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venerdì 22 maggio 2015

Lo sviluppo naturale delle forme

Fra i candidati italiani alla Biennale di Illustrazione di Bratislava (BIB), che si terrà dall’5 settembre al 25 ottobre 2015, IBBY Italia ha segnalato Antonio Marinoni per il libro Case stregate (testo di Massimo Scotti) e Simone Rea per L'uomo dei palloncini (testo di Giovanna Zoboli).
Naturalmente è una notizia molto bella, un riconoscimento al lavoro di due illustratori che in questi anni hanno lavorato in modo esemplare, con coerenza e rigore professionale, a tutti i progetti in cui sono e sono stati coinvolti, non solo quelli che hanno realizzato con noi, ovviamente.

Nell'autunno del 2011, alla Triennale di Milano, ricordo che a una mostra dedicata al designer Odoardo Fioravanti, nella presentazione al suo lavoro avevo letto una riflessione di Richard Sapper relativa all'eccesso di produzione di oggetti di design, dominati da una falsa idea di novità e originalità, i cui tempi sono quelli dettati dalla produzione industriale, che sopravanzano quelli della creazione, della comprensione e della funzione. E si concludeva con queste parole: “Sono personalmente un po' preoccupato per questo fenomeno che considero un pericolo per lo sviluppo naturale delle forme, molto più lento, molto più lungo, molto più profondo…”.

Quattro dettagli del minuzioso lavoro di Antonio Marinoni per Case stregate.

Impossibile non allargare il raggio di questo pensiero ad altri ambiti professionali, fra i quali sicuramente c'è quello dell'illustrazione. Da questo punto di vista, a nostro avviso, il lavoro di Antonio e Simone sono emblematici. I libri per cui oggi sono stati selezionati, entrambi, hanno avuto tempi lunghi di progettazione, sviluppo e realizzazione. Tempi che potrebbero apparire eccessivi, ma che sono stati quelli necessari a che i libri arrivassero a quella forma definitiva. Il tempo è una componente decisiva per il lavoro progettuale e creativo, e va rispettato, perché come nota Sapper, le idee e le forme hanno tempi di sviluppo lunghi e profondi. L'illustrazione è un linguaggio, una tecnica narrativa, complessa, articolata. Ogni nuovo progetto editoriale a cui si applica ha tempi propri che vanno rispettati e che sono organici alla produzione di un risultato convincente.



Il lavoro di Antonio Marinoni per Case stregate, che passa in rassegna, attraverso la storia dei luoghi e delle case infestati da fantasmi, la storia dell'architettura e dei suoi stili, dall'antichità ai giorni nostri, ha richiesto un lavoro di documentazione lungo, impegnativo e approfondito. La quantità di riferimenti presenti nel testo di Massimo Scotti, studioso di letteratura comparata, ricchissimo di atmosfere e suggestioni storiche, artistiche e letterarie, ha trovato nelle illustrazioni di Antonio Marinoni un racconto visivo in grado di amplificarne la forza, la bellezza e la qualità.

Dallo sketckbook di Simone Rea, lavori preparatori per L'uomo dei Palloncini


Ne L'uomo dei palloncini, Simone Rea dovendo affrontare un testo completamente diverso da quello del libro precedente, le Favole di Esopo, si è trovato a di fronte alla necessità di cambiare completamente registro e tonalità narrativa. La ricerca di uno stile e di una tecnica nuovi, il distacco radicale dalla strada intrapresa con grande successo nel libro precedente, il lavoro sulla caratterizzazione delle figure umane, in particolare dei bambini, per un testo oggettivamente difficile da illustrare, perché astratto, lento, sintetico, ha richiesto un lavoro intenso e rigoroso di codificazione linguistica.



A volte l'editore scalpita, nell'attesa di un libro. Anche a noi capita, quando i tempi si allungano (e a Simone abbiamo dato il tormento); cerchiamo però, sempre, di evitare di forzare lo sviluppo naturale, organico, necessario che connota ogni progetto, mai stabilendo astrattamente tempi di consegna e termini che il più delle volte non rispettano la complessità dei compiti e la difficoltà oggettiva degli obiettivi che si affidano agli autori.
Se questa idea la abbiamo sempre avuta chiara, la vicinanza con il lavoro di chi illustra e scrive per noi, ci ha fornito continuamente testimonianze della sua importanza e verità, sulla base dei risultati, davvero emozionanti, raggiunti.



Per questo, oggi, la selezione alla Biennale di Bratislava di Simone e Antonio ci fa particolarmente felici, al di là dell'orgoglio personale, perché sembra indicare un'idea di libro, di progetto editoriale, di rispetto per il lavoro autoriale che, oggi più che mai, in un panorama editoriale che si dibatte fra modelli imprenditoriali desueti, improntati alla logica cieca del presidio degli scaffali delle librerie, afferma la necessità di cambiare insieme ai libri, il modo di farli.


venerdì 26 settembre 2014

Perché sei qui?


Qualche anno fa, Massimo Scotti, che è ricercatore di Letteratura francese e insegnante presso le università Kore di Enna e lo Iulm di Milano, mi raccontò di uno studio che stava svolgendo: il tema era quello dei fantasmi nella storia della letteratura, o meglio delle case infestate. Mi sembrò un argomento magnifico per un libro illustrato. E pensammo subito che Antonio Marinoni sarebbe stato perfetto per illustrarlo.
L'idea di Case stregate è nata in questo modo. Da quel momento, è trascorso qualche anno. Massimo intanto, nel settembre 2013, ha pubblicato con Feltrinelli il suo studio: Storia degli spettri. Fantasmi, medium e case infestate fra scienza e letteratura, la cui lettura senz'altro vi consigliamo ( e se vi innamorate della sua scrittura sappiate che ci sono anche Ces vipères de lueurs. Il mito ofidico nell’immaginario valériano, 1996; Sul mare degli Dei. Mitografia dell’isola di Capri, 2002; Gotico mediterraneo, 2007).


A un anno di distanza, ecco la versione narrativa e visionaria di questo colto lavoro, un libro che prende per mano il giovane lettore per condurlo con sapienza, ironia e sentimento attraverso la dimensione sfuggente, inquietante e romantica dell'invisibile e delle sue leggendarie, romanzesche manifestazioni: i fantasmi. Un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso epoche e luoghi di cui i fantasmi portano i segni: perché per quanto qui si abbia a che fare con l'eternità, un fantasma della Roma antica è certo molto diverso da un fantasma americano di due secoli fa. Verità che emerge immediata e prepotente dalle immagini del libro che, insieme al testo, raccontano atmosfere, personaggi, stili, architetture, con la maestria e il rigore a cui ci ha abituato Antonio Marinoni. Raffinate, forti, suggestive, cariche di suspance e mistero, le immagini di Antonio nascono da una lunga e attenta ricognizione dell'iconografia legata al tema dei fantasmi e delle case stregate.


