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giovedì 3 dicembre 2015

Arrivano i Minitopi

La prima volta che ho visto un libro illustrato in edizione economica è stato alcuni anni fa al salone di Montreuil, a Parigi, allo stand di L'école des loisirs, che è una delle case editrici di libri per ragazzi più importanti del mondo, con un catalogo fantasmagorico in cui albergano sfilze di capolavori.

Non ho idea di quanti libri abbiano pubblicato dall'inizio della loro storia, che data 1965 (ha compiuto 50 anni, quest'anno). Ma insomma qualche migliaio. Data la qualità del catalogo e la necessità di non lasciare impubblicati libri importanti, molti dei quali diventati classici della letteratura illustrata, ecco la necessità di editare numerosi titoli in edizione economica.

Al loro stand a Montreuil, se mai ci andrete o ci siete già stati, ce n'è una intera parete. Personalmente ne feci incetta: costavano poco e c'erano un sacco di titoli che volevo prendere da un pezzo. Grazie al basso costo e alla qualità dell'edizione, che pur in formato ridotto e in brossura, è ben realizzata, potei soddisfare la mia avidità.


Dopo undici anni di vita, ai Topipittori si è posto lo stesso problema. È chiaro, questo momento viene per tutti gli editori: alcuni libri si esauriscono ed escono dal catalogo e si deve decidere se ristampare o no. In molti casi la risposta è naturale, quando un libro continua a vendere senza interruzioni o cali, si ristampa. Ma ci sono libri che hanno vendite meno costanti e che tuttavia continuano sia ad avere un mercato sia a essere richiesti dal pubblico, che spesso si rivolge all'editore pregandolo di ristampare. Per questo tipo di libri l'edizione economica è la soluzione ideale: rimette in circolo libri che hanno ancora una vita possibile a un costo inferiore, sia per il pubblico sia per l'editore. Il prezzo basso, inoltre, è un incentivo per una fascia di pubblico rimasta tagliata fuori dall'acquisto di libri troppo costosi per il prezzo di copertina dell'edizione cartonata, per forza di cose più alto, data la qualità di stampa e di rilegatura.


Il primo libro che uscirà nei nostri Minitopi, così ci è parso naturale chiamare le nostre edizioni economiche, è E sulle case il cielo, di Giusi Quarenghi e Chiara Carrer, che a oggi ha avuto quattro edizioni. L'edizione economica costa 12,00 euro e non ha un formato ridotto, rimasto quello originale: 13 x 19. Avrà anche due contenuti speciali: due scritti. Il primo è di Roberto Denti, uscito su Liber n. 77, sulla poesia per ragazzi e sulla novità che, nel 2007, questo libro introdusse nel panorama della proposta editoriale della poesia per ragazzi; il secondo, di Giusi Quarenghi che riflette sulla lingua poetica.
Nel 2016 usciranno almeno altri tre Minitopi, ma i titoli non ve li riveliamo, perché vogliamo siano una sorpresa. Avranno formati un po' più ridotti rispetto ai cartonati, ma promettiamo accessibilità, un prezzo contenuto, combinata a una buona qualità di edizione per carta e stampa. Quindi state all'occhio.

venerdì 13 novembre 2015

L'antologia Scacciapensieri: poesia come terapia

[di Anna Castellari e Dome Bulfaro, per il gruppo di Mille Gru (associazione culturale, Monza)]

Mille Gru pratica la poetry therapy dal 2009, da quando cioè i poeti Dome Bulfaro e Ivan Sirtori hanno avviato insieme il progetto Leggere, con cura presso l’ospedale Alessandro Manzoni di Lecco.
La prima edizione di questa operazione di poetry therapy prevedeva la somministrazione quotidiana di una poesia al giorno per sette giorni in alcuni reparti individuati con i medici dell’ospedale. Era prevista anche la somministrazione di un foglio “in bianco” in cui il paziente poteva scrivere (non necessariamente in versi) pensieri sulla propria degenza.
L’operazione si concluse con un reading di Bulfaro e Sirtori dedicato e di supporto a tutte le categorie ospedaliere ed extraospedaliere che si prendono cura dei degenti, a cominciare naturalmente dai familiari.


Naturalmente quella prima esperienza, pionieristica (almeno per noi dell’associazione Mille Gru), evidenziò pregi e difetti dell’operazione attuata, ma costituì la base per uno sviluppo di Leggere, con cura, non solo su Lecco, per il secondo anno realizzato sempre da Dome Bulfaro e Ivan Sirtori, ma anche nell’Ospedale Maggiore di Milano (progetto coordinato da Patrizia Gioia, supportato e ospitato, come altri successivi, da Fondazione Arbor e SpazioStudio13) e in tutti gli enti ospedalieri di Lugano (progetto coordinato da Fabiano Alborghetti).


