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lunedì 13 luglio 2015

Raccontare il Tempo

Quando in libreria per la prima volta ho visto la copertina di Qui, di Richard McGuire (titolo originale, Here, edizione italiana Rizzoli Lizard), mi hanno colpito tre cose: la finestra aperta in primo piano (con l'implicito omaggio a Hopper); il titolo, Qui, sospeso nel buio, accanto alla tenda; l'assenza, vistosa, del nome dell'autore. Un invito a entrare nel libro e nella casa, e nello stesso tempo, il più stretto riserbo sul loro contenuto. A un primo sguardo, infatti, il libro avrebbe potuto essere, indifferentemente, un romanzo, una raccolta di immagini o di poesie, un'autobiografia o una graphic novel, quale in effetti è.

Quando avevo quattordici anni, in quarta ginnasio, mio padre mi consigliò di leggere un libro: Gita al faro, di Virginia Woolf (To the Lighthouse). Oggi, in tempi di omologazione culturale, quest'idea fa alzare più di un sopracciglio, a rivelarla, come si parlasse di uno snobismo o di un panzana. D'altra parte, giustamente, se uno a quattordici anni può cimentarsi con Omero o Seneca in lingua originale, può ben confrontarsi con testi della letteratura del Novecento, e probabilmente con meno difficoltà. Per me Gita al faro rimase per sempre Il libro. Quello che la Woolf raccontava, e il modo unico in cui lo faceva, era l'esistenza nella sua irriducibile complessità, dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande: il mondo, il cosmo, l'amore, la morte, le parole, il tempo, lo spazio, la vita del pensiero. E in mezzo a tutto questo c'ero anche io, il modo in cui dentro la vita io ero.


Il primo capitolo di Gita al faro si intitola La finestra. In una delle edizioni che possiedo, Feltrinelli 1992, traduzione e cura di Nadia Fusini, a proposito della posizione assunta dalla Woolf nei riguardi della narrazione, Fusini spiega: «L'io della Woolf non è una personalità, né un soggetto del pensiero e del fare, che concluda in persona, o personaggio. È un “io penso” assolutamente impersonale, che rinvia all'immaginazione come alla sua fonte.» Gita al faro è un romanzo (la Woolf non voleva lo si chiamasse così, consapevole della sua assoluta novità rispetto al passato) in cui l'autore scompare, si cancella.


Fin dalla prima pagina di Qui - storia fulgente, ipnotica e conturbante di un frammento di spazio, nello specifico la stanza di una casa (appartenuta alla biografia dell'autore), scandita attraverso un flusso temporale non lineare che va dalla nascita della Terra fino a un futuro non ancora realizzato -, il mio pensiero è andato a Virginia Woolf, alla sua prospettiva visuale, alla sua altissima capacità narrativa, alla geniale rivoluzione che nella letteratura rappresentò la sua scrittura.


Il secondo capitolo di Gita al faro si intitola Il tempo passa, e al centro della scena c'è una casa vuota, attraversata dal flusso degli eventi che l'hanno abitata. È il Tempo, qui, il personaggio dell'azione. In tutta l'opera della Woolf è il tempo il grande protagonista, descritto con precisione entomologica e vertigine mistica, entro il quale ogni altra vicenda è inscritta in un flusso magmatico, non lineare, a dar conto del mistero della condizione umana. A sua volta, la Woolf nel portare il tempo in primo piano, ha un illustre precedente: il Tempo come personaggio fece la sua apparizione per la prima volta con Shakespeare, in Racconto di inverno, dove, personificato, prende la parola in un celebre monologo e si rivolge al pubblico. Nei primi decenni del Novecento, insieme alla Woolf, altri colossi del pensiero e della letteratura, come Marcel Proust, James Joyce, Bergson, Einstein scardinarono completamente le categorie di tempo e spazio secondo l'accezione tradizionale, restituendo una visione nuova della vita umana, del funzionamento del pensiero e della memoria, e del contesto fisico, fenomenico, entro cui questi accadevano.


Per avere qualche notizia in più su Here ho trovato due bei post che Fumettologica gli ha dedicati: il primo, relativo alla storia del libro, che ha avuto due edizioni, la prima su rivista nel 1989, e la seconda profondamente modificata, nel 2014; il secondo, dedicato a un'intervista al suo autore sulle ragioni, gli intenti e le radici di questo lavoro. Entrambi mi sono stati utili per mettere a fuoco il lavoro realizzato da McGuire, e ne consiglio la lettura, e tuttavia riguardo ad alcune affermazioni in essi contenute sono rimasta perplessa.