Che l'immaginario di questo scrittore e di questo illustratore siano straordinariamente affini, non è una novità, come dimostra L'ora blu, storia di un incontro fra un viaggiatore inglese e due fantasmi emersi da un diario settecentesco durante un viaggio in treno attraverso le alpi svizzere. E in Velluto. Storia di un ladro, con testo di Silvana D'Angelo, il tema del passato e delle presenze nascoste che abitano interni domestici e si manifestano di tanto in tanto nel presente, è al centro del lavoro figurativo di Antonio Marinoni. Così come in Un chicco di Melograno. Come nacquero le stagioni, incentrato sul mito di Persefone e Demetra, Massimo si avventura con la protagonista nel regno delle tenebre, fino ad Ade, oscuro signore di quei luoghi (illustrazioni di Pia Valentinis).
Così oggi, abbiamo pensato di rivolgere qualche domanda a Massimo e Antonio per capire quali esperienze personali, letterarie e artistiche si intreccino in questo libro e siano alla base del loro immaginario così prossimo a queste dimensioni.


Massimo, quando è cominciato il tuo interesse per questi temi?

Come si dice, mi interessano “da sempre”. Da piccolo, per tanti motivi, l’idea della morte ti viene nascosta. Con il risultato di renderla arcana – se possibile ancor più di quanto non lo sia già di per sé – e molto poco chiara. Dove vanno i morti, che ovviamente non sono più accanto a te? Risposta tipica: in Cielo, con gli angioletti. Sì ma allora come mai si accompagnano i morti al cimitero? Cosa resta nella tomba e cosa va in Cielo? I bambini si pongono domande del genere, di solito, e siccome nessuno lo sa davvero, le risposte sono contraddittorie e la fantasia si scatena. Da questo tipo di interrogativi e di misteri può nascere l’interesse per questi argomenti, fino al punto in cui cerchi di “saperne di più”. Così capita di addentrarsi in una lunga ricerca, come ho fatto io con la Storia degli Spettri e ora con le Case Stregate. Dato che il tema non è dei più allegri, ho cercato di mettere nei due libri almeno un tocco di ironia, tanto per tirarci tutti un po’ su di morale.

Antonio, a quando risale la tua passione per architetture e interni?

È una passione nata quando ero molto piccolo.


Secondo la vostra esperienza, per quale ragione la dimensione dell'invisibile, del mistero, riguarda così da vicino quella dell'arte?

M.S. L’arte e la cultura, l’ho sempre pensato, servono a tener lontano il vuoto. Che può essere il vuoto di un pomeriggio fatto di noia, oppure il vuoto di risposte a cui accennavo prima. L’arte è misteriosa (ho paura di dire una cosa tanto evidente da risultare banale), è alla radice stessa del mistero, eppure è tanto umana e vitale da manifestarsi alle origini stesse dell’esistenza; i dipinti straordinari delle grotte di Altamira o di Lascaux dimostrano che l’uomo, quando aveva poco più di quanto gli serviva per non morire di fame o di freddo, provava già il bisogno di forgiare oggetti artistici, per comprendere la realtà che lo circondava, riproducendola. E mi verrebbe da aggiungere che non lo fa solo l’essere umano: ricordi, Giovanna, quando scrivevamo insieme il Manuale di Re Leone? Scoprivamo che certe specie di uccelli, per esempio, erano in grado di allestire magnifici giardini con foglie, rami e petali di fiori, per conquistare i loro oggetti d’amore, perché – altra cosa ovvia – anche l’amore ha a che fare con l’arte, proprio come ogni mistero, compresa la morte.

A.M. Perché l’immagine artistica è in grado di suggerire l’invisibile. L’arte, sin dall’antichità, ha ricercato i modi per raffigurare l’invisibile (il divino, i miti, i sogni, i mondi immaginari) così da facilitarne la comprensione, rendendolo visibile. Da qui: una lunga tradizione iconografica, alla quale cerco sempre di fare riferimento.


In che modo avete affrontato, l'uno con parole e l'altro con immagini, il racconto dell'invisibile?

M.S. Nel mio caso la questione è proprio questa: un fantasma è un’anima (che nessuno vede) a rendersi in qualche modo “visibile”, almeno a metà, in modo evanescente; è questa la cosa inquietante. Lo “spirito” per definizione non si vede – perché è privo di corpo – ma può diventare “spettro” o “fantasma”, cose che hanno a che fare con la luce (pensiamo allo “spettro solare”) e con il fenomeno visivo, in vari modi e a vari gradi. Ho imparato molte cose sulla definizione di questi termini e di questi concetti durante un interessantissimo convegno che si è appena svolto a Rocca Grimalda (Ovada), dal titolo Fantasia e Fantasmi, organizzato da Sonia Barillari e Martina Di Febo, che sono state così gentili da permettermi di presentare in questa occasione proprio le Case stregate.

A.M. Ho cercato di suggerire le atmosfere. Mi sono concentrato sulle ambientazioni notturne e, tramite la composizione, il chiaroscuro e il colore, ho tentato di rendere il tono emozionale del racconto. Penso che l’atmosfera possa guidare la nostra percezione e favorire il nostro coinvolgimento nella storia. La meta, che come illustratore sento altissima e difficile da raggiungere, sarebbe quella di riuscire a ricreare e a trasmettere un’emozione.


Da sempre l'uomo immagina e sente che i luoghi oltre che da abitatori sono abitati da presenze. I luoghi sono abitati cioè dai tempi che hanno attraversato e dalle persone che hanno appartenuto a quei tempi. Quanto la relazione con il passato conta nel vostro lavoro?