L’azione di poetry therapy di Mille Gru dopo Leggere, con cura si è estesa in più direzioni, sempre coordinata da Dome Bulfaro e Simona Cesana, presidente dell’associazione. Tra queste ricordiamo almeno La poesia salva l’anima, progetto di Silvia Monti edito da Mille Gru, e il percorso di formazione come volontario nell’Hospice di Monza da parte di Dome Bulfaro che ha poi portato alla produzione dello spettacolo Pagina Quaranta (regia di Enrico Roveris), finalizzato a diffondere la consapevolezza del ruolo che un hospice svolge all’interno di una comunità, oppure Dire, con cura realizzato da Dome Bulfaro a Melbourne, con gli italiani immigrati degenti nel Centro Coesit.
Tutti questi progetti sono raccolti nella nostra pagina dedicata alla Poetry Therapy, pagina che abbiamo appena aperto per raccogliere i materiali di tutti progetti realizzati in quest’ambito di ricerca dal gruppo di Mille Gru.


Dopo sette anni di lavoro sul campo è maturata l’ultima nostra azione di poetry therapy: l’operazione Scacciapensieri, che prende il via con il libro Scacciapensieri. Poesia che colora i giorni neri, la prima antologia di poesia-terapia in Italia per bambini dagli 8 anni in su.
Scacciapensieri è il secondo volume della collana TITA. Il bambino è padre dell'uomo, edita da Mille Gru con il sostegno di Fondazione Arbor. Si tratta di un’antologia curata da un anno a questa parte da Anna Castellari, Patrizia Gioia, Dome Bulfaro e Simona Cesana. Abbiamo pensato a un libro di poesie che potesse funzionare anche come strumento di lavoro per tutti i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociosanitari che intendono aiutare i bambini a trasformare positivamente le loro piccole e grandi paure, i loro piccoli e grandi dolori, le loro piccole e grandi malattie.



L’antologia Scacciapensieri è stata pensata dai quattro curatori a misura di bambino: ovvero come un libro che possa essere maneggiato anche da bambini, che parli il loro linguaggio, che di volta in volta sappia affrontare temi difficili in maniera tanto leggera quanto seria, tanto allegra quanto attenta.
Affinché il libro sia maggiormente funzionale all’uso terapeutico e risulti al tempo stesso più gradevole, il materiale non è stato suddiviso in ordine alfabetico o per autori, ma è stato organizzato classificando le poesie terapeutiche in sette 'medicine' principali + una medicina speciale: amore, dialogo, risata, stupore, natura, tempo, armonia + aforismi.


Come si può notare da queste otto parole chiave, non si tratta di medicine vere e proprie perché, non è superfluo dirlo, questo libro non mira in alcun modo a sostituirsi alla medicina ufficile, bensì ad affiancarla. L'intenzione è quella di somministrare poesie capaci di aiutare a riequilibrare il corpo, la mente, l’emotività, lo spirito, l’anima del bambino (e dell’adulto) per orientarlo e riscaldarlo nelle sue esperienze.
Le otto medicine principali individuate sono state desunte dalle poesie che ci sono arrivate da ciascuno dei quattordici poeti antologizzati (molti dei quali sono tra i più noti autori di poesia per l’infanzia). A volte, alcune poesie contengono, inevitabilmente, più di una medicina, qualità che rende difficile la collocazione del libro Scacciapensieri in una sezione anziché un’altra. Confidiamo che i lettori, e i bambini in particolare, sappiano reperire tra le parole poetiche, al di là della suddivisione che abbiamo adottato, la medicina di cui avranno più bisogno.


Tornando alle singole sezioni, una volta stabilite le medicine che accompagneranno il lettore bambino o adulto nella malattia, abbiamo deciso di scrivere veri e propri bugiardini d’introduzione, con tanto di Composizione, Modo d’uso e Avvertenze. L’esperienza di Dome Bulfaro con i bambini – da anni tiene laboratori alle scuole primarie in cui insegna a realizzare prelibri e libri di poesia con la tecnica pop up – lo ha aiutato nel reperire il linguaggio più adatto per questi bugiardini.
Un esempio può essere quello relativo alla prima medicina: l’amore.

Prima medicina. Amore
Composizione: innamorarsi, prendersi cura, conciliarsi e sognare, sempre far sognare all’amore altro e vero amore.
Modo d’uso: queste poesie sono da usare in caso di nullo, scarso o troppo amore, per trovare in sé la forza di superare le più difficili prove.
Avvertenze: in caso di sovradosaggio non è necessario rivolgersi al medico di base: le parole delle belle poesie non perdono mai colore, diventano trasparenti e familiari, diventano parte di noi.