Per esempio, se credo sia vero che Here per la prima volta ha portato nel fumetto questa nuova prospettiva di tempo e narrazione, in nessun modo, credo, si possa considerare McGuire il suo inventore: il cambiamento radicale della coscienza umana nella filosofia, nelle lettere e nelle arti fu opera dello straordinario lavoro sulla parola, sulle idee e sulla rappresentazione realizzato da scrittori, scienziati, artisti e filosofi.
Insomma, che McGuire abbia rivoluzionato il fumetto in questo senso, non lo si dubita e gliene si dà tutto il merito, ma che, come afferma Chris Ware in una citazione riportata in uno dei post: “McGuire è un genio e quello che ha dato a ogni lettore con Here è stato un modo personale e singolare di guardare la vita”, su questo non si può essere d'accordo, senza nulla togliere al valore di McGuire.


In uno dei post di Fumettologica si enunciano anche, a proposito di Here, come sue caratteristiche originali, il “funzionamento caotico della memoria umana, la “forte componente autobiografica presente nel libro”, “l’importanza della musica per la struttura e il ritmo dell’opera,  “il fatto che Qui è sia un audace esperimento narrativo postmoderno sia un libro che affonda le sue radici filosofiche nella bizzarra visione del tempo offerta dalla meccanica quantistica”. Per il debito che Here ha evidentemente con il pensiero e la letteratura del Novecento (visione del tempo e dello spazio, struttura narrativa fortemente influenzata dalla musica; rappresentazione del flusso della memoria e del pensiero) non credo sia corretto definirlo “un audace esperimento narrativo postmoderno”.


Ma di quanto ho letto, forse la cosa che mi ha lasciato più perplessa è questa, contenuta nell'intervista a McGuire.
Chiede Fumettologica: Da fumettofili non possiamo che partire da una constatazione: le pagine di Qui sono molto diverse dallo standard compositivo tradizionale dei fumetti. Somigliano invece a un “multistrato” composto da più livelli grafici sovrapposti che ci fa pensare ad autori come Fred, Marc-Antoine Mathieu o Gianni De Luca. In che modo era tua intenzione sottolineare il ruolo del layout?

McGuire, risponde: Be’, l’intera storia di Qui è costruita con questa struttura che non è certo convenzionale per un fumetto. Ma è proprio questa la caratteristica più sorprendente e l’aspetto più importante del medium fumetto in quanto tale: puoi creare una visione simultanea di qualcosa, un risultato particolare che non puoi ottenere in questo modo in nessun altro medium. Se tu dovessi scrivere un romanzo per ottenere un risultato analogo saresti costretto a usare una lunga descrizione testuale come introduzione e poi a scrivere continuamente “nel frattempo…”, “nel frattempo…”, ”nel frattempo…” e così via. Neanche nei film puoi ottenere un risultato simile: presentare la costante contemporaneità di molti eventi su pellicola alla fine produce molta confusione nello spettatore. È proprio questa totale simultaneità, a mio avviso, la vera forza del medium fumetto.


In nessun modo, io credo, si può sostenere che la creazione di una visione simultanea degli eventi sia “un risultato particolare che non puoi ottenere in questo modo in nessun altro medium”. Ogni medium, che si tratti di fumetto, cinema, letteratura, ha accesso alla rappresentazione di una visione simultanea secondo i propri strumenti. Woolf, Joyce, Proust hanno cambiato la letteratura attraverso una lavoro sulla lingua e sulla parola che da quel momento fu in grado di raccontare sequenze temporali non lineari, flussi di pensiero, sogni, percezioni e memorie a cui indubbiamente il fumetto di McGuire è fortemente debitore. E per quanto io sappia lo hanno fatto senza mai aver avuto bisogno di «scrivere continuamente “nel frattempo…”, “nel frattempo…”, ”nel frattempo…” e così via.» Altrimenti non occuperebbero il posto che hanno nella letteratura.

Insomma, credo che se oggi qualcuno è così straordinariamente dotato da portare il proprio lavoro a questo livello narrativo non possa che essere fondamentale il riferimento alle radici più o meno consapevoli del suo lavoro. Il fatto che il mito greco sia alla base dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese non intacca minimamente la bellezza e l'importanza del suo libro, se mai configura con chiarezza lo spessore e la ricchezza su cui Pavese innestò la sua riflessione estetica. E dalle immagini qui riportate è evidente la bellezza, la grandezza visionaria e la complessità del racconto costruito da McGuire con straordinaria bravura, oltretutto perfettamente funzionante dal punto di vista narrativo, cosa affatto scontata, vista la difficoltà della materia narrata.

