nominare è un modo tipico dell'umano di riconoscere l'esistenza di una cosa, come parte nell'ordine del cosmo. E nei nomi si riverbera, si celebra la bellezza delle cose. Non per nulla, il battesimo è un rito simbolicamente fra i più profondi. E significativa è quell'esigenza di cambiare nome che coglie l'individuo nel corso della vita dopo un'esperienza di mutamento radicale, come l'adesione a una religione o il superamento di una grave malattia (come accade in alcuni Paesi Asiatici).
Ciò non toglie che le cose esistano malgrado le nostre convenzioni, come rifletteva il misterioso scrittore di cui sopra. E sarebbe bene ogni tanto fare l'esercizio di avvertirne il manifestarsi in un vuoto di parole, come misteriose epifanie.
Detto questo, ho una vera e propria collezione di dizionari, manuali di riconoscimento, piccole eniclopedie tematiche, vocabolari, grandi libri del... eccetera. Ne acquisto di ogni genere, su tutto: alberi, fiori, arbusti, uccelli, uova, pesci, etimologie, sinonimi, contrari, teatro, conchiglie, opera, rime, antiquariato, giardini, citazioni, santi, arte, cinema, icone, iconografia, rettili, pittura, mitologia, cetacei, letteratura, astronomia, religioni, stili architettonici, personaggi di romanzo, retorica, fiabe, filosofia, fauna montana, metrica, flora mediterranea, analogie, moda, musica, colori, fenomeni meteorologici, modi di dire, storia, simboli...
Orientarsi nel Creato richiede, infatti, un cospicuo equipaggiamento. E avere a disposizione uno scaffale di supporti agili e ben fatti dà una mano non da poco. Tornare a casa con una curiosità - un lucertolone o un albero mai visti prima, il nome di un artista sconosciuto, un dio inca con una faccia da delinquente – e andare a cercare di che si tratta, è una cosa che mi dà un certa soddisfazione. Certo, oggi c'è il web che si può consultare anche per strada con il proprio smartphone. E sia gloria a wikipedia. Ma certi manuali che ho (mi viene in mente Il libro dei fiori di Ippolito Pizzetti o Lunario di Alfredo Cattabiani, ma anche Manuale di linguistica e retorica di Angelo Marchese) sono talmente belli e ben fatti che difficilmente sono sostituibili.
Tutto questo discorso è per introdurre l'ultimo mio acquisto in ordine di tempo: Il libro dei simboli: riflessioni sulle immagini archetipiche, edito nel 2011 da quel benefattore dell'umanità che è Taschen, e curato da uno (fino a ora a me) sconosciuto The Archive for Research in Archetipal Symbolism (ARAS) con sede a New York.
808 pagine, cinque grandi aree tematiche (Creazione e Cosmo, Mondo Vegetale, Animale, Umano, Spirituale, a loro volta divise in sezioni e sottosezioni), 800 immagini a colori e 350 testi su altrettanti simboli, al prezzo di euro 29,90 euro (le immagini che vedete a illustrazione del post sono quelle dell'edizione inglese, disponibili nel sito di Taschen).
Uno splendido affare sotto tutti i punti di vista. E la nostra amica libraia Diletta, capace di vendere ghiaccio agli eschimesi e pois ai dalmata, mi ha anche fatto un po' di sconto. In questa esauriente recensione apparsa su Il giornale dell'arte a firma di Viviana Bucarelli, trovate notizie puntuali e precise su questo volume, la cui redazione è il punto di arrivo di un monumentale lavoro durato quattordici anni, frutto a sua volta della strepitosa collezione accumulata negli anni dall'ARAS. Come è detto nell'articolo: “17mila immagini, «mitologiche, ritualistiche e simboliche», volte a catalogare, più o meno, l’insieme dell’inconscio collettivo, e 90mila pagine di scritti.”
Come si legge nella Prefazione, a questo libro ha lavorato un vero e proprio esercito di persone, fra redattori, studiosi dell'ARAS e autori a cui sono stati commissionati i saggi (una cinquantina fra artisti, scrittori, psicoanalisti e accademici delle più svariate discipline), il tutto sotto l'abile guida di Ami Ronnenberg (responsabile ditoriale) e Kathleen Martin (editor).