M.S. L’ho capito, quasi tangibilmente, proprio a Rocca Grimalda. Un luogo scelto apposta dalle organizzatrici perché ha un’atmosfera del tutto singolare, piena di “presenze”. Quando parliamo di atmosfera ci riferiamo proprio a questo: è come se l’aria avesse un peso diverso, fosse più densa o più sottile, piena di voci silenziosissime, di musiche non udibili, di colori non definibili e di tante caratteristiche non spiegabili; si crea un’atmosfera durante una cena piacevole, ma può capitare di trovarsi in un luogo dall’atmosfera sinistra. C’è qualcosa che non vediamo o non percepiamo, almeno con i nostri sensi; ma sappiamo che c’è, perché “lo sentiamo”. In un castello sappiamo che è presente la storia, perché le mura antiche ci parlano del passato; pensiamo inevitabilmente a chi c’è stato prima di noi, percorriamo le stanze su cui si sono posati altri passi, il tempo trascorso è quasi palpabile; la stessa cosa si prova in un museo o in una galleria d’arte: pittori e scultori hanno lasciato traccia della loro esistenza negli oggetti che hanno realizzato (proprio nel senso di “rendere reali” per i nostri occhi). In una biblioteca ci sono migliaia, milioni di voci che parlano ancora, chiuse nelle pagine dei libri, c’è un pensiero molteplice che aleggia, è un concerto di sussurri, ma anche di voci potenti; in questo senso si può dire che lo spirito sia sempre vivo e presente, impossibile da cancellare.

A.M. Mi interessano molto le tracce del passato e mi sento legato affettivamente agli oggetti familiari tramandati attraverso diverse generazioni. Anche quando disegno il riferimento a quanto è stato fatto in passato è spesso presente. Mentre lavoravo alle illustrazioni per Case stregate ho riflettuto più volte su certe opere di Léon Spilliaert, quelle più cupe e visionarie, e su certi lavori di Füssli, di Redon e di Delvaux, sulle fotografie di Deborah Turbeville e di Mimmo Jodice (che ho citato due volte nel libro) e sulle immagini di alcuni film, come The Innocents di Jack Clayton.


Che cos'è per voi un fantasma?

M.S. Probabilmente la mancata elaborazione di un lutto. Lo intuivo alla fine della Storia degli Spettri: il fantasma è l’immagine della perdita. Se ci credi, vedere un fantasma significa trovarsi di fronte a qualcosa che non c’è più, non appartiene più al nostro spettro visivo consueto (e non è un gioco di parole), ma rimane lì ancorato all’esistenza, non riesce ad andar via, per motivi oscuri. Non ho mai visto un fantasma, però se mi capitasse vorrei trovare il coraggio di chiedergli: “Perché sei qui? Cosa posso fare per aiutarti?”. Perché secondo la tradizione anche loro vorrebbero andar via, solo che non trovano la strada per allontanarsi. Ho letto un articolo su Internazionale, qualche settimana fa, che mi ha molto turbato. Raccontava di un sacerdote spiritista chiamato in Giappone, nei luoghi colpiti dallo tsunami. Sentiva la presenza di anime sperdute. I tanti morti provocati dal cataclisma erano stati strappati alla vita troppo in fretta. Ma rimanevano lì, come in trappola. Alcuni non sapevano nemmeno di essere morti. Il sacerdote aveva il compito di aiutarli ad “andare via”. E lui – così riferiva – riusciva a recidere i legami fra quei “non morti” e l’esistenza, perché potessero liberarsi e salire – sono sempre parole sue – “verso la luce”.

A.M. Penso ai fantasmi con leggerezza. Per me sono come quelle spiritose presenze che agiscono nel film Fantasmi a Roma, che mi ha incantato da bambino.

Disegno preparatorio per Poveglia.
Disegno preparatorio per Poveglia.




















Vi è mai capitato di aver pensato di essere stati testimoni di fatti non riducibili attraverso a una spiegazione razionale?

M.S. No, l’ho detto spesso, non mi è capitato mai. Per questo forse sono così fissato. Ero un bambino molto credulone, sempre convintissimo dell’esistenza di fate, spiriti, UFO, ma nessuna presenza inspiegabile si è mai degnata di farmi visita. Forse perché pensavano: “Con questo non c’è gusto, ci casca subito”, oppure: “Inutile scomodarsi, tanto ci crede lo stesso”. Forse qualche amico buontempone, o qualche società spiritica, prima o poi mi organizzeranno una bella messinscena fantasmatica, giusto per farmi contento, e per farmi spaventare un po’.

A.M. Meglio non dire.

Disegno preparatorio per Poveglia.
Prova colore per Poveglia.




















Cosa vi ha interessato di più nel corso del lavoro per Case stregate?

M.S. Per quanto mi riguarda, immaginare cosa Antonio avrebbe fatto delle mie parole, come le avrebbe interpretate; cercavo di spiegargli i colori che immaginavo, glieli descrivevo, sempre un po’ umiliato dal fatto che le parole, Cenerentole, possano dire così poco delle immagini; mi è piaciuto moltissimo vedere la trasformazione dei bozzetti in tavole, e seguire il lavoro lenticolare, paziente, affascinante, che andava facendo intorno a idee (vaghe), concetti (confusi) e leggende (oscure) che la tradizione ha conservato così ostinatamente. Questo è l’interrogativo persistente che ci propone l’immaginario: ma se sappiamo che queste cose non sono vere e razionali (come i fantasmi, appunto), perché la gente ci crede da secoli e millenni? Un’ultima cosa, molto interessante: se davvero non esistessero, questi fantasmi, se fossero esclusivamente fantasie, ognuno se li inventerebbe un po’ a modo suo, e invece, no. Ogni storia, recente o antichissima, di qua e di là dal globo, in Giappone come in Europa, presenta sempre, eternamente, le stesse strutture: i fantasmi, da che mondo è mondo, si manifestano sempre secondo le stesse leggi e nelle identiche modalità. Questo è davvero strano, no?

A.M. Ho trovato interessante studiare questi micro-racconti per immagini, che integrano il testo di Massimo e che si risolvono nello spazio di una o due pagine, così brevi (e pur completi) che li ho immaginati come trailer di possibili e più estese storie.
Poi, mi diverte sempre la raccolta della documentazione per la scelta dei personaggi e delle ambientazioni: fatta per selezioni successive, è una specie di casting.

Prove per le grafica di copertina.

giovedì 31 luglio 2014

La mia felicità non vale più di 20 euro?

E con questa bellissima recensione a sorpresa, per cui ringraziamo Massimo Scotti (che quando si innamora di un libro è per sempre), i Topipittori vi augurano un'estate piena di sole... Ci ritroviamo a settembre. Grazie, come sempre, per averci seguiti.

[di Massimo Scotti]

Oggi è il primo giorno delle vacanze e io sono un bambino che cerca un libro per l’estate, quello che diventerà il suo preferito, in mezzo a tutti gli altri. Non importa se ho più di cinquant’anni, sono un bambino e basta. E da bambini non si sta lì tanto a vedere chi sono gli autori, si guardano i libri negli occhi: io trovo questo e so che è lui; si chiama Sonno gigante sonno piccino ma io so leggere così così e leggo Sono gigante sono piccino. Non mi piace tanto la parola piccino ma sono gigante sì, invece. Mi fa sentire grande e il libro è proprio grande, anzi quell’animale rosso che si vede subito sulla copertina lo fa sembrare più grande ancora, sterminato come vorrei che fossero le vacanze e l’estate, senza fine.