In questa sezione è contenuta la poesia di Silvia Vecchini, forse tra le più immediate ed efficaci medicine di parole.

Voce di mamma, prima cura

Guancia a guancia,
il nostro primo ballo seduti
m’innamori già e pensa,
ci siamo appena conosciuti

Anche le illustrazioni hanno trovato una collocazione precisa, conseguenza di scelte ben ponderate.
Deka, artista scomparso dieci anni fa per una malattia incurabile, sapeva trasformare macchie di colore in soggetti, facendole diventare di volta in volta personaggi di fantasia, alberi, bambine.

Sono colori brillanti, forme astratte che si trasformano e lasciano che la mente di bambini e adulti vaghi liberamente.
Così, i disegni contenuti nell’antologia, sebbene talvolta rispecchino la sezione nella quale si trovano (pensiamo ad esempio alle immagini degli alberi nella sezione Natura), in realtà raccontano una storia a sé stante, leggibile indipendentemente, quasi fosse un silent book nel libro, dal potere calmante e terapeutico.


I poeti presenti nell’antologia sono Alberto Casiraghy, Azzurra D’Agostino, Bruno Tognolini, Chiara Carminati, Dome Bulfaro, Donatella Bisutti, Francesca Matteoni, Giusi Quarenghi, Marilena Renda, Patrizia Gioia, Roberto Piumini, Silvia Salvagnini, Silvia Vecchini, Vivian Lamarque.

lunedì 6 luglio 2015

In questa periferia dell'essere dove si sbaglia sempre


Da otto anni, Chandra Livia Candiani, fra le migliori voci poetiche italiane, conduce incontri di poesia in scuole della periferia milanese. Oggi, la sua esperienza è stata raccolta e pubblicata in Ma dove sono le parole? (Effigie, 2015; parte del materiale si trova anche pubblicato sulle pagine del blog Il primo amore, che ha curato la redazione del volume), perché, come spiega il curatore Andrea Cirolla, “il mondo merita di conoscere questa esperienza e noi avevamo il dovere di raccontarla”. Ci ha segnalato questo libro Silvia Vecchini, che da alcuni anni svolge incontri di poesia con i bambini.

Che questo libro sia nato da uno stato di necessità dell'editore lo si percepisce con chiarezza, così come lo si percepisce dell'esperienza dei bambini, 1400 in tutto nel corso degli anni, e della poetessa che li ha guidati a intraprendere la ricerca delle parole. O meglio più che da uno stato di necessità, questa esperienza da:

una sorgente che straripa dal suo alveo. Una frescura 

al centro del petto. Quest’altra intelligenza 

non ingiallisce e non ristagna. È fluida, 


e il suo movimento non è da fuori a dentro 

attraverso le condutture di un sapere idraulico. 

Questo secondo sapere è una fonte 

che da dentro di te va verso l’esterno.

Sono parole tratte da Due tipi d’intelligenza, poesia citata da Chandra Livi Candiani nella introduzione del libro, e appartengono al poeta Giallâl ad-Dîn Rûmi, nato nel 1207 in Afganistan, morto in Turchia dove è venerato come un santo e un maestro mistico. Parole che Candiani ha tradotto dalla versione inglese The essential Rumi (Harper San Francisco) per i bambini con cui fa poesia: italiani e stranieri, figli di immigrati da ogni parte del mondo.

Il libro è articolato in otto nuclei tematici: Il silenzio; Il mondo, L’autoritratto (talvolta è «La vita di»), Le parole, L’addio; poi Quello che conta (talvolta quello che «resta»), I grandi, Che cosa è la poesia. Un'ultima sezione è dedicata unicamente ai componimenti dei bambini rom, scomparsi dalla scuola dopo l’ultimo sgombero. Alcune sezioni sono precedute dal dialogo di Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla, e ripercorrono i momenti salienti e le motivazioni di questo lavoro poetico sviluppato per e con i bambini.

Racconta Chandra Livia Candiani:

I bambini sono di otto, nove o dieci anni. Ci sono pochi italiani, sono per lo più migranti che vengono dai paesi più diversi: Cina, Uruguay, Brasile, Panama, Perù, Colombia, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka, Filippine, Marocco, Tunisia, Russia, Romania, Ucraina. Alcuni sono appena arrivati, altri sono in Italia da tempo, altri sono nati qui.
[...]
Non inizio mai spiegando loro cos’è la poesia, ma segnando un leggero e variabile percorso per andare insieme in cerca del luogo in cui abitano le parole.
 
