mercoledì 9 marzo 2011

I Tartaglia verdi come ramarri

Con la licenza che ci è consentita, fin dai tempi del teutonico vescovo e patrono Ambrogio, dall’essere meneghini, possiamo parlare ancora di Carnevale, anche in tempi che per tutti gli altri son di quaresima.
E lo facciamo con un po’ di nostalgia per le maschere della tradizione italiana, che sono sempre meno frequentate da chi, bambino o adulto, si lascia trascinare dalla febbre del travestimento. Ma, si sa, la nostalgia del bel tempo andato è cosa che accomuna le generazioni. Infatti, nella nostra collezione abbiamo trovato questo libro e vi abbiamo letto:



I ragazzi d’oggi conoscono maschere che ai miei tempi non esistevano; una, stupendamente italiana, Pinocchio, l’ho vista nascere; altre, come Fortunello, son venute d'oltremare; e quelle più propriamente teatrali, Gioppino, Fagiolino, Sganapino, Gianduia, Gerolamo sono relativamente moderne, vestite press’a poco come i nostri nonni e bisnonni, con qualche aggeggio e nastro e agghindamento ridicolo in più. 



Ma le maschere vecchie che son state, per quasi tre secoli, la delizia, non già dei bambini, ma degli uomini serii, dei parrucconi più immusoniti, gli Arlecchini, i Truffaldini, i Pantaloni, i Brighella, i Capitanacci spagnoleschi che tagliavano le montagne con una sciabolata, i Tartaglia verdi come ramarri sono andati quasi tutti in pensione, e i loro colori si perdono nelle nebbie dell’oblio.





Ma il nome resta, entrato nella nostra parlata: e per questo non è forse inutile rievocarli, ripetere alla letizia dell'infanzia d’oggi com’è nata e che cos’era la letizia infantile di chi, ormai, nel migliore dei casi, se ha ancora i capelli, li ha bianchi come la neve.





Perché queste maschere non sono state soltanto travestimenti carnevaleschi o balocchi vivacemente verniciati; alla loro invenzione hanno collaborato l’estro comico del popolo, il gaio istinto d’osservazione e  di imitazione, la sua vivacità motteggiatrice e satirica: e per esse e intorno ad esse s’è formato un teatro nuovo, ricco di tali fermenti vivi, che il teatro più importante e artistico, per nascere, ha dovuto distruggerle derivando, però, in parte, da esse, una più sciolta umanità di quella che il solenne teatro letterario gli trasmetteva.



Il libro è Piccola storia d’Arlecchino e C., di Renato Simoni, con illustrazioni di Sergio Tofano, pubblicato da Editoriale Milano nel 1946. Il libro è piuttosto raro, ma non costosissimo. La rilegatura, rivestita in carta, è abbastanza fragile, soprattutto alle cerniere. Esemplari privi di difetti sono rari. Il nostro ha uno sbocconcellamento al piede del dorso, visibile nella foto, ma ce lo teniamo lo stesso.
Ulteriori notizie su Sergio Tofano le trovate qui. Ma non dimenticatevi il catalogo della mostra curata da Hamelin, che forse potete comprare qui e, più probabilmente, nel sito di Orecchio Acerbo.

3 commenti:

Annalisa ha detto...

Oddio... Sono andata subito a cercarlo. Duecento euro.
Per me, costosissimissimo! Anzi, di più.
Peccato (mi avevate fatto venire voglia, con tutte quelle foto)

Topipittori ha detto...

Per comprare i libri, cara Annalisa, ci vuole molta pazienza. Siediti sulla riva del fiume e aspetta: prima o poi passerà, trascinato dalla corrente, a ventidue euro e cinquanta.

marcogi ha detto...

... oppure, piccole preziose e colte case editrici (e meno male che ci siete!), rieditiamo qualcosa ???! ...