Naturalmente questo non è l'unico libro sui simboli che possiedo. Comprandolo, pertanto, mi sono chiesta che senso avesse un altro libro sui simboli. A colpo d'occhio, solo sfogliandolo, però, questo volume manifesta la propria unicità. Intanto per le immagini. La scelta è veramente straordinaria: sorprendentemente puntuale, precisa, approfondita, attenta, illuminante. E qui, si percepisce chiaramente il lavoro sull'immaginario che è alla base della ricerca dell'ARAS, archivio nato sotto l'egida e l'ala del pensiero di Carl Gustav Jung, e che da esso trae la sua principale ispirazione. La medesima originalità si ritrova nei testi che non si soffermano esclusivamente, come capita altrove, su contesti culturali e riferimenti storici, mitologici, religiosi, culturali, presentando al lettore un dovizioso elenco di forme e significati legati a ogni simbolo. Qui il registro è discorsivo, analitico, saggistico, spesso molto personale, sempre legato all'importanza del simbolo nella vita psichica, e molto libero nello stabilire nessi fra culture, sensi, segni, sogni, visioni.
E interessante è osservare come sia nei testi sia nelle immagini l'arco temporale dell'indagine vada dalle più remote origini alla contemporaneità, con ciò implicitamente sottolineando come la vita dei simboli abbia a che fare con il presente e il presente alimenti, e come la loro produzione e importanza culturale non sia limitata al passato, come invece si ha l'impressione sia sfogliando altre pubblicazioni a loro dedicate. Tutto ciò è espresso con chiarezza nella bella Prefazione al volume di Ami Ronnenberg, di cui qui cito un brano. Credo che i concetti e le riflessioni che vi sono espressi costituiscano punti di vista illuminanti per chi lavora con le parole e le immagini.
Non potrebbe esserci modo migliore per esprimere il senso profondo e il principio ispiratore de Il libro dei simboli: riflessioni sulle immagini archetipiche, che citare le parole di Meister Eckhart: “Quando l'anima desidera sperimentare qualcosa, proietta davanti a sé un'immagine dell'esperienza per poi entrare dentro di essa.” La frase allude all'immagine come a una soglia, in grado di condurre a nuovi livelli di significato. Le immagini simboliche rappresentano molto più che mere informazioni: sono semi che germogliano, che racchiudono in sé infinite possibilità. Le parole di Eckhart, inoltre, spiegano l'importanza che può assumere un libro di immagini in un mondo caotico e complesso come il nostro.
In passato, un uomo che aveva in mente di pubblicare un dizionario dei simboli chiese consiglio a C. G. Jung. La sua risposta fu di lasciar perdere, dato che ogni simbolo avrebbe richiesto un libro intero. Noi abbiamo deciso di aggirare l'ostacolo concentrandoci su un'immagine specifica, che da una parte delinea l'argomento, dall'altra si presta a ulteriori approfondimenti: si tratta cioè di un'immagine precisa, che collega il simbolo a un'esprienza altrettanto precisa e che, allo stesso tempo, se l'immagine è stata appropriata, è in grado di evocare il suo fondo archetipico. Quando non siamo riusciti a trovare l'immagine giusta, abbiamo rinunciato a un dato simbolo; in caso contrario siamo stati gratificati da un senso di gioiosa scoperta, come quando aprendo una porta si svela un luogo incantevole e segreto. Paul Klee ha giustamente affermato: “L'arte non riproduce ciò che è visibile. Lo rende visibile.”
La poesia, al pari dei simboli, esprime ciò che non può essere detto. Quando i poeti si svegliano, cala la notte, ha affermato W. S. Mervin. Abbiamo cercato quindi di preservare questa visione notturna includendo versi poetici, un altro modo per riflettere sui simboli. Nelle linee guida abbiamo incoraggiato gli autori a studiare, come poeti che osservano accuratamente la natura, il “dettaglio luminoso” dell'oggetto materiale. Grazie a questa prospettiva si riesce a fare luce su un'altra dimensione. Data la brevità dei testi, la nostra speranza era di riuscire a fornire una visione per quanto fugace della realtà archetipica. Può capitare che il lettore si trovi in disaccordo con una data interpretazione simbolica. Tuttavia, se la voce stimola nuove associazioni mentali, la riteniamo comunque riuscita.