Il libro non è proprio bianco bianco, è color crema, una delle cose che mi piacciono di più, e c’è quel polipone rosso geranio grande come quello di Ventimila leghe sotto i mari che prende tutti nei suoi tentacoli. Infatti è venuto fuori dalle onde e avvolge tutta la famiglia, che un po’ ride un po’ ha paura. Il bambino con le mutande e senza denti ha capito che è un gioco e ride come quando ti fanno il solletico, che è una delle cose più misteriose di tutte, perché un po’ ti piace un po’ vuoi che smetta. Tutti sono prigionieri del polipone come quando sei sulle montagne russe. La mamma infatti si aggrappa al papà che cerca di abbracciarli tutti, come per difenderli dalla minaccia. La bambina non vuole saperne di stare lì tra le spire del polipo e vorrebbe tornare a giocare nella sabbia, dove c’è il suo cestello e il rastrello e le conchiglie e tutto, ma non si può: si sta tutti lì in braccio al polipo che anche lui, poverino, vuol farsi fotografare, per una volta almeno nella vita, vuoi dargli torto?


Anche il titolo è scritto bello grande, con le lettere che ci insegnano a scuola, in corsivo, e mi piacerebbe tanto saper scrivere così, con quelle belle O che hanno il ricciolo. Ci sono due nomi sulla copertina e uno comincia con la Q, che mi piace molto, e l’altro è il nome di quella bella ragazza bionda che c’è in tv nel pomeriggio, Sveva Sagramola. Il nome con la Q è “Quarenghi”, come quaderni, righe, quadretti, le cose più belle della scuola, e anche come ghiro e io quest’estate vorrei proprio dormire fino a tardi come un ghiro, altro che svegliarsi presto quando fuori fa freddo.
Sotto poi ci sono due topolini che si guardano e forse nel libro ci sono anche loro, chi lo sa?
Dietro c’è un aereo con su una bambina che strilla. È il suo orso che guida l’aereo, ma c’è da fidarsi?
Ci sono nuvole azzurre nel cielo nero di temporale. Vedremo un po’ se si salva nella tempesta.


Immagino le obiezioni di un papà o di una mamma: “Costa tanto e c’è poco da leggere: ti basta per tutta l’estate?”. Li guarderei con disprezzo. La mia felicità non vale più di 20 euro? E se ci sono poche parole dentro il libro io le leggerò e le rileggerò per tutte le vacanze, perché sono misteriose e puoi leggerle per sempre senza capire cosa vogliono dire fino in fondo.
“Dormire di notte non è così strano”, dice la filastrocca sulla copertina, e queste parole fanno pensare proprio tutto il contrario. Certo che è strano, dormire: una delle cose più strane della nostra vita, anche perché da piccolo ti costringono a farlo anche se non vuoi mai, e da grande fanno di tutto per toglierti il sonno quando tu vorresti sempre dormire e basta. Perché i grandi gira e rigira sono sempre stanchi. Con la vitaccia che fanno!
Io quest’estate voglio fare il bambino e adesso ho il mio libro sotto il braccio e non lo mollo.
Appena a casa mi butto sul letto, in penombra, perché c’è il sole fuori ed è meglio chiudere un po’ le persiane, così il sole entra dalle fessure e la polvere vola e brilla, si sentono i suoni d’estate e se sei in campagna cantano le cicale.


Nelle prime due pagine ci sono fotografie vecchie. Alla fine ci sono tutti i nomi, come nei film quando scorrono i titoli di coda. Così scopri anche che questa storia è vera (quindi ti piace ancora di più). C’è gente sempre in campagna o al mare, proprio come quando si è in vacanza, ma si vede che a volte è autunno perché i fotografati hanno il cappotto. Mette allegria pensare alla brutta stagione proprio adesso che sei in quella bellissima e ci vogliono tanti mesi perché torni il freddo. A me il freddo fa schifo. E anche d’inverno guarderò il libro e lì dentro sarà sempre estate, punto.
Mi fa molto ridere una foto piccolina con un bambino in pagliaccetto giallo, che ha una macchinina rossa con la coda.
E ci sono due fratelli, uno più grande e uno più piccolo. Immagino di avere un fratellino piccolo e di leggergli la filastrocca per farlo dormire anche quando fa i capricci. Nel letto con loro c’è una mucca e sul copriletto un coniglio di pezza.


Nella filastrocca ci sono tanti Forse, tutti in fila, quasi tutte le frasi iniziano con Forse e quella è proprio l’immaginazione, perché si leggono cose che forse sono vere e forse no.
C’è scritto “posto lontano” e quando leggi “posto lontano” puoi immaginare qualunque cosa, dove vuoi tu, infatti in una fotografia ci sono le palme e un cammello. C’è la bambina sull’aereo che va in viaggio, forse a trovare i suoi nonni che sono vestiti da indiani con le penne in testa, davanti a un pagliaio che fa un po’ da capanna.
“Forse è andato a fare un giro, forse ha incontrato un ghiro”. Eccolo il ghiro, c’è veramente, grande come tutta la famiglia e anche di più: è lì che ruba la merenda.
E c’è un piroscafo che va lontano e un bambino con le valigie e la mappa del tesoro in mano, è vestito alla marinara e spero che da grande faccia il pirata. Come quelli di una volta, con gli anelli d’oro alle orecchie, e la spada. C’è una signora vestita da hawaiana ma si vede che è un vestito da Carnevale.


C’è un papà con due bambini e sono su un tram di legno come una volta, di quelli che adesso non girano quasi più, ma quando ero piccolo io c’erano solo quelli e si girava lenti lenti per la città guardando tutto benissimo, con calma, non come adesso che hai sempre fretta.
“C’è traffico”, dice la filastrocca, ed è bellissimo pensare che tu il traffico lo hai chiuso fuori e te ne stai lì con il tuo libro, a sognare, da solo. Come la signora che guida la Lambretta da ferma, con la sciarpa al vento e il caschetto di cuoio; il pagliaio dietro di lei dev’essere quello dei nonni vestiti da indiani.
Non vi racconto tutto quello che c’è nel libro perché è bello scoprirlo da soli.


