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lunedì 24 giugno 2013

Pensare per immagini

Luigi Ghirri, Grostè, 1983. Biblioteca Panizzi. Fototeca.

Luigi Ghirri racconta che quando era un bambino, le fotografie che gli piacevano di più erano quelle di paesaggi, negli atlanti, accanto alle carte geografiche. In queste immagini si era accorto che, “immancabile, appariva un piccolo uomo sovrastato da cascate, monti, rocce, alberi altissimi e palme grandiose, o sul ciglio di un burrone. Questo omino lo trovavo poi nelle cartoline, che raffiguravano piazze più o meno celebri. Oppure arrampicato su monumenti storici, o disperso nel foro di Roma. Quello dell'omino era uno stato di continua contemplazione del mondo, e la sua presenza nelle immagini conferiva a queste un fascino particolare. Non solo era il metro di misurazione delle meraviglie rappresentate, ma grazie a questa unità di misura umana mi restituiva l'idea dello spazio: io lo vedevo in questo modo e credevo attraverso questo omino di comprendere il mondo e lo spazio.”

Luigi Ghirri, Versailles, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.

Queste parole sono contenute nello scritto di Luigi Ghirri Fotografia e rappresentazione dell'esterno, presente nel catalogo Pensare per immagini. Icone Paesaggi Architetture, edito da Electa in occasione della omonima mostra in corso al Maxxi, a Roma, inaugurata il 24 aprile scorso e aperta fino al 27 ottobre.
In esse si trova definita con precisione di cartografo, la misura del territorio attraversato ed esplorato da Ghirri durante il suo lavoro, e il bagaglio e la strumentazione necessari a fissarla. C'è lo spazio, come campo del finito e dell'infinito, c'è l'attenzione come disciplina, pratica dello sguardo, interrogazione del mistero del visibile, c'è una attitudine alla contemplazione come risposta alla densità misteriosa dell'immagine e del reale, e la necessità di osservare l'osservatore, di guardare l'atto del guardare, punto di partenza di ogni conoscenza del mondo.

Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Lucerna, 1971. Collezione Eredi Ghirri.

Nelle foto di Ghirri sono tante le figure umane prese di spalle, ritratte mentre, semplicemente, guardano. E quando queste non sono presenti, si ha sempre la percezione di uno sguardo, di una presenza attenta, non dietro l'immagine, ma davanti a essa, nell'atto stesso di osservarla. Come se Ghirri, quell'omino degli atlanti, dall'interno delle fotografie l'avesso portato all'esterno, non più visibile, ma percepibile, percepibilissimo come misura della realtà, osservatore latente, custode della stessa possibilità di essere e di darsi del visibile.

Luigi Ghirri, Engelberg, 1972. Centro Studi
e Archivio della Comunicazione
dell'Università degli Studi di Parma.
La mostra al Maxxi è imperdibile non solo per gli amanti della fotografia, ma per chi è interessato all'immagine e soprattutto al tipo di conoscenza e di approccio che questa sottende nella relazione con il mondo, reale e rielaborato dall'uomo attraverso le mille forme della rappresentazione. Un'idea contenuta nel titolo della mostra, Pensare per immagini, estrapolato da una riflessione del fotografo modenese: “Come pensare per immagini”. In questa frase è contenuto il senso di tutto il mio lavoro.”
Luigi Ghirri, a cui tempo fa abbiamo dedicato un post, è stato, fin dai suoi esordi, un fotografo anomalo. Geometra, autodidatta, strinse contatti ed ebbe amicizie più nel mondo dell'arte che in quello della fotografia al quale in parte si sentiva estraneo. Oltre che fotografo, fu insegnante, collezionista appassionato di immagini, editore (fondò le edizioni Punto e virgola, dedicando un'approfondita riflessione alla relazione fra libro e immagine), curatore e organizzatore di mostre, e nel corso di tutto il suo lavoro utilizzò la scrittura come pratica di pensiero necessaria e strettamente connessa al vedere (le sue riflessioni sul paesaggio italiano, per fare un esempio, sono imprescindibili).