“Una poesia reclama un'altra poesia”, ha sostenuto T. S. Eliot: la speranza è che le nostre riflessioni inducano i lettori ad approfondire le loro. Nel corso degli anni ci è stato chiesto spesso perché avessimo l'intenzione di realizzare un libro sui simboli. Abbiamo sempre risposto che nessuno parte dalla prospettiva dell'immagine. Per indicare la scrittura e il disegno gli antichi egizi usavano un solo termine. Ed è proprio un'idea analoga di perfetta armonia fra immagine e testo a rendere unica quest'opera sui simboli.
Angelo che regge la pergamena del cielo, Chora Museum.
Qualche giorno fa Emanuela Bussolati ci ha scritto, rigraziandoci per il post sulla chiesa bizantina di San Salvatore in Chora. Nel suo messaggio in particolare diceva: “Questa splendida chiocciola del tempo, portata da un angelo, la ricordi? È davvero splendida!”
Nel post precedente non ho potuto parlare di questa immagine: il tema trattato era la rappresentazione dell'anima. Ma le parole di Emanuela mi offrono il destro per farlo ora, perché l'angelo che sorregge la chiocciola del tempo è l'altro elemento per me straordinario dell'iconografia di questa chiesa, che non avevo mai visto altrove. E mi sono subito chiesta che significato potesse avere la grande conchiglia bianca retta dall'angelo. La spiegazione l'ho poi trovata nel volume Chora Museum acquistato sul luogo. L'immagine illustra un passo del Libro della Rivelazione o Apocalisse di San Giovanni (scritta nell'isola di Patmos, non lontano dalle coste della Turchia), che racconta gli eventi che caratterizzeranno, nell'ottica escatologica cristiana, la fine del mondo. Nello specifico, corrisponde al passo 6: 14: E il cielo si ritrasse come una pergamena che si arrotola. Il particolare fa parte, infatti, dell'affresco che raffigura il Giudizio Universale, situato nella volta centrale del Parekklesion (cappella laterale della chiesa): una composizione circolare che ha al centro il cielo che si avvolge su se stesso e, intorno, disposti in circolo, i cori degli eletti al centro dei quali siede Cristo, con a sinistra la Vergine e a destra Giovanni Battista.
Giudizio Universale, Chora Museum.
Il rotolo del cielo, sorretto da un angelo, è di un bianco smagliante, sopra vi risaltano figure d'oro: il sole, la luna e gli astri. L'angelo regge in volo sopra la testa il cielo che, arrotolandosi su se stesso, finisce il tempo aprendo all'eternità: a questo evento il pittore ha dato figura di chiocciola, di spirale: che se da una parte è un motivo simbolico archetipico fra i più ricchi di significati, religiosi e non, dall'altra è una delle strutture che ricorre con maggiore frequenza negli ambiti più diversi del cosmo e della natura, e quindi nei campi più diversi di indagine scientifica: fisica, astronomia, biologia, botanica eccetera.
Minareto, Samarra, IX secolo, Iraq.
Karl Blossfeldt, Urformen der Kunst, 1928.
Quando il messaggio di Emanuela è arrivato, ho mostrato a Paolo l'immagine e ho cercato di spiegargli cosa significasse e il suo commento è stato: sembra la rappresentazione di un concetto di fisica quantistica. A ragione. Quando Albert Einstein rivoluzionò la nostra visione dell'universo annunciando che spazio e materia senza tempo non esisterebbero, lo fece con il linguaggio della scienza, della nuova fisica. Non so se fosse al corrente che un pittore bizantino alle prese con la narrazione della fine del tempo, cioè del cielo, e dello spazio, cioè del mare e della terra, avesse avuto una intuizione simile alla sua. E che la conchiglia-tempo che risucchia nel suo vortice ogni cosa, è quanto di più simile al racconto della formazione di un buco nero sia stato fatto per immagini prima che la fisica quantistica ce lo raccontasse in termini matematici.