Ma dove sono le parole? Un verso di un anonimo poeta nicaraguense dice: «Un poeta siente»: un poeta sente, percepisce, avverte, intende, ha sentore e presentimento. E così giochiamo con il sentire e scriviamo le tracce che i sensi lasciano in noi.
[...]
Inizio spesso i miei seminari con il tema del silenzio. Perché i bambini conoscono per lo più il silenzio teso, il comando a cui si obbedisce facendosi piccoli, raggrinzendosi. E invece cerco di trasmettergli un silenzio che allarga, il piacere del silenzio che è ascolto di sé, del mondo, dell’altro, della sinfonia di cui facciamo parte. È con meraviglia che scoprono il mondo che il silenzio rivela. E alla fine gli dico: ora vi do un compito che dura tutta la vita. E loro abbassano le orecchie, ma quando dico: ascoltare il silenzio, farci tana, aspettare lì le parole, ridono.
[...]
Non è sempre facile arrivare alla frescura al centro del petto, alla fonte, bisogna avere spirito d’avventura, curiosità, coraggio, fiducia e partire da qui, da ora, dal corpo. 
Proprio ora, proprio qui, chiudo gli occhi e sento se ci sono davvero, se il corpo è davvero seduto a terra, se sento il pavimento, se davvero respiro, se sento il mio respiro che dalle narici raggiunge la pancia, se sento il suo viaggio verso l’esterno, dalla pancia alle narici, e le mani, sono calde, sono fresche, sono gelate. E cosa provo, che stato d’animo ho, cosa naviga o galleggia o va a fondo o vola in me. Proprio ora. Proprio qui. 
Ecco, per sapere dove sono le parole, per iniziare un viaggio verso la poesia, bisogna che qui ci sia un corpo. Un respiro. Un sentire. E poi una storia, la nostra, ognuno la sua. E della storia fa parte la geografia. Per questo chiedo spesso ai bambini, oltre al nome e all’età, di dire il loro “paese-radice”.
[...]
Non ho nessuna pretesa che qualcuno leggendo questo testo o partecipando a un seminario di poesia possa diventare poeta, ma ho l’intenzione di regalare strumenti. Strumenti che non ci abbandonino quando la vita è dura e non sappiamo come o a chi dirlo, strumenti che non ci lascino soli quando la gioia ci sommerge e vorremmo lasciare tracce, dire a qualcuno che si può essere felici. Strumenti per conoscere noi stessi, quando ci siamo persi, per tenerci stretti quando ci sentiamo abbandonati, per innamorarci di questo sconosciuto che ci sta sempre accanto, che siamo noi.
[...]
Il primo anno, a scuola, non sapevo che vicino c’era un grande campo di rom, che poi è stato sgomberato e distrutto. Le etnie erano tante e i rom avevano tratti molto simili a bosniaci, rumeni, albanesi; non li avrei distinti. Erano anche vestiti molto bene, molto meglio degli altri; più tardi ho scoperto che i loro vestiti venivano da un ente benefico e li ricevevano a scuola. E a scuola nel bagno delle maestre c’era shampoo e bagno schiuma e potevano farsi la doccia. Ma io li ho incontrati la prima volta, come gruppo o tribù, perché ero sorpresa che alcuni bambini in una classe scrivessero sempre della notte ed era evidente che la conoscevano molto bene. E parlavano delle notti fredde d’inverno, del pericolo della pioggia, del fango. E degli incendi. Quando l’ho detto stupita a una maestra, lei mi ha risposto: «Sono rom, vivono al campo, nelle baracche, certo che conoscono la notte».

Abbiamo estrapolato questi brani dal contesto del libro per darvi un saggio della sua tonalità e di quello che in esso potrete trovare, tenendo ben presente che in queste pagine ogni parola ha un posto e un senso fondamentali nella comprensione del lavoro poetico dell'autrice e dei bambini.

Leggere di “frescura al centro del petto”, di “respiro” e “pavimento” e “terra”, di “Proprio ora, proprio qui” mi ha fatto venire in mente un libro appena finito di leggere: Diario di scuola di Daniel Pennac (trad. Jasmina Melaouha), appassionata riflessione a partire proprio dal dolore e dall'angoscia dei respinti a vita, dei somari per destino, sull'insegnare, sulla vitalità salvifica della parola, sul legame fra maestro e allievo, sulla nozione di amore come centro della relazione pedagogica.
E, infatti, proprio la presenza dell'insegnante in classe, il suo esserci con il corpo, l'anima, la mente e tutto se stesso è la condizione prima e unica per una presenza degli allievi.

Spiega Pennac: Una sola certezza. La presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all'intera classe e a ogni individuo particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale per i cinquantacinque minuti in  cui durerà la mia lezione.[...] .

In un bellissimo scritto apparso su Vibrisse, nella rubrica La formazione della scrittrice, che potete leggere integralmente qui, si legge quale fu il rapporto di Chandra Livia Candiani dapprima con la scuola e quindi le parole della letteratura.