Luigi Ghirri, Modena, 1974. Collezione Eredi Ghirri.
Luigi Ghirri, Ferrara, 1981, e Modena, 1973, Collezione Eredi Ghirri.

In questa mostra quel che davvero è interessante, è l'allestimento che intreccia le parole di Ghirri alle fotografie, ad accompagnare il visitatore in un percorso eccezionale per ampiezza e profondità, che dà conto di cosa significhi, nelle sue diverse implicazioni, quel “vedere con chiarezza” che era per Ghirri la fotografia. Perché il rimando fra le une e le altre innesca una esperienza di visione articolata, complessa, di grande intensità, fra visioni, evocazione, memoria, intuizioni, riflessione, stupefazione, contemplazione, epifanie.

Luigi Ghirri, Brest, 1972. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Bologna, 1973. Collezione Eredi Ghirri
alla Biblioteca Panizzi. Fototeca.
In questo senso l'importanza che la fotografia di Ghirri ha avuto, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, appare con evidenza, per una capacità poetica che fa venire in mente quello che Heidegger spiega in La poesia di Hölderlin a proposito dell'essenza stessa del linguaggio poetico: «Questo nominare non consiste però nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l'ente riceve solo allora attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è.»

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1973. Collezione Eredi Ghirri
alla Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Lido di Volano, 1988. Collezione Eredi Ghirri.

Nel brano di Luigi Ghirri che riporto, tratto da L'opera aperta, presente nel catalogo, si trovano gran parte dei punti fondamentali che nel tempo hanno connotato la sua riflessione, e a mio avviso valgono non solo per la fotografia, ma, tout court, per l'immagine, e quell'attitudine umana a osservare, rappresentare, riprodurre il reale.

Ho sempre ritenuto che la fotografia fosse un linguaggio per vedere e non per trasformare, occultare, modificare la realtà.
Ho lasciato che fosse la sua magia a rivelare al nostro sguardo gli spazi, gli oggetti, i paesaggi che voglio rappresentare.
Fiducioso che uno sguardo libero da acrobazie formali forme di coercizione, elucubrazioni, riesca a trovare un equilibrio fra consapevolezza e semplicità.
Trovare così, all'interno della geometria e della fissità dello spazio della camera oscura, la misura della rappresentazione dell'esterno.
Nessuna violenza, choc visivo-emozionale, o forzatura, ma il silenzio, la leggerezza, il rigore per poter entrare in rapporto con le cose, gli oggetti, i luoghi. […]

Luigi Ghirri, Cittanova, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Tra Soragna e Fontanellato, 1986. Collezione Eredi Ghirri.

Non mi sono mai trovato molto d'accordo con molta parte del mondo della fotografia.
Troppo spesso questa declina le proprie potenzialità per rifugiarsi nell'emozione del colore, nella ripetizione ossessiva, nell'uso ripetuto e stucchevole dello stile, nella catalogazione, nelle esasperazioni formali.
Certi aspetti maniacali mi sembrano pericolosi: la fotografia come afasia del vedere, anticamera per l'anestesia dello sguardo. La necessità di essere originali, creativi a tutti i costi, la disperata ricerca del nuovo e di un marchio di fabbrica, credendo che un autore si possa riconoscere perché imprime un editing visivo sul mondo moderno. Anziché cercare di introdurre tempi e modalità nuove nell'operare, la fotografia è entrata nello spazio rigido della riproduzione di se stessa. Forse vale la frase di Shakespeare: “Che ironia della sorte, avere una vista così buona e finire in un vicolo cieco!”
[…]

Luigi Ghirri, Masone, Casa Benati, 1985. Biblioteca Panizzi. Fototeca.
Luigi Ghirri, Studio di Girgio Morandi, 1989-1990. Collezione Eredi Ghirri.