Buco nero rilevato nei pressi della galassia nana IC 10, a 1,8 milioni di anni luce
dalla Terra, nella costellazione di Cassiopea. Immagine NASA.
Del resto, il fisico Fritjof Capra nel bellissimo e impervio libro Il Tao della fisica illumina le straordinarie analogie fra le nuove visioni aperte all'uomo contemporaneo dalla fisica quantistica e quelle dei mistici orientali buddisti, induisti e taoisti. Il che sembra suggerirci che religione e scienza hanno modi diversi di arrivare a intuire e a spiegare medesimi fenomeni.
Qualche giorno fa Laura Ottina nel suo Animalariumin un bel post sullo scienziato tedesco Ernst Haeckel, scrittore illustratore di prodigiosi volumi di scienze naturali dedicati a invertebrati come spugne, meduse, anellidi, e a organismi unicellulari marini come i radiolari, scrive: “Come artista e scienziato compiuto, Haeckel era affascinato dai modelli e dalla simmetria, e trovò ispirazione nella convinzione di Goethe che arte e scienza possono portarci a comprendere le verità fondamentali della natura.”
Hernst Haeckel, Ammoniti, Kunstformen der Natur, 1904.
Quando gliene ho parlato, Paolo mi ha fatto notare che per i greci arte e scienza
coincidevano e infatti per esprimerle ricorrevano allo stesso termine: téchne.
Viene da riflettere su quanto siamo limitati, oggi, a oltre cento anni dalla scoperta della relatività, nel nostro modo di vedere le cose, legati come ancora rimaniamo a un'idea di scienza spesso incapace di pensare ai fenomeni fisici e biologici e agli strumenti adatti a sondarne la profondità, in modo complesso, come parti inscindibili di una fondamentale unità.
Un'ultima riflessione. Che la fine del tempo sia nell'Apocalisse descritta come una pergamena che si arrotola, merita una riflessione.
Giudizio Universale, pannello di tetrastico, Monte Sinai
monastero di Santa Caterina, XII secolo.
La pergamena fu inventata nella città di Pergamo, in Asia minore, non lontana da Bisanzio, quando gli Egizi, sentendo minacciato lo splendore della biblioteca di Alessandria da quello sempre crescente della biblioteca di Pergamo (secondo il racconto di Plinio il Vecchio), smisero di fornire papiri alla città. Le pelli di agnello trattate con calce si rivelarono allora un supporto elastico e resistente, ideale per la scrittura e quindi un valido sostituto del papiro, di cui a quel punto si poté fare a meno. Da questo, infatti, poi nacque la forma del volume e, quindi, del libro come fino a oggi è stato inteso. Attraverso l'analogia fra il cielo e la pergamena, San Giovanni instaura un nesso fra l'avvolgersi del tempo e lo svolgersi del suo racconto. Una sorta di metanarrazione capace, con il medesimo simbolo, di significare due fenomeni contrari. E di suggerire che cose che alla percezione comune appaiono inconciliabili, forse lo sono, come ci dicono la fisica quantistica, l'arte e le religioni, solo apparentemente.
Kariye Camii, Turchia, Istanbul. Cartolina, ca 1890-1900.
Durante le vacanze di Natale, a Istanbul ho visitato la chiesa di San Salvatore in Chora, in turco Kariye Camii o Kariye Kilisesi, edificata nel V secolo, che si trova nel quartiere di Edirnekapı, distretto di Fatih. Si tratta di una architettura bizantina fra le più importanti, che contiene un ciclo di affreschi e di mosaici fra i più celebri e significativi, realizzati su ordine del logoteta (sorta di cancelliere o ministro del Tesoro) Teodoro Metochite fra il 1315 e il 1321.
San Basilio, San Gregorio il Teologo, San Cirillo di Alessandria. Affresco, Chora Museum.
La ricchezza visiva e simbolica di queste immagini è straordinaria, e su di esse esiste, infatti, una bibliografia sterminata. Se ne parlo, è per descrivere un'esperienza di lettura di immagini a cui ha dato luogo il semplice contatto visivo con una materia a me praticamente sconosciuta qual è l'iconografia sacra bizantina che differisce da quella cattolica a cui per cultura sono più abituata. A parte lo splendore indicibile (basti guardare solo l'elegante sfilata di santi, qui sopra), quel che quasi subito mi ha colpito in queste raffigurazioni che hanno come soggetto Cristo, la Vergine e le storie a loro legate, è stata la numerosa presenza di bambini e infanti.
