Visualizzazione post con etichetta teatro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta teatro. Mostra tutti i post

venerdì 5 dicembre 2014

La Grammatica delle nuvole

[di Mara d'Arcangelo]

Alice, la grammatica delle nuvole è uno spettacolo per tutti che dura giusto il tempo di un sogno a occhi aperti: i bambini ridono dei buffi personaggi in scena, i ragazzi rimangono affascinati dalla freschezza dei corpi danzanti e gli adulti riflettono sulle parole che si rincorrono e trillano come sveglie impazzite.

Tema è il tempo, declinato nelle sue forme di vuoto, attesa, perdita, mancanza, ma raccontato lievemente, attraverso un’allegria malinconica, quasi da teatro delle maschere.
Scambi infiniti di scarpe della misura sbagliata, tavoli spostati, tazzine da tè e teiere mai piene e mai vuote: la clownerie fa l’occhiolino al teatro dell’assurdo, in cui tutti attendono che accada qualcosa. Lampade luminose come pendole appese scandiscono un tempo fantastico. Gli strampalati protagonisti sono sempre alle prese con qualche burla, di cui possono essere vittime o artefici. I ricordi di un tempo vissuto con Alice sono in caduta libera; e del suo fantasma ora rimane solo una voce morbida e nascosta.


L’ora del tè si trasforma in cantilena crescente di imperativi rivolti a una personcina ben educata, che presto degenerano in suoni metallici, accompagnati da movimenti franti; la macchina s’inceppa, l’ingranaggio si rompe.
Occorre un po’ di poesia per ricominciare a vivere nel Paese delle Meraviglie.
I personaggi in scena evocano sensazioni inconsce, tracciando e cancellando con movimenti leggeri il confine tra realtà e sogno, in una giostra surreale di evocazioni e memorie.
Finisce lo spettacolo, ma si vorrebbe il biglietto per un’altra corsa su questa giostra di gesti buffi e passi lievi.


La grammatica delle nuvole è il sistema di regole che disciplinano la capacità di sognare, si legge nella presentazione dello spettacolo, ma forse è anche il rifugio di chi ha paura di smarrire lo stupore, tra un rito quotidiano e l’altro.
Un teatro di danza che invita a vedere ciò che in genere rimane inosservato – almeno all’occhio adulto – e fa del paradosso l’espediente per prendersi un po’ in giro. Perdere la meraviglia e poi ritrovarla tra le foglie rosse di un dolce autunno perenne, a prescindere dai vuoti, dalle attese, dalle mancanze.


Lo spettacolo Alice, la grammatica delle nuvole è andato in scena dal 30 novembre al 1 dicembre al Teatro Pim Off di Milano.
Progetto, regia e coreografia di Stefano Mazzotta, con Chiara Guglielmi, Chiara Michelini, Stefano Roveda. Voce off di Maria Cristina Valentini. Produzione di Zerogrammi, in collaborazione con Teatro di Bismantova, Luft Casa Creativa e con il sostegno di Regione Piemonte, MIBACT.


lunedì 27 gennaio 2014

Come nelle ballate

[di Francesca Zoboli]

Qualche tempo fa, sono andata a vedere Murmure des murs spettacolo di grande fascino e raffinatezza, con meravigliose invenzioni nelle scenografie e nei costumi. In parte me lo aspettavo, poiché si tratta della regia di Victoria Thierrée-Chaplin, e chi di voi ha visto i suoi spettacoli ne sa qualcosa.
Questa volta ciò che più  mi ha colpito è stata la struttura narrativa, diversa dai precedenti spettacoli,  che in genere procedevano per 'stanze', con temi diversi e non collegati.



Qui, infatti, c’è una storia che viene raccontata utilizzando degli elementi scenografici e dei personaggi che continuano a ritornare e a ripetersi però scompaginando schemi logici di comprensione basati su tempo e luogo, introducendo in ogni nuova situazione varianti che ne modificano il significato.
Il racconto si svolge tutto attraverso immagini e senza parole.



Inizia da una situazione molto comune, dove una ragazza  (la brava protagonista, Aurelia Thierrée-Chaplin) è alle prese con un trasloco, fra scatoloni, plastiche e oggetti vari inizia a farsi strada un clima misterioso e sospeso: scatole che si muovono da sole, un fantasma/animalone in pluriball, uomini senza volto vestiti di polvere.


Tutto si svolge tra interni dove sono protagonisti muri scrostati, le cui vecchie tappezzerie sanno raccontare storie; esterni di case che ricordano Magritte; finestre illuminate da cui entrano ed escono i personaggi a cui si sono aggiunti nel frattempo un ballerino; un traslocatore/acrobata; uno strano essere con testa da uccello che sembra uscito da un dipinto di Max Ernst.
Di scena in scena, la storia si arricchisce di suggestioni nuove e destabilizzanti, puntando in una direzione decisamente onirica e fiabesca.

Appena a casa, ho visto sul tavolo il bellissimo libro di Blexbolex Ballata, edito da Orecchio Acerbo, e subito il collegamento con lo spettacolo è scattato.

Il meccanismo narrativo mi è sembrato identico e condotto con lo stesso ritmo. Un racconto basato su immagini molto semplici, accompagnate da una didascalia che le definisce in una sola parola, come negli abecedari infantili, è basato sulla ripetizione di alcuni elementi base: la casa, la scuola, la strada, lo sconosciuto, il tragitto, il ponte, la foresta, i briganti.