A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua. [...]
Ho continuato ad andare male a scuola. Soprattutto, non capivo la punteggiatura, mettevo le virgole dove pareva a me, un bisogno di una pausa piccina, un fiore o un’erba sul ciglio della pagina, macché, la maestra era furente e una volta disse: “Candiani, quando sarai una grande scrittrice farai quello che vuoi tu, adesso segui quello che ti dico io, una volta per tutte!” Era così ironica, visti i risultati scolastici, che tutte scoppiarono a ridere, ma in segreto mi rimase che c’è una categoria di persone che fa quel che vuole con le virgole. 
Ho cominciato a leggere di nascosto, perché un somaro non legge libri, al massimo giornalini. Io prendevo i libri di mia sorella, alle medie leggevo sotto il banco Goethe, Dostoevskij, Tolstoi, Thomas Mann, Musil e via e via, i grandi classici ma di nascosto, come un furto. E Calvino, tanto Calvino. E Ungaretti e Quasimodo e Montale e Pavese. Non so bene com’è andata che ho cominciato a comprare i libri di poesia, i miei libri. In realtà, cercavo la poesia dappertutto, mi stufavo appena uno scrittore si dilungava, mi sentivo abbandonata appena scriveva cose senza sussulto. Cercavo vie di comprensione del mondo e della vita fulminanti. Cercavo la poesia. Sempre leggevo di nascosto, dovevo mantenere la mia identità somara e un po’ scema, mi sembrava un sacrilegio leggere quei libri, temevo che da un momento all’altro qualcuno, a casa o a scuola, avrebbe urlato: “Come ti permetti!” Un paio di volte è successo quasi quasi così. Comunque, mi è rimasto un senso di clandestinità con la cultura, leggo voracemente, famelicamente, e di nascosto, un po’ in un equilibrio precario, con posizioni sbilenche, appena appoggiata a un muro, sdraiata di traverso, in tram. Spesso, scrivo per terra, un foglietto sul pavimento e una matita. Il tavolo è per il computer e le traduzioni, la terra per la poesia. Scrivo in fretta, all’insaputa di me, se no mi sgrido: “Come ti permetti, somara!?”, correggo dopo, in un secondo, terzo, ventesimo tempo o butto tutto.

Anche in questo caso viene in mente Pennac, quando alla fine del suo libro immagina un dialogo con il somaro che è stato:

Siete tutti uguali, voi prof! Quello che vi manca sono dei corsi di ignoranza! Vi fanno dare esami e concorsi di ogni genere sulle vostre conoscenze acquisite, quando la vostra prima qualità dovrebbe essere la capacità di immaginare la condizione di chi ignora tutto ciò che voi sapete! Sogno un esame di abilitazione in cui si chieda al candidato di ricordarsi di un insuccesso scolastico... […] che vadano a rivangare fra le materie che non amavano. Che si ricordino delle loro lacune in fisica, della loro incapacità in filosofia, delle loro scuse patetiche in ginnastica! Insomma è necessario che coloro che pretendono di insegnare abbiano una visione chiara del loro percorso scolastico. Che riprovino un poco la loro condizione di ignoranza se vogliono aver una minima possibilità di tirarcene fuori.

Scrive Chandra Livia Candiani:
Che razza di lavoro è questo dei seminari di poesia alle elementari? Meno male che sono capitata subito in scuole dove il permesso di essere dove si è non è scontato, è conquista faticosa, è abitare a lungo di nascosto, di sfuggita. Perché a scuola io sto così. Ed è da lì che parto, da quel senso di non c'entrare tanto, di non fare famiglia, né tribù, né mondo con nessuno e, guarda cosa va a succedermi, incontro bambini che partono proprio da lì, ma non come sensazione, come situazione. Ecco dove ci incontriamo, in questa periferia dell'essere dove si sbaglia sempre, sì è fuori luogo, si vacilla fortemente e si vive senza rete. Ma si è acrobati quasi nati, si impara veramente da subito. Come respirare con soggezione, come occupare poco spazio, come irradiare gioia dagli occhi, come scoppiare di felicità se ti danno campo aperto, come saper andare via. Gli immigrati sanno andare via. Sanno dire addio. Non è poco. È una grande disperata risorsa. […] Quando vado a scuola voglio dare la mia faccia e il mio corpo, presenti lì, a dire: sono qui per voi, per accogliervi e ascoltarvi. Voglio dare uno spazio di parola. Ampia. Calda. Necessaria. Giocosa. Dritta alla comunicazione. In dentro. In fuori. Dritta allo sbaglio. In equilibrio. Tra il rispetto e la gioia. Tra la dignità e il nulla dell'altra lingua.”