Angelo che intercede per un anima. Affresco, Chora Museum.
Per esempio, il ragazzino nudo, in piedi, in un pennacchio del parekklesion (cappella laterale rispetto al corpo centrale della chiesa), il cui capo è sfiorato dal tocco della mano destra di un grande angelo alle sue spalle. Secondo l'interpretazione che ho trovato, si tratta del gesto angelico di protezione verso un'anima. Ed è stato ipotizzato che si tratti dell'arcangelo Michele che intercede per l'anima di Teodoro Metochite, committente di queste immagini. Ora se si raffrontano il mosaico e l'affresco che rappresentano questo personaggio, ci si rende subito conto quanto le immagini differiscano. Il mosaico racconta del personaggio la magnificenza, la potenza, l'importanza politica e l'appartenenza sociale, l'affresco mira alla sua essenza, dove tutto ciò che ha caratterizzato l'adulto scompare, per lasciar campo a un'immagine di fragilità, ma anche di assoluta integrità, che coincide con quella di un bambino.
Teodoro Metochite offre la chiesa di San Salvatore a Cristo. Mosaico, Chora Museum.
Altri bambini si incontrano nella rappresentazione di Lazzaro, raffigurato in due scene diverse: la prima corrisponde al miracolo della resurrezione, secondo l'iconografia nota. Nella seconda, invece, Lazzaro non è più l'uomo adulto che si osserva nella scena precedente, ma appare bambino, dopo la propria morte, seduto sulle ginocchia e fra le braccia di Abramo, che lo reggono in una figurazione simile a quella di Cristo in grembo alla Vergine. Quel che si vede, è, dunque, la sua anima rinata alla vita eterna. La folla di bambini alle spalle delle due figure in primo piano corrisponde alla schiera delle anime che si raccolgono nel grembo del patriarca, come è detto nel Vangelo di Luca (16,19-31).
Lazzaro seduto in grambo ad Abramo. Affresco, Chora Museum.
Anche nei mosaici della chiesa sono rappresentate diverse nascite: quella di Cristo, ma anche quella della Vergine, e in quanto madre appare anche Elisabetta in fuga dalla strage degli innocenti con il figlio Giovanni Battista, in fasce.
Natività. Mosaico, Chora Museum.
Nascita della Vergine. Mosaico, Chora Museum.
Santa Elisabetta in fuga. Mosaico, Chora Museum.
Ma scene di nascita, o meglio rinascita sono, senza contraddizione, anche quelle di morte, come la Dormizione della Vergine, o Koimesis, cioè il momento della morte di Maria raccontato nei Vangeli apocrifi (nella liturgia bizantina all'episodio corrisponde la festa mariana più importante). Qui, Cristo, in posizione verticale, e la Vergine addormentata sul letto funebre, orizzontalmente, compongono la lettera Tau rovesciata, simbolo sia di salvezza sia di compimento della parola rivelata. Cristo regge un neonato in fasce: l'anima di Maria, in una evidente inversione di ruoli. Un'immagine straordinaria, la cui forza credo possa essere legata al significato simbolico, così profondo anche solo dal punto di vista psicologico, del figlio che rimette al mondo la madre dopo essere stato da lei messo al mondo (Maria, “figlia del proprio Figlio”, scrive Dante).
Dormizione della Vergine. Mosaico, Chora Museum.
Nella chiesa la Vergine è rappresentata in un mosaico anche secondo l'iconografia detta della Madonna del Segno o Blachernitissa, con il Figlio inscritto in un cerchio luminoso al centro del busto e con le mani alzate, oranti. La scritta che la accompagna è “Maria dimora dell'incontenibile” (nel Libro della Genesi, Giacobbe dice di Maria: "Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo", Gn 28, 17).
Madonna del Segno. Mosaico, Chora Museum.