Vi dico solo che c’è una signora con la faccia stellata, un bambino che beve la camomilla con la cannuccia da una tazza gigante e un mago-astronomo con un cane che morde una fila di stelle, una bambina in un nido con i passerotti, uno struzzo che mette la testa sottoterra.
E vi dico solo che c’è scritto “In mezzo al mare”, oppure “Salta una montagna”, oppure “La luna è troppo accesa”, e hai voglia a dire che in questo libro c’è scritto poco. Ogni volta che vedrò il mare, quest’estate, oppure salirò su una montagna, penserò che quelle parole, mare e montagna, sono scritte in questo libro come nel manuale segreto di uno stregone, e se dirò mare e montagna pensando a come erano scritti in corsivo nel libro, allora appariranno davvero e io li vedrò sul serio, come devono essere visti, cioè con gli occhi del cuore, altrimenti, niente. E ogni volta che ci sarà la luna rossa, in certe notti d’agosto, penserò alla filastrocca e mi dirò: “Forse la luna stasera è troppo accesa”.


venerdì 16 novembre 2012

Chiacchierando di ore blu...

L'edizione messicana di L'ora blu
...una conversazione di Massimo Scotti e Giovanna Zoboli.

L'ora blu è uno di quei libri che sembrano essere stati pensati in barba a tutte le regole non dette che sanciscono il potenziale commerciale di un libro illustrato. Troppe pagine, troppo testo, testo difficile, età di lettura indefinita, temi trattati né di tendenza né di attualità. E poi un libro per ragazzi con richiami letterari al romanzo francese settecentesco e con riferimenti iconografici alle stampe di paesaggio….

Non si fa! Pare male. Sa di scandalo. Mi chiedo sempre se libri per ragazzi come Peter Pan, Alice o Pierino Porcospino incontrerebbero (scritti oggi) l’approvazione di un qualunque ufficio marketing o comitato critico di settore. Ma una volta, dico proprio un tempo, nel secolo scorso, non si parlava di “libertà” e di “fantasia”, associate ai libri? Certo sono termini molto difficili da usare, oggi, molto pericolosi. Sono felice di aver vissuto infanzia e giovinezza in tempi meno irreggimentati. Ed erano proprio i libri di allora, fra tante altre cose, a renderli tali; certo, la follia al potere ha provocato vari danni. Di solito gli eccessi producono altri eccessi, ma di segno opposto. Uno di questi è l’attuale tendenza esageratamente normativa nelle scelte editoriali più miopi e stereotipate. Ha successo la saga di Moonlight? Benissimo, si punta solo sui vampiri. E via: interi settori delle librerie piene di volumi tutti uguali, ognuno sopra le 600 pagine, con Il vampiro di mezzanotte, L’ombra del vampiro, Sangue sui tuoi denti, Canini scarlatti, L’amore è un doppio foro sul tuo collo, A cena col vampiro, Pranzi veloci per conquistare il tuo vampiro di Benedetta Parodi. Ora poi si profila un autunno molto nuancé, con 50 sfumature di qualunque cosa….


Fra le incongruenze che manifesta L'ora blu, anche quella di apparire un libro ideale per un pubblico europeo, che dovrebbe cioè condividerne la cultura di appartenenza, per poi risultare invece a sospresa più accattivante per paesi esotici e lontani da noi: eccetto Naïve Livres, francese, gli editori che ne hanno acquistato i diritti sono uno cinese e uno messicano. La hora azul, edito da Oceano Traversía, ci è arrivato da poco. E ritrovarcelo fra le mani, dopo quattro anni (è uscito nel 2009), ci ha fatto venir voglia di riprenderlo e sfogliarlo. Nel 2009, Le figure dei libri ha dedicato molto spazio al libro: con una recensione e due belle e lunghe interviste ad Antonio Marinoni e a Massimo Scotti.


Ora, siccome a mio avviso nei libri illustrati è l'immagine a fare la parte del leone, quando chi li edita sa benissimo che il testo ha il medesimo peso nella loro riuscita (così come sa che trovare buoni autori di testi per albi è quanto mai raro, così come sa che la tendenza di chi produce immagini è di non dare troppa importanza al testo), ecco, per tutte queste ragioni oggi sotto i riflettori ci sarà il testo dell'Ora blu, molto più che semplicemente bello. Immaginatelo come una sorta di torta diplomatica, fatto di tanti deliziosi strati diversi. Ho chiesto a Massimo Scotti, studioso di letteratura francese, di viaggio, e di letterature comparate, di illustrarci quali ingredienti abbia usato per confezionarlo, mettendo in evidenza quante parole e libri di altri possano vivere all'interno di un racconto e animarlo segretamente.


Massimo, la tua protagonista è una giovinetta, Hortense des Orphées. O meglio è il suo diario il protagonista, quel che determina la messa in moto del racconto. In esso si legge in controluce la tradizione della scrittura privata, diaristica ed epistolare, poi diventata vero e proprio genere letterario. Nella voce di Hortense si colgono timbri di voci femminili familiari, uscite da pagine più o meno famose. A chi ti sei ispirato per caratterizzarla?

Locandina del film di Roger Vadim, 1959.




















Prima di tutto grazie per queste parole e per tutta questa attenzione, quindi, Hortense: avevo in mente molte educande e giovinette dei secoli scorsi, ma la prima a cui ho pensato è stata Cécile Volanges nelle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. L’epoca è più o meno quella, e Cécile, appena uscita dal convento, non conosce molto il mondo; le hanno detto però che le ragazze vengono riportate a casa dai conventi per convolare a nozze, così, alla prima visita maschile, per poco non sviene. Uno sconosciuto si inginocchia ai suoi piedi, lei per l’emozione si mette a strillare. Scoprirà subito dopo che si tratta solo del calzolaio, venuto a prendere le misure per un paio di nuovi stivaletti.

Jean-Honoré Fragonard, Le verrou, 1778, Louvre.
Fotoromanzo dal film Les liaisons dangereuses di Roger Vadim.

Glenn Close/Marchesa de Merteuil, Uma Thurman/Cécile de Volanges,
nel film Les Liaisons dangereuses di Stephen Frears, 1988.

Giana Anguissola.
E ricordavo che a quell’episodio sembrava ispirarsi un’autrice novecentesca, Giana Anguissola, nella sua serie dedicata a Giulietta. Un’altra ragazzina, di un’epoca diversa: Giulietta è innamorata del vicino, padre di famiglia, e quando lui le chiede un colloquio, per parlare di una cosa molto seria, pensa già che il giovane signore voglia lasciare la moglie per lei; in un susseguirsi molto comico di equivoci, scopre alla fine che il vicino voleva solo chiederle di fare da baby-sitter ai suoi figli. Avevo scritto alcune pagine del diario di Hortense inserendo episodi simili, ma poi le ho eliminate dalla stesura definitiva perché occupavano troppo spazio ed erano, tutto sommato, superflue. Rimane, di Cécile e di Giulietta, il tono ingenuo.