Le recenti tecniche visuali hanno provocato una mutazione della qualità dello sguardo, le immagini elettroniche, le tecniche video sembrano relegare la fotografia nella soffitta dell'antiquariato, ma nonostante tutto, io credo che abbia ancora davanti a sé molto spazio. I luoghi, l'esterno, l'interno, tutto sembra essere attraversato da stimolazioni visive sempre più veloci e frequenti, ma questo ci impedisce di vedere con chiarezza. In mezzo a questo mare eterogeneo, in questi luoghi che sono sempre di più totale dominio del “territorio dell'analogo” e dove la moltiplicazione assume un ritmo sempre più vertiginoso, possiamo vedere nella fotografia un importante momento di pausa e riflessione. La fotografia come momento di riattivazione dei circuiti dell'attenzione, fatti saltare dalla velocità dell'esterno.


venerdì 6 maggio 2011

La vera storia dei Topipittori

Che anno era? Mi sembra il 2005.
I Topipittori esistevano da un anno, e siccome in quel periodo avevo avuto alcune collaborazioni con Vibrisse, il bollettino di scritture e letture di Giulio Mozzi, mi venne in mente di proporre un articolo che trattasse della difficoltà, per un editore per ragazzi, di trovare buoni testi per libri illustrati, cercando di mettere in luce le ragioni del problema. Nel cercare di far questo, poi, mentre scrivevo, mi resi conto di dover spiegare molte cose a proposito della nostra casa editrice, dei motivi per cui eravamo nati, del modo in cui lavoravamo, degli obiettivi che ci eravamo proposti, della nostre esperienze professionali prima di diventare editori, del rapporto con i nostri autori e illustratori, del modo in cui pensavamo e cercavamo di realizzare i libri illustrati.

Spiegai perfino la ragione per cui la casa editrice si chiama Topipittori, cosa che ci viene chiesta sempre, praticamente ovunque andiamo. Tutto questo fece sì che l'articolo in corso di redazione assumesse la forma di un ritratto abbastanza fedele della casa editrice, oltre che di una riflessione sulla scrittura e sulle immagini, e in generale sulla letteratura illustrata per bambini e ragazzi. Fu per questo che poi il pezzo si intitolò La vera storia dei Topipittori.
In effetti, raccontava un pezzo abbastanza significativo della nostra storia e dava una descrizione, fra l'altro ancora abbastanza corrispondente, dello spirito con cui ci dedicavamo al lavoro di editori.

Questo articolo sta da sempre nella pagina Chi siamo del nostro sito, ed è stato molto letto. Numerose sono le persone che quando ci mandano i loro materiali, cominciano il messaggio informandoci di avere letto La vera storia dei Topipittori e di trovarsi in sintonia con le nostre idee, oppure di essere un po' dubbiosi riguardo al fatto che quel che ci mandano, testi o illustrazioni, possano effettivamente andare bene per noi. L'articolo in effetti suscita entrambe le reazioni, che dunque possono anche darsi congiunte, il che è comprensibile: non sempre le idee che abbiamo su quel che vorremmo fare coincidono con quello che riusciamo a fare, nella pratica.

Studiare, documentarsi, provare, riprovare, esercitarsi serve, appunto, a superare questo gap.
Oggi abbiamo deciso di pubblicare nel blog questo pezzo per chi, eventualmente, non lo conoscesse ancora e potesse essere interessato alla sua lettura. I temi affrontati sono quelli che ci stanno a cuore da sempre, vale a dire: la parola e l'immagine, il loro rapporto, il concetto di libro illustrato, album o picture book, i tanti modi in cui questo è stato e viene fatto. Temi che nel nostro blog sono stati trattati anche in un altro post, dal titolo Educare allo sguardo è educare al pensiero, anche se in una chiave un po' diversa.

Ovviamente, adesso sono passati alcuni di anni. Oggi la nostra esperienza è maggiore e uno scritto come questo, se venisse riscritto, si arrichirebbe di una grande quantità di riflessioni e di esperienze importanti, legate alla produzione, all'ideazione, alla progettazione dei libri, oltre che a una quantità di letture sul tema che hanno approfondito le nostre conoscenze. Però, la sostanza rimane invariata.
E in più... posso dire che tutto sommato questo è uno scritto divertente?



Sovracoperta di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Rizzoli, 1945