Una definizione che non avevo mai letto finora e che, personalmente, trovo illuminante per la profondità psicologica che sottende, accennando a un principio che informa di sé l'uomo e nel contempo lo trascende e gli sfugge, condizione che rappresenta la difficile, misteriosa e, a quanto sappiamo a oggi, unica posizione dell'essere umano nel cosmo.
Tutta l’iconografia di questa chiesa allude alla resurrezione e alla vita eterna. Dunque, qui, come altrove, si poneva il problema non da poco di come rappresentare la parte spirituale dell'uomo, che per i Padri della Chiesa è indipendente dal corpo. È interessante notare che se anima e corpo sono due sostanze separate accidentalmente unite, in queste immagini la soluzione iconografica assunta per raffigurare il momento in cui, con la morte, l'anima si stacca dal corpo per raggiungere il Cielo, è quella dell'infante, che paradossalmente rappresenta il momento di massima integrità fra corpo e anima. Una contraddizione solo apparente se si pensa che con la resurrezione dei morti anima e corpo si sarebbero ritrovate in perfetta ed eterna unità: dunque in una sorta di integrità dell'essere piena e ritrovata. Perciò si può dire che visivamente il problema della rappresentazione della separazione fra materia e spirito e nel contempo della sua ritrovata unità, qui trova concreta soluzione nell'immagine del bambino. Una soluzione che apre, mi sembra, a riflessioni molto interessanti
Ba, Papiro di Ani, XIX Dinastia, Tebe, circa 1250 a C.
British Museum Papyrus BM 10470.
La corrispondenza fra l'anima e il fanciullo o il neonato venne agli artisti bizantini dai Greci e dagli Egizi i quali raffigurarono la parte spirituale dell'uomo sotto forma di minuscolo essere alato, uccello o creatura volante che si libra sui morenti in raffigurazioni di battaglie o intorno alla barca di Caronte o nelle psicostasie (l'atto di pesare sulla bilancia l'anima del defunto).
Anima che esce dal corpo. Ballerup. c.1240.
The Mills-Kronborg Collection of Danish Church Wall Paintings.
Talvolta, nella concezione greca, la rappresentazione delle anime dei defunti va a coincidere con quella dei demoni, come le Keres, malvagie anime femminili. La corrispondenza fra fanciullo, genio, daimon, ed essenza, anima che abita l'uomo, nella cultura classica, del resto è il punto da cui prendono avvio alcuni celebri saggi, come Puer Aeternus eIl codice dell'anima, in cui lo psicoanalista junghiano James Hillman sviluppa il suo pensiero su infanzia, individuazione e destino.
Dall'iconografia bizantina l'anima raffigurata come infante nudo o in fasce, a volte in atto di uscire dalla bocca del morente, passò poi al Medioevo che rappresentò l'anima dei santi come un bimbo appena nato, puro e senza malizia (animula).
E qui mi fermo. Quando ho visto l'immagine dell'angelo che sfiora il capo del fanciullo, nella Chora di Istanbul ho pensato immediatamente a quella struggente poesia scritta dall'imperatore Adriano poco prima della morte: Animula vagula blandula.
Piccola anima smarrita e soave, Compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a ascendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora Guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non rivedremo mai più… Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti…
(traduzione di Lidia Storoni Mazzolani)
Ecco, questo, credo, può significare a volte sperimentare il senso più risposto di una visione grazie ai nessi che stringono fra loro le immagini a cui il nostro sguardo ci dà accesso e le parole che ci abitano.
La sera successiva a The cave of forgotten dreams (di cui abbiamo scritto qualche tempo fa), ancora cinema: questa volta siamo andati a vedereI colori della passione il film che il regista polacco Lech Majewski ha dedicato al celebre quadro La salita al Calvario (1564), di Pieter Bruegel il Vecchio. Due film diversissimi, ma che trattano entrambi della necessità umana di trasfigurare l'esperienza della realtà in racconto e visione. Due film che potrebbero tranquillamente bastare per i prossimi sei mesi, se frequentare le sale cinematografiche non ci piacesse come ci piace.
Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio, 1564. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
I colori della passione è un film bello e complicato: per i temi che affronta (il rapporto fra realtà e rappresentazione, fra destino collettivo e individuale, fra Storia e storie, fra arte e potere), e per i riferimenti storici e culturali che implica (uno dei periodi più tragici e violenti della storia d'Europa, straziata dall'intolleranza e dalle guerre di religione).