Ho cercato di riprodurre anche l’ironia di cui gli autori avevano intriso la presentazione dei loro personaggi; ma vorrei aggiungere un dettaglio, legato al discorso precedente: ho letto le Relazioni pericolose a dodici anni, senza traumi. Magari ho capito poco, ma mi sono molto divertito, e quella lettura mi è rimasta nella memoria; dunque un dodicenne dell’aureo secolo scorso poteva leggere contemporaneamente Laclos e Giana Anguissola: un libro “proibito” e uno “per signorine”, con gran gusto e senza danno. In barba alle attuali – e inflessibili – leggi pedagogiche. Magari anche entrando per una volta in mondi non suoi, guidato dalla curiosità e dal desiderio di libertà, cose che non fanno mai troppo male.

Quando si leggono diari e lettere di persone anche molte giovani vissute secoli fa, da una parte può colpire l'ingenuità, e quello che chiamerei il tratto convenzionale dell'eloquio, la retorica; dall'altro, all'opposto, la maturità di pensiero, l'originalità, la ricchezza e l'eleganza dello stile soprattutto, rispetto alla capacità attuale di praticare la scrittura da parte dei giovani.

Sì, questo è assolutamente vero, anche se come al solito non dobbiamo generalizzare. Saper scrivere e saper variare i toni del proprio discorso è una pratica abbastanza difficile, che richiede un lungo esercizio; certo l’uso generale della lingua da parte dei media in questo periodo è scoraggiante.

Mi stupiscono tanti fenomeni diversi e contraddittori. Ci sono giornali scritti incredibilmente bene e spaventosamente male. Traduzioni eccellenti e traduzioni ridicole. Lingue nuove che nascono ogni giorno (il sistema comunicativo degli sms, dei social network ecc.) e sistemi di appiattimento generale della lingua che fanno quasi paura.
C’è ora un film, nelle sale, che tratta, fra tanti altri temi, anche questo, Tutti i santi giorni di Virzì. Può apparire anche troppo semplificante, troppo superficiale e manicheo nella divisione tra buoni e cattivi, onesti e farabutti. Però osa affrontare per esempio il tema di due innamorati che parlano, letteralmente, due diversi linguaggi: anche in questo appare un po’ schematico e surreale, ma dopotutto ha lo stile di una favola moderna, a tratti anche drammatica, quindi a modo suo funziona; dunque, i due protagonisti hanno due modi comunicativi totalmente differenti, lui è colto e sofisticato nell’eloquio (perché fa letture di altissimo livello e di altrissimi tempi), lei è semplice, perfino rudimentale, però in compenso scrive canzoni in inglese, dai testi lirici e raffinati (nel film come nella vita). Ora, trovo spesso che il livello poetico, oltre che stilistico, di certe canzoni contemporanee sia notevole – e anche in questo caso, per contro, esistono cime abissali di orrore. Ma il suggerimento alla riflessione che viene dal film è molto interessante: siamo anche fatti di come ci esprimiamo in parole, le nostre idee si moltiplicano quando i termini si differenziano, il nostro linguaggio può definire e far scoprire la singolarità a cui tutti aspiriamo; in altri termini, perché tutti continuano a dirci “sii te stesso”, “sei assolutamente unico”, e vogliono venderci a tutti i costi “prodotti esclusivi”, quando poi tutto, intorno a noi, a cominciare dal linguaggio, tende a livellarci pesantemente? Nel film le persone ridono di come parla Guido, però molte rimangono affascinate: Antonia, per prima, è conquistata dal suo strano linguaggio, e così anche le hostess tedesche dell’albergo in cui lavora sono intenerite e sedotte dall’arcaico stile germanico delle sue frasi, imparate sulle pagine dei filologi ottocenteschi; dunque, come direbbe Carrie Bradshaw di Sex and the City, il linguaggio può diventare strumento di seduzione?

Sarah Jessica Parker, ovvero Carrie Bradshaw.

Certo, se si differenzia da quello che Mallarmé chiamava “lingua della tribù”, piatta, ordinaria, comune. E bisogna notare che Guido non usa quel modo di esprimersi con sussiego o con presunzione. Viene direttamente dal suo mondo di letture, dal piacere della lettura di testi che appartengono ad altri tempi e altri luoghi, perché anche questa è libertà: la possibilità di trovare spazi personali, unici per noi, nella sconfinata ampiezza della storia – un piacere oggi davvero sconosciuto. C’è una frase di Hobsbawm, il grande storico morto di recente; l’ha citata Internazionale, e suona quasi come un allarme. “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.” La parola antiquato è stata sostituita con antico, e questo ha provocato un grave danno. Si dà oggi all’idea di antico un senso dispregiativo. Probabilmente i ragazzi oggi temono di non risultare abbastanza “moderni” se non usano il linguaggio della tribù.

Édouard Manet, ritratto di Stéphane Mallarmé.

Stéphane Mallarmé.
Ma non sospettano che l’antico e il nuovo siano perenni ricicli degli stessi contenuti in forme diverse, e si stupirebbero molto se scoprissero, per esempio, l’arcaicità del linguaggio dei telefonini: se io scrivo ke, ki, al posto di che e chi, per risparmiare sulle battute di un sms, mi esprimo esattamente nell’italiano arcaico degli autori del Novellino (XIII secolo). Ci sarebbe poi un lungo discorso da fare sui diversi modi linguistici, sugli stili adatti a vari tipi di comunicazione, sul fatto che non ci si può esprimere con tutti nello stesso modo, ma è divertente invece variare i propri sistemi di espressione a seconda della situazione e delle esigenze particolari, ma basterà dir questo: mi sono divertito molto a immaginare come potesse scrivere Hortense, e mi sono immedesimato in lei anche attraverso quello che immaginavo potesse essere il suo linguaggio personale, privato (diaristico, appunto).


L'ingresso nel racconto dell'altro protagonista, il Conte di Saint-Germain, determina un repentino cambio di registro stilistico. I riferimenti sono sempre a quel periodo che sta fra Settecento e Ottocento, Illuminismo e Romanticismo, ma entriamo in un ambito molto diverso: l'alchimia, le scienze occulte, la massoneria. Cosa ti ha interessato e divertito di più portare alla luce di queste esperienze e atmosfere?