In ogni capitolo, a queste “figure” se ne aggiungono altre, (la strega, la tempesta, l’ingorgo, il labirinto, le ombre, il presagio ecc); cambiano le posizioni e le relazioni tra loro e, come in un mazzo di tarocchi, anche i significati, giungendo a una complicazione narrativa quasi caotica che spinge il lettore a tornare indietro, a ricostruire percorsi e biforcazioni che portano la storia ad aprirsi a ventaglio con un ritmo sempre più incalzante.




La grande sorpresa è quando le didascalie di accompagnamento spariscono, sostituite da uno spazio vuoto fra la virgola e il punto, che invita il lettore a scriverle, cosa che mi ha ricordato la sensazione che si prova da piccoli, quando si impara ad andare in bicicletta e improvvisamente non ci sono più le rotelline di sostegno.




In questo modo, il lettore ha la possibilità di costruirsi i propri personali percorsi mentali. Così, la storia contenuta in questo libro ognuno di noi l’avrà in mente un po’ diversa dagli altri. Come nelle ballate, appunto.



lunedì 25 novembre 2013

I bambini leggono/5. Teresa, Caterina e il Piccolo Principe

[di Marta Sironi]

Lo scorso mercoledì, Giovanna Zoboli ha deciso di farci un regalo: presa da raptus consumistico ha risposto, senza troppo pensare, a una proposta di sconto giunta per newsletter per lo spettacolo Il piccolo principe, alla sua seconda stagione al teatro Franco Parenti, a Milano. Per fortuna, la nostra Giovanna, sempre molto impegnata a diffondere la buona letteratura illustrata per ragazzi, a causa di un impegno (preso da mesi!) ha dovuto rinunciare ad assistere alla lettura scenica di Sonia Bergamasco (il piccolo principe) e Fabrizio Gifuni (voce narrante e tutte le altre ‘comparse’), accompagnati dalle musiche di Rodolfo Rossi (qui un'intervista sullo spettacolo ai suoi interpreti).
Al suo posto ci siamo andate noi, e ce la siamo proprio goduta. In verità i biglietti erano due e da buona ‘asina razionale’ ho pensato di andarci con mia figlia Caterina: otto anni, instancabile ascoltatrice (e lettrice) di racconti. Al momento di uscire, però, l'altra mia figlia, Teresa (cinque anni e mezzo), si è messa scarpe e giacca e non ha voluto sentire ragioni.
Sul palco, niente scene, niente costumi: si tratta di una raffinata lettura scenica risolta con i soli movimenti del corpo, l’espressività della recitazione e il virtuosismo degli attori (imperdibile la volpe!), l’uso delle luci e la presenza tattile della musica.
Caterina e Teresa sono state rapite dal racconto – un’ora e mezza senza pausa – tanto che alla fine avrebbero voluto una replica successiva (in effetti, Sonia Bergamasco riprendeva subito dopo con la sua Karénina. Prove aperte di infelicità, ma l’ho saputo solo il giorno successivo e forse avrebbe messo a dura prova il loro entusiasmo da neofite…).


Il ritorno a casa è stato tutto una finzione teatrale, alternata a insistiti inviti a tornare a teatro il giorno dopo, a rivedere Il piccolo principe. La recita era alle 19.30 e in sala c’erano altri bambini delle elementari. Un gruppetto lo conoscevamo, perché compagni di piscina - e per coincidenza a nuotare si va proprio il mercoledì, tanto che la micidiale somma “tempo pieno + piscina” lasciava immaginare un immediato sonno profondo sulle poltrone del teatro: alcuni bambini non hanno smentito le previsioni e all’uscita lamentavano la noia soporifera ‘del film’ (sì, l'hanno chiamato proprio così…).


C’erano però tanti altri bambini di cui non ho sentito i commenti, ma il silenzio in sala, per tutta la durata dello spettacolo, credo sia garanzia di un diffuso apprezzamento. Insisto nel dire che non si tratta di uno spettacolo per bambini, pensato per divertire a tutti i costi, ma di teatro vero, quello d’antica tradizione e che continuerà a sperimentare le possibilità espressive del corpo e della voce senza bisogno di effetti speciali, facendosi accompagnare dall’altrettanto magico potere della musica e della luce. L’esperienza mi ha confermato che la separazione di opere per bambini e adulti è in parte fittizia: ci sono cose universalmente belle che i bambini sono felicissimi di incontrare sul loro cammino. Ho anche pensato che, al di là dei futuri raptus consumistici di amici distratti, dovremmo andare più spesso a teatro, un’occasione non solo di conoscere grandi testi e le loro infinite possibilità interpretative, ma anche e soprattutto di vedere da vicino la magica metamorfosi espressiva del corpo umano.


lunedì 19 dicembre 2011

Schiaccianoci e il re dei mostri selvaggi


[di Virginia Stefanini]

La mia reazione immediata alla richiesta di disegnare Lo Schiaccianoci  fu negativa. L’offerta arrivò all’inizio del 1981, da Kent Stowell, il direttore artistico del Pacific Northwest Ballet. Ne fui lusingato, ma le mie ragioni per dire di no erano molteplici e precise. Tanto per cominciare, chi al mondo aveva bisogno di un altro Schiaccianoci? L’imprescindibile albero di Natale e le sequenze nel Paese dei Dolci erano abbastanza per affondare completamente il mio spirito. […] Infine, e più seriamente, dopo sole tre opere e un musical off-Broadway per bambini, non avevo idea di come approcciare un balletto. Dove avrei trovato il tempo per disegnare una gigantesca produzione – due interi atti e più di 180 costumi? Naturalmente l’ho fatto.