Durante la conferenza stampa di presentazione del film, il regista ha spiegato che quando era adolescente trascorreva le vacanze estive a Venezia. Compiendo il viaggio in treno, tappa obbligatoria era Vienna, dove il Kunsthistorisches Museum rappresentava un appuntamento imprescindibile. Il quadro di Bruegel era esposto nella sala 10 del museo. Fu allora che si instaurò un particolare rapporto fra il regista e il dipinto che rivisita la passione di Cristo. Osservandolo, Majewski avvertiva un irresistibile invito a entrare nella tela, a osservare le storie inerenti a tutti quei protagonisti inconsapevoli. I colori della passione nasce da qui (ascoltate le parole di Majewski sulla pittura di Bruegel perché sono strepitose).
Ho avuto la fortuna di vivere, da bambina, in una casa dove c'erano molti libri d'arte, posizionati, fra l'altro, su un comodo scaffale dove io e mia sorella arrivavamo senza difficoltà. Il nostro preferito era un librone, L'evoluzione dell'arte (curato da Germain Bazin, conservatore capo del museo del Louvre, ed edito da Garzanti) che partiva dalle pitture rupestri per arrivare ai grandi maestri del Novecento, da Picasso a Pollock.
Un corridoio di immagini che frequentavamo con assiduità e gusto, perdendoci nell'osservazione delle epoche e degli stili che a seconda dell'umore prediligevamo, fra paraventi giapponesi, teschi aztechi incastonati di turchesi, saliere del Cellini, tappeti persiani, affreschi rinascimentali, gioielli sciti, vedute ottocentesche, legature bizantine, cammei greci, turneriani mari in tempesta. La nostra educazione artistica aveva anche un giorno della settimana dedicato: la domenica, quando, nostro padre ci portava, e fin da piccolissime, nei grandi musei milanesi - Brera, il Castello e l'Ambrosiana - a vedere la pittura.
A me piacevano le nature morte coi fiori, la frutta, i pesci, gli strumenti musicali, e i ritratti, con quei visi forti e malinconici che sembravano di persone vive, ma invece erano vissute centinaia di anni prima. Anche i quadri con le storie della Bibbia o del Vangelo erano interessanti con le scene spesso drammatiche e misteriose rappresentate, oppure i dipinti d'oro, con parate di santi e sante, angeli, re e regine, dame e cavalieri con in mano fiori o oggetti strani (alcuni tenevano intere città in un palmo), drappeggiati in tessuti ricamati e colorati splendidamente. O i quadri con le battaglie, le cacce, pieni di cavalli, cani, corazze, lance. Poi c'era anche un'altra categoria di quadri che mi piaceva: quella delle pitture brulicanti di personaggi indaffarati nelle più diverse attività. Categoria di cui, appunto, fa parte il dipinto di Bruguel che è il perno della narrazione, nel film.
Mio padre ci spiegava che di quel genere di quadri erano maestri i fiamminghi, pittori insuperabili nella rappresentazione della luce e della realtà, nei suoi minimi dettagli. A me, oltre a sembrare bellissima quella parola, fiamminghi, che immaginavo volesse dire qualcosa come “cavalieri di fuoco”, pareva insuperabile il piacere di guardare una per una le scene che gremivano la tela ed erano inesauribili. Affacciandomi oltre la cornice del quadro, sporgendomi sul tempo inattingibile che vi era rappresentato, mi chiedevo molte cose. Chi erano quegli uomini e quelle donne? Come vivevano? Cosa stavano facendo? Come mai vestivano in quel modo? Cosa stavano pensando? Cosa era successo dopo l'istante in cui il pittore aveva fermato la scena, quando la vita aveva ripreso a scorrere? Che paesaggi si aprivano, oltre la cornice del quadro?
Apprendere che il film di Majewski sia nato da questo tipo di riflessioni e interrogativi, e affondi le radici nella giovinezza del regista, mi ha colpito, confermandomi che la pittura è uno strumento pedagogico imprescindile, capace di offrire punti di vista e suscitare spontaneamente domande profonde e importanti in chi la osservi, anche senza una specifica preparazione, ma solo con l'attenzione e la curiosità di un bambino, di un ragazzo.