Leo, otto anni.
Quello che conta
è la formica.
È tutto che conta.
È sacro.


Elias, nove anni, egiziano
I grandi sono gente che salgono la torre inabitata
cose e oggetti che si buttano da soli
rompono le porte
distruggono le nostre anime.


Luka, dieci anni, albanese.
Il mio ritratto

Il nove luglio nacque il rumore
che faceva molta confusione
con movimento e paura,
l'incertezza eccola
sono io.


Christian, 10 anni, filippino
Grazie per la sedia 

ed avermi dato una casa, 

io sono piccolo, 
ma dentro 
sono gigante 
che è sbocciato 
da una briciola


Marian, 10 anni
L’amicizia è una giacca leggera,

una bellezza che non si può restituire.
Amore incancellabile, incontenibile,

immisurabile, ricaricabile, indescrivibile.

L’amore è infinito ogni modo d’amare

è come un oggetto.


Marius, nove anni
Il silenzio

Paura volio giocare ma o paura
volio dire qualcosa ma o paura
volio cantare ma o paura
tui mi prendono in giro e o paura
o paura di tuto e sono da solo.
Silensio.

Il silensio mi pasava tra le vene
sembra infinito il silensio.


Maria, 9 anni
Oggi la neve

mi ha toccato
 dentro al cuore.
La mia mamma è come un uccello che vola

una campana che canta.


Ramayana, 9 anni
Le mani che scrivono le poesie

sono le stesse mani

che fanno le pulizie.


Willi, 10 anni
La mia casa interiore

Io sono stonato 
e la mia anima si si si sissi sissi sissi
vuole carezza 
la mia morbida anima.


Nelle scuole italiane succedono cose importanti di cui nessuno sa e se le si sa, le si orecchia male e le si racconta sbagliate. Invece è bene che si sappiano queste cose, e con precisione.

lunedì 15 giugno 2015

La poesia è una tenda

[di Silvia Vecchini]

A marzo dello scorso anno è uscito Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, e una delle poesie della raccolta diceva così:

Cliccare sull'immagine.

Quando mi è stato chiesto di presentare il libro a bambini e ragazzi, di pensare a un incontro con loro, ho voluto che ci fosse una tenda. Con mio padre ho preparato una struttura leggera fatta di legno colorato. Poi ho chiamato la mia amica Elena e abbiamo messo insieme un po’ di stoffa, corde e cordine, fiocchi e mollette. Abbiamo cucito alcune taschine dentro e fuori la tenda, aperto una finestrina.
Ho pensato la tenda aperta, con una prolunga sul davanti in modo da stendere la stoffa sopra le teste dei bambini di un’intera classe, l’ho usata all’aperto e al chiuso, in libreria, in bilioteca, in un teatro e nei corridoi delle scuole.

In piazza, a Carpi, ospiti della Libreria Radice Labirinto.

Lì sotto accolgo i bambini che, in fatto di rifugi, case fatte con quello che c’è, tane e ripari provvisori sono dei veri maestri. A ogni incontro si allunga la lista di istruzioni su come farne una. L’ultima volta un bambino ha detto: «Io uso sempre lo stendino per il bucato». In effetti, a pensarci bene, è perfetto.
Ho scelto la tenda per portare la poesia tra i bambini perché è il primo luogo che tiriamo su per separarci un poco, per avere un segreto piccolo, per uscire più forti e più allegri. È bene che ci sia un po’ di buio, che ci sia un po’ di luce. Cibo, certo, qualche gioco, qualcosa da leggere.

A Firenze, ospiti della Libreria Cuccumeo.

«Io ci metto sempre mio fratello piccolo», ha detto un altro bambino. Non sempre infatti vuol dire cercare solitudine ma di sicuro vuol dire scegliere cosa mettere dentro, cosa lasciare fuori, quale sarà la parola d’ordine per essere ammessi, chi la potrà conoscere.
Così dico ai bambini che la poesia è una tenda che si apre quando vogliamo. È leggera, la poesia, si può portare dappertutto. È la tenda che facciamo attorno a noi quando vogliamo pensare, ma è anche la tenda che abbiamo dentro, lì dove possiamo ascoltare la nostra voce.
I miei incontri di scrittura con i bambini vanno tutti in questa direzione: ascoltare i propri pensieri e dare fiducia alla propria voce.

A Bibliobrugherio, ospiti della Biblioteca di Brugherio.