Così Maurice Sendak racconta l’inizio della sua collaborazione a una delle più visionarie e celebrate produzioni del balletto Lo Schiaccianoci di Peter Ilyich Tchaikovsky, ancora oggi rappresentata sul palco della Seattle Opera House in occasione delle feste natalizie, a ventotto anni dal suo debutto nel dicembre del 1983.



In attesa di coronare un sogno e volare a Seattle per assistere a una rappresentazione dal vivo del Pacific Northwest Ballet, mi sono tuffata fra le pagine della versione inglese de Lo Schiaccianoci e il Re dei Topi di E.T.A. Hoffmann con illustrazioni originali di Sendak, data alle stampe da Random House nel 1984, e mi sono rifatta gli occhi con la versione filmica del balletto Nutcracker, realizzata da Carroll Ballard nel 1986 e tuttora reperibile in videocassetta sul mercato USA.




C’è qualcosa di sorprendente nell’incontro fra il maestro dell’illustrazione americano e il mondo dei personaggi immaginati dallo scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann prima, nel 1816, e poi reinventati dalla musica del russo Tchaikovsky nel 1891, su richiesta del coreografo Marius Petipa. Quella de Lo Schiaccianoci  è una fiaba onirica e stravagante, (qui ne ha parlato, bene e diffusamente, Anna Castagnoli) che si trasforma in una partitura per balletto romantica e spensierata: l’immaginazione di Sendak sembra ricucire lo strappo che separa l’opera originale dalla sua derivata, restituendo al pubblico forza immaginifica e bizzaria da un lato, e dall’altro allegria e leggerezza.


Nel racconto fantastico di Hoffmann la giovanissima protagonista Maria Stahlbaum (il nome diventa Clara, nel balletto) riceve in dono per Natale dal suo padrino, il giocattolaio e orologiaio Drosselmeier, uno schiaccianoci di legno. Di notte il soldatino e gli altri giochi si animano per combattere una battaglia cruenta con il malvagio Re dei Topi, durante la quale anche Maria resta ferita. Convalescente, la bambina ascolta dalla viva voce di Drosselmeier una bizzarra fiaba nella fiaba che ha per personaggi la principessa Pirlipat, per vendetta trasformata in un mostro dalla madre del Re dei Topi, e un giovane capace di spezzare l’incantesimo grazie alla sua prodigiosa capacità di schiacciare la noce più dura di tutte. Maria, che riconosce nel suo giocattolo deforme il giovane schiaccianoci tragicamente trasformato, aiuta l’eroe di legno a liberarsi della propria nemesi. Per la sua generosità e amore incondizionato viene ricompensata con un viaggio nel Paese dei Dolci e con la mano del principe Schiaccianoci.


Il balletto musicato da Tchaikovsky inanella soltanto alcuni degli episodi del racconto, derivati dall’adattamento successivo di Alexandre Dumas - la festa con la distribuzione dei regali di Natale, la battaglia con il Re dei Topi, il viaggio nel Paese dei Dolci -, ma ci dona in aggiunta una suite musicale indimenticabile, in cui si susseguono un carosello di personaggi eterogenei e le celeberrime danza russa, araba e cinese e il valzer dei fiori.


Pur non volendo eludere la partitura, Sendak e il coreografo Stowell recuperano  nel proprio allestimento moltissimi elementi del racconto originale: lo fanno scegliendo di ambientare il balletto all’epoca di Hoffmann e utilizzando con grande perizia numerosissimi dettagli visivi, costumi, oggetti, arredi, che raccontano una loro storia, parallelamente alla musica e alla danza. Il minaccioso Re dei Topi fa capolino fra le scenografie e come giocattolo in mano al fratellino dispettoso Fritz. Tre invitati mascherati mimano a passo di danza la storia della principessa Pirlipat.

Il padrino Drosselmeier, deus ex machina che sulla pagina innesca la trasformazione dello Schiaccianoci grazie al suo racconto, ritorna come maestro di cerimonie quando Clara e il suo principe giungono in visita al mondo incantato, che lui stesso pare avere modellato: un castello giocattolo trasformato in realtà, popolato di figurine che paiono uscite da una collezione di miniature esotiche.
Nel filmato, la suite più celebre.



 Sendak dimostra, come anche nelle sue illustrazioni, una grande capacità di giocare con le proporzioni, e soprattutto con le grottesche sproporzioni dei personaggi simil-umani, come la tigre della danza cinese, i soldatini, i topi del serraglio del Re ratto dalla molteplici teste, i cui costumi rendono ancora più strabiliante la grande abilità dei danzatori del Pacific Northwest Ballet.

E sono proprio questi ultimi personaggi, buffi e insieme inquietanti, a colpire maggiormente l’immaginazione degli spettatori più giovani, ai quali il balletto e il film sono destinati: ne ho avuta la prova con i bambini di una classe terza di scuola primaria, divertiti da questo lungo racconto sulle punte e pressoché senza parole.
La versione cinematografica del balletto accentua efficacemente la dimensione onirica della storia, trasformandola in una sfarzosa mise en abime: un sogno dentro un sogno dentro un sogno, che si svolge sul palcoscenico di un teatrino dentro un teatrino, e così via… I fotogrammi ci trasmettono lo stupore e l’inventiva di una macchina teatrale in cui gli oggetti e i personaggi sono capaci di cambiare di dimensioni (alla mezzanotte della vigilia di Natale abete e giocattoli diventano enormi, o forse è Clara che rimpicciolisce?) e i mondi, quello della realtà e dell’immaginazione, di fondersi.
Peccato che alcuni congegni scenografici si trasformino in trucchi cinematografici un po’ ingenui, datati 1986: penso, sorridendo, alla casa delle bambole di Drosselmeier che si schiude, rivelando una “minuscola” ballerina che piroetta in sovraimpressione, sotto gli occhi dei “giganti” Clara e Fritz; mentre a teatro fa bella mostra di sé una ballerina “meccanica”  a grandezza naturale, che all’Hoffmann del racconto perturbante L'uomo della sabbia (Der Sandmann) - a sua volta ispiratore del balletto Coppelia-  forse sarebbero piaciuta di più.