Simone di Cirene, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
Compiendo un passo entro e oltre la cornice, Majewski conduce l'osservatore nello spazio vivo della rappresentazione, portandolo, passo passo, istante dopo istante, nello spazio e nel tempo della finzione. Insieme allo spettatore, nel quadro affollato di una moltitudine di personaggi passeggia e discorre anche il suo creatore, Bruegel in carne e ossa, insieme, di tanto in tanto, al committente dell'opera stessa.
Il carro dei ladroni, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
La prima impressione che ho provato, una volta nel quadro, è stata di paura: una angosciata inquietudine, percependo quel paesaggio sempre identico a se stesso, nelle differenti vedute, come un labirinto senza uscita dove i personaggi erano destinati a rimanere chiusi, in tragica attesa del compiersi dell'evento cruciale che il pittore era stato chiamato a rappresentare.
Le croci, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
Per accumulo, e in un elenco puntuale, momento dopo momento, il regista porta in scena tutti i personaggi che faranno parte della scena finale, o quelli che non ne faranno parte, ma le cui azioni la determineranno o che, semplicemente, il caso ha portato a sfiorare l'evento, per mancarlo e perdersi un attimo dopo nel nulla del vuoto oltre la cornice. Tutto si svolge in un clima di attesa, in una sospensione e in una luce surreali, come al prepararsi di un imprevedibile, inspiegabile evento meteorologico o astronomico.
La vergine e le pie donne, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
Finché piano della Storia e narrazione evangelica si incrociano, fondendosi inestricabilmente sotto lo sguardo attento dell'artista, testimone delle feroci e silenziose atrocità compiute davanti i suoi occhi dai soldati spagnoli sulla inerme popolazione. C'è un momento, nel film, in cui la presenza dell'artista e il suo sguardo chiariscono la propria funzione. È quando il committente chiede a Bruegel se sarà in grado di rappresentare l'efferata violenza di cui le Fiandre sono vittima, per darne la necessaria testimonianza.
L'artista risponde affermativamente e, proprio in quel momento, a un suo gesto (e a un gesto parallelo di Dio, rappresentato come Grande Mugnaio che osserva tutto dall'alto di un metafisico mulino del Tempo) ogni cosa si ferma, ogni movimento cessa, ogni personaggio si blocca nella posizione e nei gesti rappresentati dalla Salita al Calvario.
Il mulino, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
Bruegel spiega: il soggetto del quadro è la caduta di Cristo che sale al Calvario. Ma è l'osservatore esterno al quadro, colui che guarda, ad avere coscienza di questo. I personaggi che vivono entro la cornice, non lo sanno. La caduta di Cristo è solo uno dei molti episodi che accadono in quel momento, in quella porzione di spazio, confusi nel caos della Storia, delle storie, della vita, del Tempo. Per questo i personaggi non sono in grado di rendersi conto di quel che accade intorno e della sua gravità.
Spiega Majewski, durante la conferenza stampa: “Ti possono accadere davanti agli occhi anche le cose più importanti, però tu non le vedi, non le noti, non riesci ad andare oltre la punta del tuo naso. Se Icaro (soggetto di un altro quadro di Bruegel, ndr) ti cadesse al fianco, non te ne accorgeresti perché sei preso dalla routine quotidiana.”
Non solo. Credo che, nella scelta di questa modalità di rappresentazione, vi sia anche un altro aspetto fondamentale: la storia di Cristo, in questo modo, diventa davvero, letteralmente, visivamemente, quella di uno dei tanti uomini che si muovono nel dipinto, fra l'indifferenza della folla. Un destino tragico, perché silenzioso e inascoltato, e comune perché sullo stesso piano di tutte le altre vicende umane, nel flusso della Storia.
La caduta di Cristo, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Solo per questa riflessione mi è parso che vedere questo film, - bello, difficile, duro - sia stato importante. Ha risposto con esattezza ad alcune domande che mi ponevo da che ho cominciato a osservare le immagini, dei quadri e non.