I migliori autori del racconto fantastico insegnano che più l’inaspettato si sprigiona in un contesto realistico, borghese, quotidiano, anche banale, più ha speranza di emozionare il lettore, e quindi più risulta potenzialmente impressionante; è l’antica e comprovata idea del “vuoto”, in arte, che risalta meglio se è posto accanto al “troppo pieno”, oppure la suggestione visiva che si ottiene affiancando colori complementari: un magnifico rosso carminio prende potere e luce se circondato da un blu cinerino. All’inizio del racconto troviamo un commesso viaggiatore, molto grigio e molto usuale.
Non immaginerebbe mai di fare il solito viaggio in compagnia però di fantasmi; così, la piccola e candida Hortense è pronta magari a innamorarsi di un agrimensore, come accade alla sua amica, ma non di un personaggio demoniaco.




















 Il Conte di Saint-Germain è anzitutto lo splendido tenebroso che andava molto in voga nei romanzi neri di quell’epoca, ma è anche un personaggio davvero esistito, benché molto favoleggiato ai suoi tempi; io ho una passione per quelle atmosfere e quelle storie, e in questo caso mi sono ispirato, oltre che alla figura reale del Conte, anche a una serie di racconti in cui la figlia dell’alchimista o dello scienziato pazzo viene immolata sull’altare della sperimentazione occulta (La figlia di Rappacini di Hawthorne, Il caso Makropulos di Karel Čapek).

A che fonti hai attinto per tratteggiare questo sulfureo seduttore? 

Sul Conte di Saint-Germain hanno scritto in tanti; pare che abbia incontrato di persona anche Horace Walpole, “inventore” del romanzo gotico con Il castello d’Otranto, e qui il cerchio già potrebbe chiudersi, perché è un po’ come se Bram Stoker avesse incontrato Dracula. Il romanzo più bello dedicato al Conte di Saint-Germain è quello di Alexander Lernet-Holenia. D’altra parte, Saint-Germain è una specie di alter ego di Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro
 
Il Conte di Cagliostro.

Vlad III Dracula.



















Ritratto di Horace Walpole, Joshua Reynolds, 1756-57.
 Nathaniel Hawthorne, di Charles Osgood, 1841.
Il Conte di Saint-Germain.

















A me è piaciuto soprattutto “umanizzare” la figura del sulfureo seduttore, come dici tu: ho guardato a lungo il suo unico ritratto conosciuto, mi ha fatto simpatia con quell’aria buona, un po’ mesta, e quel nasone, così ne ho fatto un uomo ferito per amore (ferito anche in senso letterale), che va in cerca della morte. Una situazione a dir poco inusuale; la cosa che tutti temiamo di più, lui la desidera, anche perché potrebbe restituirgli l’essere amato; il legame fra la morte e l’amore è un tema principe del Romanticismo come del Decadentismo, e mi accorgo, con un po’ di stupore, che tutte le mie storie scritte per voi parlano sempre di questo (un altro argomento che non piace molto, forse, ai pedagogisti).





















Infine, Tony Tanner: in questo personaggio c'è molto della letteratura contemporanea. Il suo tono colloquiale, piano, quasi dimesso, contrasta apertamente con quello dei due protagonisti.

Dunque, Tony Tanner è stato un grandissimo critico letterario, doveva essere una persona molto simpatica, a giudicare da quello che scrive, e ha un nome allitterante che mi piace molto perché sembra finto. Ho voluto dare il suo nome, per contrasto, al mio personaggio, che è un po’ il commesso viaggiatore di Arthur Miller, un po’ il protagonista della Modificazione di Butor, un po’ l’uomo qualunque che tutti siamo, e che non sa di vivere un’avventura del tutto straordinaria, com’è sempre la nostra esistenza (solo che spesso non ce ne accorgiamo). Lui, il Tanner dell’Ora blu, al contrario del suo omonimo critico, non conosce il mondo romanzesco in cui vivevano le persone – alcune persone – fra Settecento e Ottocento. Noi, nel senso di noi contemporanei, abbiamo elaborato nell’immaginario quel mondo come romanzesco; se penso a un secolo davvero poderoso e sconfinatamente sbalorditivo, mi viene in mente proprio il XIX, ma ripeto, è la nostra costruzione culturale di quell’epoca a renderla così stupefacente, proprio perché la conosciamo soprattutto, principalmente e con maggior piacere, proprio dai romanzi e da tutte le storie ambientate in quel tempo (e in quel mondo).

Nel tuo racconto dialogano registri stilistici, personaggi, voci, sguardi, punti di vista. E attraverso di loro dialoga il tempo: passato, presente e futuro. Cosa aspetta Tony Tanner, sceso dal treno e avviatosi alla ricerca di Hortense?


Beh, ci vorrebbe un sequel, e poi magari un altro, e alla fine un prequel; ovviamente, la prima cosa da fare sarebbe seguire Tony Tanner nei suoi vagabondaggi. È il classico eroe senza una meta, ma anche i viaggi di ricerca sono diventati ormai un luogo comune. Metà dei film italiani, oggi, sono road movies, e ormai si ripetono. Mi chiedo sempre come faccia la gente ad avere tanta voglia di sapere dov’è finito lo zio Pino, scomparso da una balera: dove vuoi che sia? Si godrà in pace il suo panino con la porchetta, nascosto da qualche parte in modo che non glielo rubino. Ma anche, mi chiedo: il milionesimo assassino e l’ennesimo serial killer, interessano davvero così tanto? Di certe cose talmente rifritte il pubblico non si stanca mai?

Il Divin Marchese, di Charles-Amédée-Philippe van Loo.
A volte si ha paura di scrivere storie che assomiglino troppo a tutte le altre, poi salta fuori una tranquilla massaia con fantasie sadomasochiste, e il caso scoppia. Ma come? E gli innumerevoli romanzi libertini del XVIII secolo? E quel povero Marchese de Sade, che non ha fatto altro se non scrivere storie di sadismo (a cui peraltro ha dato il suo nome), ed è finito anche in galera per questo? Tutti dimenticati. Però ho seguito un’intervista con E. L. James, e devo dire che è una donna irresistibile, autoironica, un po’ matta. Varrebbe la pena di leggere uno dei suoi libroni solo per farla contenta.


Hai giocato con i piani narrativi legati ai tre personaggi, suggerendo al lettore molto di loro, del loro carattere, del modo che hanno di guardare la realtà, attraverso il modo che hanno di esprimersi: e con ciò implicitamente dichiarando quale sia la funzione dello stile.