Le immagini su carta e registrate in video non possono competere con la visione dello spettacolo dal vivo, non mentono però sulla sorprendente abilità di Sendak come scenografo, costumista e art director. Sarebbe prezioso trovare documenti sufficienti a restituirci anche la magia del suo Flauto Magico, de L’amore delle tre melarance, dell’opera per ragazzi Brundibar. In mancanza di questi, nelle prossime vacanze di Natale mi delizierò scoprendo cosa ha combinato Maurice Sendak con l’opera Hansel und Gretel di Humperdinck


mercoledì 1 giugno 2011

La via dell’anima del ballerino

[di Anna Masini]

Heinrich von Kleist scrisse, agli inizi del 1800, un piccolo saggio intitolato Sul teatro di marionette dove conversa con il signor C. (ballerino, nonché suo alter-ego) a proposito della meraviglia che aveva suscitato in entrambi uno spettacolo di marionette montato nella piazza del mercato. I due discutono sul movimento delle figure, e Kleist asserisce di immaginarsi il lavoro del marionettista piuttosto insignificante, come girare una manovella.
«Assolutamente no» replica il signor C. «I movimenti delle sue dita sono se mai in una relazione piuttosto artificiosa con il movimento della marionetta a esse fissata, più o meno come numeri con i loro logaritmi, o l’asintoto con l’iperbole. [...] Ogni movimento è caratterizzato da un centro di gravità: ed è sufficiente governare quello all’interno della figura; le membra, che non sono altro che un pendolo, seguono, senza altro intervento, da sé, in modo meccanico. E la linea che deve descrivere il centro di gravità, da un certo punto di vista è qualcosa di ben misterioso: essa infatti non sarebbe nient’altro che la via dell’anima del ballerino. Egli non dubitava che potesse esser trovata altrimenti che se il macchinista si ponesse nel centro di gravità della marionetta, cioè, in altre parole, danzasse.»



Ho scoperto Stephen Mottram lo scorso autunno al teatro Verdi di Milano, dove ormai da anni vanno in scena alcuni tra i più significativi spettacoli internazionali di teatro di immagine e figura per adulti, nell’ambito del programma IF Festival.

In scena c’era The Seed Carriers, e subito mi sono ricordata della lezione di Kleist. Il movimento delle figure, piccole marionette a filo che diventano automi, misteriosi animali terrificanti, macchinari e marchingegni dal moto lento e inesorabile, non smette mai. L’intero spazio scenico è pieno di movimento, che continua anche quando Mottram abbandona il controllo dei fili per dare vita a qualcos’altro.
Ispirato dall’immaginario cupo della pittura di Hieronymous Bosch, dalla narrativa mistica e visionaria di Aldous Huxley, dalle tetre atmosfere dei film animati dei fratelli Quay, Mottram ha elaborato in The Seed Carriers una sua personale riflessione sul senso della vita e della morte, a lungo meditata dopo la perdita del padre.

Gracili e fragili, i seed carriers sono portatori del seme di una vita claustrofobica e distruttiva, in cui vengono catturati, svuotati, smembrati, buttati via o innestati nel corpo di altre creature oppure, ancora in vita, sfruttati come forza lavoro per dare, a loro volta, movimento.
Artista inglese formatosi a Budapest e noto per la sua tecnica incredibile, Stephen Mottram ha dedicato la sua vita allo studio del movimento delle marionette a filo, studiando attentamente la struttura del corpo umano e manipolandone la struttura per raggiungere, infine l’essenzialità. Combinando l’eleganza e la sintesi, Mottram  - sempre solo in scena - accompagna le sue raffinate immagini in movimento alla musica elettro-acustica di compositori contemporanei con cui costruisce gli spettacoli (Glynn Perrin per The Seeds Carriers).


Se volete saperne di più, qui alcuni estratti delle sue lezioni (purtroppo la qualità di audio e immagini è pessima, ma si riesce ad avere un’idea del suo lavoro).
Nota bene: l’IF Festival porta in Italia spettacoli di teatro di immagine e figura per adulti, e The Seeds Carriers non è adatto ai bambini.

martedì 12 aprile 2011

Lab007. La parola al teatro jeune public

Ank!Ang!, Malmö, 2011. Foto Karin Serres

[di Federica Iacobelli]

Se il teatro jeune public, come lo chiamano oltralpe, fosse un albo illustrato, le sue immagini sarebbero italiane e le parole francesi. È un paradosso, certo, ma significa che il "teatro ragazzi", come lo chiamiamo qui, ha vissuto e vive nel nostro paese soprattutto come visione, regia, spazio e azione, laddove in Francia ha prediletto e predilige invece il lavoro sulle storie, ovvero sulla lingua che può raccontarle. Perché le lingue del teatro, e tanto più di quel teatro che pensa e parla a un’età ancora in formazione, sono specchio delle cultura e della storia di un paese, del senso dell’infanzia in una società, del posto che il teatro occupa tra le altre arti nazionali e del ruolo che in esso il testo trova o non trova.