Credo profondamente che questo sia uno dei doni più grandi che può farci la poesia. L’ho capito al liceo. Il mio professore di italiano aveva iniziato una pratica semplice: ti affidava un libro in lettura e dopo un paio di settimane sedevi dietro la cattedra e raccontavi cosa avevi letto, che cosa ne pensavi. Per me, capitata in un liceo scientifico con biennio sperimentale di fisica, era ossigeno. Così mi passò diverse letture. Tra le altre ci mise anche La poesia salva la vita di Donatella Bisutti (Mondadori) perché sapeva che scrivevo versi. Quando, ligia al dovere, raccontai anche il breve scritto di Attilio Bertolucci, dove il salvare la vita era legato a un ricordo della seconda guerra mondiale, mi guardò malissimo. Lui voleva che io dicessi perché a me la poesia salvasse la vita. Aveva ragione.

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Ero scampata da un inizio di adolescenza confusa, buia e storta praticamente solo grazie alle parole. Non dissi esattamente questo, ma risposi alla sua domanda e non me lo scordai più. Vidi chiaramente le mani delle poesia che mi erano venute in soccorso. La prima era stata in realtà un ascensore che mi aveva portato più giù, più dentro senza paura, per poi risalire. E la seconda era in realtà un occhio sempre aperto, quello della metafora. La metafora (di cui non parlo in senso tecnico con i bambini, ma che ci godiamo insieme nel flusso delle letture) è stata per me la possibilità di ricominciare, a guardare dentro e fuori, a guardare me stessa come se non mi fossi mai vista prima.

Ospiti alla Casa della Fantasia, a Sarmede.

«Tutte le cose del mondo in realtà un pochino si assomigliano e non potrebbe essere diversamente, dal momento che tutte sono fatte, come ci spiega la fisica moderna, di particelle di una stessa energia. Quindi, ogni volta che fa una metafora, la poesia ci fa esclamare: «Non è vero però è vero!». E il piccolo shock che proviamo ogni volta a questa scoperta ci dà un brivido di emozione. È proprio quello che la poesia voleva! Così ci costringe a fare più attenzione a quello che ci circonda, a scoprire a che cosa può assomigliare, e così a guardarlo come fosse qualcosa di nuovo, mai visto prima…» Donatella Bisutti, La poesia è un orecchio (Feltrinelli Kids).


Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Questo sentire tutto legato insieme, corrispondente a qualche cosa da scorprire, questo avvicinare in un baleno cose lontanissime, questo somigliarsi, questo: «Non è vero però è vero» , questo riprendere a guardare con attenzione è un altro dono della poesia che provo a portare ai bambini.
Nella pratica della scrittura condivisa, che si svolge fuori e dentro la tenda, i bambini scrivono sollecitati da alcuni stimoli alla scrittura semplici, diretti. Non è obbligatorio, ma tutti possono leggere quello che hanno scritto. Il tempo della scrittura ha un doppio nel tempo dell’ascolto di ciascuna delle voci. A volte qualcuno fa più fatica a trovarsi, ma quasi sempre nessuno molla. 

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.

Se con me c’è un insegnante attento, che partecipa al laboratorio e segue i bambini o i ragazzi con discrezione, non di rado finisce per dirmi che Marco ha rivelato qualcosa di se stesso, Giulia è proprio così come scrive, Matteo non aveva mai detto così chiaramente che…
Le voci dei bambini non vanno estorte né costrette a rivelarsi. Tenere qualcosa per sé va proprio bene. Si può anche non scrivere e non dire. Un incontro sulla scrittura è solo un piccolo assaggio.

Ospiti di Scuola Marconi, a Brescia.
Quello che conta è che i bambini abbiano un accesso alla scrittura personale, senza valutazione che non sia la propria, che abbiano il tempo di fare delle prove, cercare nella scrittura quello che più appartiene loro e li caratterizza, che si ricordino che hanno una voce che dentro scorre come una sorgente e che è bene ascoltarla con attenzione.
Non stupisca, infine, questa citazione. Che sembra lontana, che parla d’altro. Eppure per me è vicinissima tanto alla descrizione della poesia e della creatività, quanto alla voce dei bambini.

«Io riposo in me stessa. E questo “me stessa”, la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo “Dio”. [...] Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Etty Hillesum, Diario.

Chi passa qualche ora nelle scuole, nelle classi, sa che uno dei lavori più importanti da fare per tanti bambini (per le ragioni più diverse e per le difficoltà più amare), sia quello di chinarsi e aiutarli a togliere sabbia e sassi.
La poesia è una tenda. Un primo accampamento che dice: «Bene, oggi ci fermiamo. Ci si riposa. Abbiamo sete, vediamo se c’è dell’acqua».

Carpi, Libreria Radice-Labirinto, 8 giugno 2015.