Lo stile è tutto, punto.

Parlare dello stile e della sua funzione può sembrare scontato, ma non lo è. Oggi il romanzo (per ragazzi e non), può essere costruito al di fuori di preoccupazioni di stile, e la scrittura diventare  semplicemente funzione della trama e della definizione di precisi contenuti, per esempio di attualità, o di generi come il fantasy o la fiction.

Personalmente odio i libri che hanno una scrittura particolarmente – magari anche volutamente – piatta. “Lei è seduta accanto alla finestra. La apre. Accende una sigaretta. Il fumo sale nella stanza. Cade la cenere. Cerca un posacenere. Introvabile. Allora butta la cenere fuori dalla finestra. Poi butta anche la sigaretta. Vuole smettere di fumare. Squilla il telefono”. Ecco, io non riesco ad andare avanti, è più forte di me, magari poi la storia si complica e diventa interessante, ma faccio troppa fatica. La scrittura diventa la didascalia di un’immagine inesistente, e spesso prevedibile. Non mi racconta niente di più rispetto a quello che posso percepire io della realtà, in ogni momento: la superficie senza niente dietro, anzi, con dietro il vuoto. Temiamo tutti, sempre, che dietro la realtà ci sia soltanto il vuoto, ma migliaia di anni di cultura e civiltà sono stati spesi proprio per nasconderlo. È quella la loro funzione, farci dimenticare che al di là di quello che vediamo non ci sia proprio niente.

Bela Lugosi ovvero il Conte Dracula, 1927.
E più ci riescono, gli artisti e gli scrittori, più svolgono bene il loro compito; la bellezza e l’armonia sono illusioni, certo, ma bisogna smascherarle solo per poi passare la vita a nutrirci di squallore? Sai che noia. Lo stile è fatto apposta per illuderci che le parole ne sappiano un po’ più di noi su realtà diverse, nascoste e lontane, mi pare magnifico crederci, a costo di illudersi. Tanto, cosa cambia?
Un discorso completamente diverso da fare sarebbe quello della “letterarietà” e dei suoi misteri; tempo fa parlavo con una redattrice che si mostrava molto stupita della mia passione per Harry Potter: “Ma non è mica letterario!” è sbottata. “È scritto malissimo. ‘Ron disse’, ‘Hermione disse’, l’autrice non sa usare nemmeno dei sinonimi!”.

Daniel Jacob Radcliffe ovvero Harry Potter.
Questo è un vero equivoco. Un testo è davvero letterario, secondo me, e ha uno stile inconfondibile, anche se non usa un linguaggio particolarmente forbito (cosa non importante né essenziale), ma se riesce a creare con il suo linguaggio un mondo, e se sa farci credere in quel mondo: l’esempio di scrittura di cui ho parlato prima non è scontato e soporifero solo perché usa termini comuni e insignificanti, ma perché le immagini che crea, il mondo che costruisce sono opachi. Posso immaginare perfettamente cosa faccia una donna sola in una stanza alla finestra: se è una fumatrice fumerà, se è logorroica parlerà tre quarti d’ora al telefono con un’amica, come lei nullafacente. Se non mi si dice niente di quella stanza o di quella finestra, penso subito a quelle case in cui si è appena andati ad abitare, ancora senza mobili, e mi viene la malinconia. Se solo si aggiungesse che la sigaretta ha un cerchietto d’oro intorno al filtro, penserei almeno a quelle sigarette che fumavo io da giovane, per gasarmi un po’, costosissime e schifose. Magari al mentolo. Mi verrebbe in mente quel tempo là e mi divertirei a ricordarlo; ma anche l’attenzione per gli oggetti, le descrizioni accurate, sono ormai desuete. Molti libri vengono scritti come trattamenti cinematografici, in attesa di un film che magari non verrà mai. E forse è meglio così, perché lo posso immaginare: luci livide in una stanza, a febbraio, con un mondo grigio fuori, un’attrice impacciata che guarda nel vuoto, del tutto inespressiva. E dal suo sforzo visibile possiamo immaginare il regista, dietro la macchina da presa, che la aizza: “A’ Tea, a’ bbella, deve fa’ vvedé che stai a suffrì! Soffri, cocca, dajje!”.

La passione per la letteratura comincia prestissimo per te, fin dall'infanzia e adolescenza. Cosa ti affascinava di più nei libri, cosa cercavi?


Heinrich Heine.
Cercavo di scrivermi da solo i libri che nessuno aveva scritto per me, poi però ne leggevo sempre di nuovi e scoprivo che i libri contenevano molte più cose di quanto avrei mai potuto immaginare, perché la fantasia si autoalimenta, quando c’è, e si spera che non abbia mai fine. Mi piaceva però anche tutto quello che vedevo oltre le pagine; sono sempre stato molto lento a leggere, perché sospendevo spesso la lettura per guardarmi intorno, e trovavo quasi sempre stupefacente l’interazione fra la sfera del reale e quella dell’immaginario, nessuna delle due poteva esistere senza l’altra, erano due complici e il loro accordo segreto mi incuriosiva, proprio perché di solito erano ambiti opposti ed estranei. 


Un solo esempio: ogni volta che penso a Heine, uno dei miei scrittori preferiti, mi viene in mente una sera d’autunno in cui leggevo il suo libro Donne di Shakespeare nella cucina di mia zia Palmira, in campagna; c’era una luce fioca, la stufa accesa, i grandi parlavano fra loro a voce bassa di problemi familiari; io tenevo il libro sulle ginocchia, era un bel volume illustrato, e pensavo alla vita diversa che facevano quei personaggi, tanto lontani da noi, però mi incuriosiva anche spiare cosa stava succedendo in famiglia, sperando in qualche scandalo. Così la zia mi sorprese a fissare il muro un po’ scrostato, invece delle pagine, e mi disse “C’è troppo scuro, non riesci più a leggere?”. Come al solito, queste esperienze e questi ricordi hanno senso esclusivamente per chi li ha vissuti, però te li racconto per farti capire che anche l’occasione della lettura entrava a far parte del fascino della lettura stessa: quel particolare momento dell’anno, il buio e il freddo fuori, il senso di protezione della stufa accesa e dell’atmosfera domestica, quei disegni bellissimi che vedevo, le parole che leggevo e il senso di mistero che si diffondeva intorno: Desdemona era colpevole o no? Lady Macbeth sarebbe riuscita nei suoi intenti? E cosa aveva combinato il nostro grassissimo zio Carlo, di cui si parlava sottovoce?