Crédit photo © Jasper, l'Oi photographe
 Un pomeriggio del 2007, mentre mi interrogavo sulle possibilità della parola per il teatro d’infanzia italiano, nel caffè del Centre Culturel Suedois di Parigi ho incontrato tre donne: la scrittrice, drammaturga e scenografa Karin Serres, la  ‘chargée de mission théâtre & jeune public’ dell’Istituto svedese parigino, Marie Selze Kraft, e la traduttrice franco-svedese Marianne Segol. Con loro c’era anche il neonato Lab007, un progetto di messa in rete tra le diverse scritture drammatiche europee per l’infanzia e per l’adolescenza. E nella nostra lunga conversazione di quel pomeriggio la parola che più ricorreva era un buffo verso, Ank! Ang!, ovvero il titolo del feuilletton teatrale multilingue di Lab007 al quale Karin Serres mi chiedeva di partecipare.

Karin aveva scritto il primo episodio di questo feuilletton, aveva lanciato il tema, i primi personaggi e le regole del gioco. Ank! Ang! era il verso di uomini, donne, ragazzi e bambini che a un certo punto, in diverse parti d’Europa, vedevano spuntare un paio di ali dalle proprie scapole e da quelle erano spinti a migrare, dal nord verso il sud, come uccelli. Per far volare Ank! Ang! nei cieli e sulle terre d’Europa, Karin Serres avrebbe coinvolto in successione autori di diverse nazionalità e chiesto a ciascuno di scriverne un episodio della durata di dieci-quindici minuti, ciascuno nella propria lingua e nello stile proprio e del proprio ‘teatro’, per poi tradurre tutto in tutte le lingue partecipanti e permettere a ciascuno di confrontarsi con le idee, le parole, le atmosfere, le domande delle altre scritture jeune public europee.

Ank! Ang! al Theatre Cafe Festival, 2010
Così, attraverso il feuilletton ma non solo, Lab007 cominciava a mettere insieme un gran numero di autori, traduttori e operatori culturali impegnati nel teatro contemporaneo per l’infanzia e per l’adolescenza. Così, mettendoli insieme, metteva in comune una serie di domande. In che cosa consistono le differenze tra un autore svedese e un autore francese o cèco o tedesco o italiano, oppure tra due diversi autori della stessa nazionalità ? È la cultura della società a cui si appartiene, a contare di più, o piuttosto il nostro personale mondo interiore ? Che cosa, invece, si può condividere come seme comune di un linguaggio? E a quale meta o cammino ci porta, far incontrare e scontrare diversità e comunanze teatrali?

Incontrarsi, appunto, conoscersi e conoscere, far circolare e mettere in comune le pratiche, le scritture e i loro autori in carne e ossa, così come le creazioni e le produzioni per l’infanzia e per l’adolescenza più ricche e più forti in Europa; e ancora, creare comitati di lettura in ciascun paese, lavorare in residenza in paesi stranieri sulla scrittura e sulla traduzione, promuovere letture e messe in scena ; e tutto questo a breve, medio e a lungo termine e, soprattutto, nel più gran numero di paesi possibile. Lab007 nasceva così, intorno a quel caffè di rue Payenne, metro St.Paul. E da lì cresceva, negli anni, coinvolgendo il Teatro de l’Est Parisien e quello de la Tete Noir, il Teatro Massalia a Marsiglia, la SACD Società degli Autori francese con l’Association Beaumarchais, l´Ambasciata di Francia in Svezia, la Maison Antoine Vitez di Montpellier, la Médiathèque di Bagnolet, Unga Klara, Riksteatern  e Teaterbiennalen a Stoccolma, il Baltic Center for Writers and Translators di Gotland, il Thalia Theater Halle di Halle, il Goethe Institut di Parigi e di Monaco e, via via, altri luoghi in altre parti d’Europa, a cominciare dall’Unicorn Theatre di Londra dove Ank! Ang!, il feuilletton, ormai arrivato a dieci episodi e a sette lingue (francese, tedesco, svedese, italiano, inglese, portoghese, catalano) è stato presentato alla fine del duemiladieci in lettura scenica con attori dagli otto ai quarant’anni.

Ank! Ang! a Villa San Michele ad Anacapri, estate 2008

Tra gli esperimenti più interessanti di Lab007 c’è senza dubbio il lavoro nelle scuole. L’idea dei comitati di lettura è stata infatti portata anche nelle classi, francesi e non solo, per far scoprire ai ragazzi delle elementari, delle medie e degli istituti superiori la scrittura teatrale contemporanea e far incontrare loro anche i suoi autori. I ragazzi leggono testi scelti dai comitati di lettura professionali nei diversi paesi. Quindi si riuniscono per scegliene uno e sono invitati a discuterne sia in classe che in situazioni pubbliche create appositamente. In questo modo, il testo teatrale diventa anche veicolo di conoscenza di lingue e culture straniere, permette di sperimentare senso e sonorità delle diverse lingue e anche di acquisire una sensibilità all’esercizio della traduzione. L’anno scorso per esempio, mi racconta oggi Marianne Segol, ragazzi francesi, svedesi e tedeschi hanno lavorato contemporaneamente, ciascuno nel loro paese e nella loro scuola ma di tanto in tanto anche insieme in occasioni di incontro internazionale, sui diversi episodi del feuilletton multilingue inventato da Karin Serres.
Ank! Ang! a Villa San Michele ad Anacapri, estate 2008
Quali sono, e quante, oggi, le possibilità della parola per il teatro d’infanzia italiano? Insieme a Lab007, la mia domanda non si è placata, anzi è cresciuta. Me la pongo ancora, e la pongo anche ad altri, scoprendo che non sono da sola. La visione, la regia, lo spazio e l’azione, sono lingue anche quelle, in teatro. Eppure oggi il bisogno di pensiero, di racconto, di profondità e di elaborazione di quelle emozioni e di quelle relazioni che la cultura del nostro tempo spesso rimuove, sembra portare con sé anche un bisogno più forte di parole e di testi.