In piazza, a Carpi, ospiti della Libreria Radice Labirinto.

venerdì 20 marzo 2015

Essenza, trasformazione, incanto

La scorsa settimana vi abbiamo presentato In mezzo alla fiaba attraverso le parole della sua autrice, Silvia Vecchini (lo trovate qui). Oggi la parola passa ad Arianna Vairo che l'ha illustrato, offrendo un punto di vista diverso che offre spunti di riflessione introno alle molte voci che fanno un libro.

 [di Arianna Vairo]

In mezzo alla fiaba è stata la mia prima esperienza completa di libro illustrato, un nuovo importante punto di partenza nel mio percorso professionale.
Come un organismo vivente, ha avuto un lungo, bellissimo e doloroso periodo di gestazione; inizialmente caotico, attraverso il dialogo con Giovanna ha conquistato una struttura solida, dove le forme disegnate hanno potuto muoversi liberamente, riempendo di senso ogni piccolo gesto. Alla fine del dialogo, il progetto ha ottenuto con Paolo la sua forma fisica.
Nel settembre 2013 ricevo da Paolo e Giovanna la proposta di illustrare 20 poesie di Silvia Vecchini. Ogni poesia interpreta una fiaba, spogliandola, intrecciando liberamente elementi dell'iconografia classica ed esperienza vissuta o immaginata. Emerge da queste una voce viva, nella natura della poesia e della fiaba. Di queste fiabe-poesie vengo invitata a rappresentare visivamente il punto più oscuro e intimo, centrando gli elementi conflittuali ed esistenziali, portando all'estremo il processo iniziato dalle parole di Silvia.





















Illustrazioni per The Abramović Method.
Illustrazioni per The Abramović Method.




















Mi viene inoltre indicata una direzione stilistica: dal mio portfolio Giovanna sceglie un'illustrazione realizzata per The Abramović Method, terzo volume del catalogo dell'omonima mostra di Marina Abramović al PAC, dove due figure sono rappresentate in maniera tanto essenziale da risultare senza genere, universali segni messaggeri, immagini-linguaggio. La palette di colori che mi viene indicata è primitiva quanto il segno, luce-buio-vita, bianco-nero-rosso.
La mia prima risposta è fuorviante, sporca e azzurra ceramolle di un giovane personaggio femminile, con l'intenzione di attraversare tutte le fiabe/poesie indossandone di volta in volta i panni e i diversi punti di vista, percorrendo le pagine in lungo e in largo come una nuotatrice.

I cigni selvatici: dalla prima prova alla definitiva.

L'intuizione del movimento nello spazio del libro è l'unica eredità che viene approvata, inverto il metodo di ragionamento e riparto dalla parola.
Mi concentro su due soggetti, I cigni selvatici e Raperonzolo, vicini alla mia vita in quel momento. Per due mesi ripeto le stesse metafore visive in decine di disegni, continuamente invitata da Giovanna ad asciugarle e definirle.
Ancora una volta capisco di dover cambiare metodo, accantono i primi due soggetti, ormai raggiunti anche se in forma grezza, e mi avventuro nei successivi, rileggendo le fiabe originarie in un primo momento, le poesie in un secondo e, infine, ricordando la mia esperienza di lettura attraverso il disegno.
Scelgo quindi una tecnica che mi permetta di dipingere lo spazio anziché le forme, come accade nella xilografia dove si scava nel legno ciò che rimarrà bianco in stampa, lasciando alle azioni e ai contorni delle figure un margine di vibrazione incontrollato all'interno di una struttura definita.

Raperonzolo: dalla prima prova alla definitiva.

Da qui in poi, il dialogo tra Giovanna e le mie immagini si fa sempre più fitto, alcune illustrazioni nascono immediatamente, altre passano attraverso molteplici prove e tentativi.
L'editrice mi invita ogni volta a semplificare, ad ammorbidire spigoli ed eccessi, a cogliere di soppiatto i soggetti nel momento fondamentale della crescita, concentrandomi su un loro unico gesto essenziale che contenga forza, coraggio e consapevolezza, ma anche grazia ed eleganza, come il principe che si divincola tra i rovi del bosco addormentato di Arthur Rackham.
Mi ripete tre parole chiave della fiaba, come un mantra: essenza, trasformazione, incanto.
Mi spinge a semplificare le immagini, a rappresentare i soggetti nel momento in cui stanno superando prove importanti, a comprendere che la vita è una successione di forti, coraggiose uniche scelte, da portare indosso con grazia ed eleganza.
Anna Martinucci ha avuto la pazienza di accompagnare l'ultimo tratto di questo percorso, impaginando testi e illustrazioni e disegnando il titolo in copertina.
Grazie a Paolo, e agli stampatori, i tre concetti alla base di questo progetto sono stati replicati nella realizzazione concreta del libro, chiudendo il cerchio.

 
La bella addormentata nel bosco: dalla prima prova alla definitiva.