Ank! Ang! a Villa San Michele ad Anacapri, estate 2008

giovedì 10 febbraio 2011

Il teatro ha Cuore

[di Federica Iacobelli]
Prima edizione del romanzo, 1886
 È nato un Progetto Cuore: il libro Cuore di Edmondo De Amicis riscoperto a teatro, al teatro Testoni di Casalecchio, per essere precisi, appena fuori Bologna, sulle sponde del fiume Reno.

Si tratta di uno spettacolo per ragazzi, certo, di un classico inattuale della nostra letteratura portato sulla scena, ma anche e soprattutto di un’agorà, di uno spazio di pensiero e di riflessione collettiva intorno a quel Cuore che per decenni ha formato gli italiani della nazione da poco unita e per altrettanti decenni, dagli anni Sessanta in poi, è stato invece rimosso, ripudiato, dimenticato, giudicato e letto attraverso lo specchio dell’ideologia, anziché in quello della storia o della letteratura.
Progettare Cuore a teatro per e con i ragazzi vuol dire mostrare ai maestri e agli allievi di oggi non solo quanto siano cambiati da allora e il contesto scolastico e la condizione dell’infanzia in generale, ma anche quanta strada abbia fatto il progetto dei fondatori della nazione Italia e quanta ancora nella realtà ne debba fare.

Il Teatro Testoni di Casalecchio
Già nel 2004, mi ricordo, Grazia Gotti ritornava a Cuore in un editoriale del ‘mercurio dei piccoli’ e in una mostra parallela alla rivista, per discutere di scuola, di maestri, professori, ma anche della forza che risiede nell’inattuale. Ora, nel 2011, complici le celebrazioni per il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, è il teatro comunale di Casalecchio a ritornare a Cuore con l’articolato progetto che ERT Emilia Romagna Teatro promuove intorno allo spettacolo tratto dal libro di De Amicis e prodotto insieme con il Teatro Due Mondi di Faenza.

Un'immagine del Progetto Balcani, regia Alberto Grilli
Questo Cuore a teatro, che sarà ospitato al Testoni il 22 e il 23 marzo prossimi per il pubblico delle scuole primarie e medie e quindi in altri teatri anche al di là dei confini emiliani, non rivisita il libro ma lo rilegge, per riscoprirlo nella rappresentazione. I tre attori, diretti dal regista Alberto Grilli, interpretano tre attori dell’Ottocento che si fanno narratori di un testo e di un contesto da loro vissuti come contemporanei. È un teatro che apre finestre, questo Cuore, ora nella dimensione di un diario della storia del Paese quasi un secolo e mezzo fa, ora nella dimensione dell’azione con i racconti mensili di De Amicis messi in scena dai tre attori, ora infine in quella del commento a un libro che appena uscito fu già bestseller. In tal modo, ben lontano dal tradirne la natura letteraria, questo ritorno del teatro al libro Cuore diviene anche un ritorno, cuore e corpo, a una sorta di esperimento educational ante litteram, a una traccia pedagogica e morale per “piccoli italiani” su cui costruire cittadinanza, identità e partecipazione.

Cuore, regia di Luigi Comencini, 1984.
Intanto, nell’attesa che lo spettacolo debutti, alunni delle scuole primarie e medie della provincia bolognese leggeranno brani scelti dal libro insieme con i bibliotecari della Cesare Pavese di Casalecchio. Al margine di queste letture, ai bambini saranno proposte domande e parole chiave intorno alle quali scrivere, disegnare, creare video a partire dall’esperienza della lettura. Anche dentro le scuole, poi, sempre coordinati dal teatro, attori e operatori daranno vita a un lavoro di drammatizzazione da episodi o da brani del libro di De Amicis.
 Quindi, dopo la visione dello spettacolo di Alberto Grilli, i bambini e i ragazzi saranno intervistati e i loro pensieri, le loro nuove domande, le loro riflessioni animeranno il blog del teatro. Il Progetto Cuore camminerà nello stesso tempo in parallelo per i grandi, insegnanti e non soltanto, ai quali gli attori della Scuola di Alta Formazione ERT leggeranno brani di De Amicis ma anche di Cattaneo, Mantegazza, Abba. Infine, ci sarà spazio per un incontro pubblico dal titolo Cuore e web 2.0. La formazione del cittadino attraverso la scuola e la cultura in 150 anni di Unità d’Italia, animato da pedagogisti, insegnanti, docenti universitari, critici letterari e teatrali.

Figurine Decri, Anni Dieci.
Cira Santoro, responsabile del Teatro Testoni per l'Emilia Romagna Teatro, racconta come il libro Cuore, scelto dopo un attento studio di fonti relative al Risorgimento italiano, si sia dimostrato il più adatto a porre con forza una serie di questioni drammaticamente aperte: la funzione della scuola pubblica e della cultura, la formazione dei nuovi cittadini ai valori di solidarietà, al rigore morale, al ruolo sociale del lavoro e alla partecipazione democratica, l’identità di un paese che oggi, come centocinquant’anni fa, è chiamato ad accogliere nuovi italiani piccoli e grandi e a perfezionare ogni giorno la sua idea di identità nazionale.

Non è un caso allora che il progetto Cuore si inserisca nel contesto di teatro come palestra di cittadinanza attiva, per i piccoli come per i grandi: un’idea antichissima eppure nuova  su cui il Testoni di Casalecchio lavora da anni trasformando il sito del teatro, quello reale come quello virtuale, in un luogo di confronto e incontro tra spettatori e artisti, una palestra in cui continuare a esercitare il pensiero critico e la partecipazione.
Illustrazione di Enrico Nardi, edizione 1886

Sarebbe bello se, allora, in questo centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, ogni scuola ritornasse al libro Cuore, e in ogni scuola ogni bambino, ogni ragazzo, ogni insegnante del 2011, e intorno al libro ognuno creasse il suo teatro, la sua comunità di cittadini finalmente attivi, nel pensiero, nell’azione e nella rappresentazione.

giovedì 3 febbraio 2011

La mia storia con la mamma...

Figlia di genitori colti e progressisti, da piccola avevo la tv centellinata. Qualche cartone, qualche programma della tv dei ragazzi, come Immagini dal mondo (a cui una volta, fra l'altro, con la scuola, partecipai). Carosello solo in casi trascendentali. Bizze non ne facevamo, io e mia sorella, per questo. Né i miei si preoccupavano che fra i compagni ci sentissimo “diverse”. Figurarsi! Non facevamo nemmeno l'ora di religione, ed eravamo invidiate per questo da mezza scuola.
Quando invece si andava a Forlì, dalla nonna, divoratrice inesausta di “Stop” e varietà del sabato sera, si facevano scorpacciate di schifezze. Schifezze? Viste oggi erano chicche. Alcune lo erano poi già, davvero, anche allora. Per esempio gli sketch della Franca. La Franca Valeri. Una che la prima volta che l'ho vista, mi ha conquistato per la vita e mi ha sempre fatto morire dal ridere, e morire di invidia per la bravura, l'intelligenza, la classe, lo spirito. La migliore, la Franca, a tutt'oggi, non c'è dubbio. Comica? Sì, grande comica, ma anche raffinata e implacabile scrittrice di teatro, capace di ritratti femminili ad altissima, e diabolica, precisione. I suoi libri li ho tutti.
Oggi Franca Valeri ci fa la grazia di un libro di memorie. Di una bellissima autobiografia che mi è stata regalata a Natale (grazie!) e che ha allietato le mie vacanze natalizie a Venezia, città che la Valeri descrive a proposito della sua infanzia, in poche, perfette parole: “Shakespeare e Goldoni si contendevano la notte le piazzette illuminate dalla luna, perché l'ultima estate di pace mi pare che sia stata splendida; come un addio.” Poi, nel libro, arriva la guerra.

Il libro, Bugiarda no, reticente (Einaudi 2010; impagabile l'episodio che dà il titolo), è una perla. Anzi un diamante: per la scrittura, la lingua, l'ironia, la libertà e la finezza mentali, la cultura, la ferocia, la qualità del pensiero, la mirabile sintesi, lo smalto. Ce le ha tutte. È stato scritto da una signora che ha, come si dice, un'età.
Ne parlo qui perché per lei ho quella che si potrebbe tranquillamente definire una venerazione. Ma anche per un altro motivo. Mi piacciono le autobiografie e i romanzi di formazione: la nostra collana Anni in tasca nasce da questa doppia radice. L'autobiografia della Valeri attraversa, naturalmente, anche il periodo dell'infanzia e della giovinezza: pagine che descrivono una bambina della Milano borghese e colta dei primi decenni del Novecento con magistrale bravura; quando Milano, era, che ridere pensarci oggi, quella che si definisce una capitale morale...
Per dar conto di questo libro, ho scelto un brano che a mio avviso ha tutte le qualità di cui dicevo prima. Eccolo qui.

La mia storia con la mamma è cominciata verso i tre anni con un suo racconto che non saprei definire e di cui non è certo facile capire la ragione psicologica. Non ricordo in quale momento della giornata o in quale punto della casa (forse in bagno, ma certamente il bagno, detto bagnetto per i bambini, me lo faceva la bambinaia), mia madre mi ha fatto questo racconto, come se le urgesse di mettere le cose in chiaro con me.
«Sai, un giorno, era estate, ma per il caldo era venuto un gran temporale e io aspettavo la donna che porta i bambini. Avevo ordinato un maschietto per fare compagnia a Giulio e avevo anche pensato di chiamarlo Cesare (la ragione della scelta del nome non mi era chiara); quella disgraziata è arrivata che era già notte, tutta bagnata, le gocciolava l'ombrello in anticamera. Mi ha consegnato un fagotto e ha detto: “Mi scusi il ritardo, scappo, sono cento”. Guardo nel fagottino. Era una bambina. “Cara lei, le avevo ordinato un maschio”».
Mia madre era sbrigativa anche nel raccontare. Comunque di fiabe non ne ha mai raccontate, al di fuori di questa.
«Allora?» potrei aver chiesto io.
«Allora quella lì ha cominciato tutta una storia: “Signora, ho avuto tanti impicci, mio marito è malato. È tardi... me la prenda... sia buona... facciamo così, invece di cento lire gliela do per cinquanta”».
Mi ero incuriosita della conclusione.
«E così ti ho presa».
Il racconto non è finito nel manuale di uno psicologo, ma nei miei ricordi più divertenti. Inconsapevolmente avevo inquadrato le qualità di comica dell'assurdo di mia madre, e le avevo messe gelosamente da parte al posto di un inutile complesso. Mio fratello sembrava molto contento di essere costato di più.

In questa scuola dei complessi, mia madre era maestra. Lei prediligeva apertamente mio fratello, di cui ha conservato in una scatolina fino alla morte il primo dentino, rendendomi partecipe razionalmente di questa sua scelta. Io ho adorato mio fratello, ero ammirata dalla sua timidezza come fosse la dote di un privilegiato, e chiedevo come un paggio agli altri bambini: «Volete giocare con mio fratello?»

Con qualche pagina in più, questa parte dedicata dalla Valeri alla sua infanzia e adolescenza, sarebbe stata un Anno in tasca da leccarsi i baffi. Ma non si può avere tutto.
La Franca e il suo bellissimo libro sono già abbastanza.

giovedì 27 gennaio 2011

La favola nera di Terezín

“Nessuno può spiegare esattamente cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui sono celati i terrori dell'infanzia” afferma Austerlitz, professore di storia dell'architettura, studioso di fortezze, caserme, stazioni, carceri e tribunali, afflitto da una tragica assenza di memoria personale. Fino alla scoperta di essere giunto a Londra, molti anni prima, a bordo di uno di quei convogli partiti dall'Europa centrale per l'Inghilterra, carichi di bambini, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento di tutta Europa.
Il romanzo, splendido, di cui stiamo parlando è Austerlitz, di W.G. Sebald, Adelphi 2002, implacabile e disperata cronaca di un riaffiorare di ricordi legati alla propria vicenda familiare e al proprio tempo. Angosciante e puntuale viaggio attraverso luoghi e tempi della demenza nazista.
Disegno proveniente da Terezín. Collezione Museo ebraico di Praga.
 In questa rassegna degli orrori, ampio spazio è riservata alla descrizione del campo cecoslovacco di Terezín, dislocato nella città-fortezza costruita nel 1780 dall'imperatore Giuseppe II, e che all'inizio del 1944 fu protagonista di uno degli eventi più sconcertanti del nazionalsocialismo: quella che fu chiamata la grande “Opera di Abbellimento”. In previsione di una visita estiva di una commissione della Croce Rossa Internazionale, sotto la guida delle SS, il campo di Terezín fu trasformato, in pochi mesi, in una “comunità modello” per bambini e anziani, con panchine, ameni vialetti, migliaia di rosai in fiore, graziosi edifici con decorazioni intagliate, piscina, giostre, biblioteca, banca, ufficio postale, scuola elementare e materna, negozi, teatro, sala da concerto.

Disegno proveniente da Terezín. Collezione Museo ebraico di Praga.
“Theresiendstadt” scrive Sebald, “si trasformò in un Eldorado di cartapesta, che forse riuscì persino a incantare qualcuno dei suoi abitanti o addirittura a infondergli qualche speranza...”
Fu proprio in questo luogo e in occasione dell'ispezione, che l'opera Brundibár, del compositore praghese Hans Krása, su libretto di Adolf Hoffmeister e regia di Silvia Brunello, che era stata scritta per un concorso nel 1938, fu eseguita il 23 settembre 1944. Ebbe poi ben 55 repliche fino all'aprile del 1945, al momento della liberazione. In occasione della prima, i bambini esecutori dell’opera ricevettero cibo in abbondanza e persino cioccolata.

I bambini che presero parte alla prima di Brundibár nel 1944
Degli oltre trentamila ragazzi deportati a Theresiendstadt, molti morirono di fame, stenti, malattie infettive, altri nelle camere a gas di Auschwitz, sorte toccata anche a Kràsa. Paul Aron Sandfort che, allora, aveva 13 anni e prese parte allo spettacolo con circa altri quaranta bambini della sua età, di cui fu l’unico sopravvissuto, ricorda: “Brundibár fu per noi un sogno più vivo della sofferenza quotidiana, un barlume nell’oscurità della prigionia, un barlume di speranza che ci permetteva di sperare nella libertà, malgrado i reticolati.”
Scenografia di Maurice Sendak per Brundibár, 2006.

Scelta per mascherare la realtà dei campi di sterminio, Brundibár narra la storia di Pepicek e Anika, due fanciulli orfani di padre che, per acquistare il latte per la madre ammalata, decidono di esibirsi in canzoni e danze, imitando Brundibàr, suonatore di organetto ambulante malvagio e violento, che cerca di asservirli e rubare loro i guadagni.

Solo l’ottusità dell’Obersturmbannführer non riuscì a leggere in questa favola la forza eversiva che nascondeva. Che fosse un canto di rivolta e di ribellione era ben chiaro, invece, a tutti i deportati.

Il successo di Brundibár, in effetti, fu tale che molte repliche furono organizzate clandestinamente dai prigionieri nei luoghi più disparati del campo.

Scenografia di Maurice Sendak per Brundibár, 2006.
Dalla fine della guerra a oggi, quest'opera per voce di bambini, assurta a simbolo della ferocia sconfitta dalla forza utopica dell'infanzia, ha conosciuto infinite edizioni e riletture. Come quella di Tony Kushner, che ha riscritto il libretto orginale, accompagnata dalle meravigliose scenografie di Maurice Sendak.

Sul tema di Brundibár e di Terezín consigliamo la lettura del bell'articolo di Orsola Puecher, uscito su Nazione Indiana Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano.
Adattamento di Brundibár edito nel 2003 da Michael Di Capua Books/Hyperion Books for Children.