Cultura e biologia si somigliano, entrambe si reggono su un tessuto vitale di relazioni che ne sanciscono lo stato di salute e forza. Era quello che intendeva Ernst Gombrich quando parlava del gioco della “culla di spago” assunto come metafora dello sviluppo delle forme culturali attraverso il tempo: le generazioni si passano l'un l'altra una configurazione nuova del gioco, configurazione che nasce da una corda sempre la stessa e da movimenti delle mani che determinano intrecci sempre diversi, ma la cui forma è creata dalle possibilità inscritte in tutte le forme precedenti realizzate dalle generazioni passate. Fra l'altro, questo non è proprio anche uno dei temi del libro di McGuire?


Per dare un saggio di quanti pochi “nel frattempo” ha avuto bisogno Virginia Woolf per mettere il scena, simultaneamente, in una stanza, passato, presente e futuro, vi riporto un brano, memorabile, da Tra un atto e l'altro, ultimo romanzo uscito postumo, dopo il suicidio della scrittrice, nel 1941.

Lucy fece scivolare la lettera nella busta. Era ora di leggere il Sommario di Storia. Ma aveva perduto il segno. Voltò le pagine guardando le illustrazioni – mammuth, mastodonti, uccelli preistorici. Poi trovò la pagine dove si era interrotta.
L'oscurità aumentava. La brezza irruppe nella stanza. Con un piccolo brivido la signora Swithin si strinse attorno alle spalle lo scialle coi lustrini. Era troppo immersa nella storia per chiedere che chiudessero la finestra. «L'Inghilterra - stava leggendo – era una palude. Fitte foreste coprivano la superficie. Sulla cima dei rami fittamente intrecciati gli uccelli cantavano...»
Il grande riquadro della finestra aperta ora mostrava soltanto cielo. Prosciugato dalla luce, severo. Freddo come la pietra. Le ombre calavano. Le ombre strisciavano sull'alta fronte di Bartholomew; sopra il suo grande naso. Appariva sfrondato, spettarle, e la sua sedia monumentale. A un brivido che percorse la pelle del cane, la sua pelle rabbrividì. Si alzò, si scrollò, fissò il nulla e uscì impettito dalla stanza. Udirono le zampe del cane battere leggermente sul tappeto, dietro di lui.
Lucy voltò pagina, veloce, furtiva come una bambina a cui diranno di andare a letto prima della fine del capitolo.
«L'uomo preistorico» lesse, «metà uomo e metà scimmia, si drizzò dalla sua posizione semicurva e sollevò grosse pietre.»
Fece scivolare la lettere di Scarborough fra le pagine per segnare la fine del capitolo, si alzò, sorrise e in punta di piedi uscì silenziosamente dalla stanza.
I vecchi erano andati a letto. Giles spiegazzò il giornale e spense la luce, soli per la prima volta in tutta la giornata, restavano silenziosi. L'inimicizia era scoperta; anche l'amore. Prima di addormentarsi dovevano litigare; e dopo aver litigato si sarebbero abbracciati. Da quell'abbraccio un'altra vita forse sarebbe nata. Ma prima dovevano litigare, come la volpe maschio litiga con la volpe femmina, nel cuore dell'oscurità, nei campi della notte.
Isa lasciò cadere il lavoro di cucito. Le grandi sedie incappucciate erano diventate enormi. E anche Giles. E anche Isa contro la finestra. La finestra era tutto cielo, senza colore. La casa aveva perduto la sua difesa. C'era la notte, prima che le strade fossero costruite, o le case. Era la notte che gli abitatori delle caverne avevano contemplato da qualche sommità fra le rocce.
Poi si levò il sipario. Parlarono.

(Traduzione Francesca Wagner e Franco Cordelli, Ugo Guanda Editore, 1978)


lunedì 28 aprile 2014

La verità è sempre concreta

L'attenzione è una attitudine che mi colpisce sempre molto. Di solito, la spia dell'attenzione sono gli occhi. Occhi che, mentre guardano, pensano. Spesso mi capita di vederli in alcuni bambini, e quando accade ne rimango sempre presa.
Pia Valentinis è una persona attenta. Non parla molto. Ha uno sguardo molto fermo, come quello di una persona che non sia sicura di capire esattamente. E anche come se quel tipo di sguardo le fosse imposto dalle cose, una specie di risposta dovuta al mondo.
Una volta sono andata a trovarla nel suo studio, a Cagliari, e mi ha fatto vedere alcune tavole di Ferriera a cui allora stava lavorando. Era un lavoro la cui intensità emergeva con evidenza. Con impudenza le dissi che sarebbe stato perfetto per la nostra collana Anni in tasca graphic. E questo pur sapendo benissimo che il lavoro era destinato a un altro editore, quello che poi l'ha pubblicato, cioè Coconino Press. Ma si sa, gli editori...
Pia fu molto contenta, non che abbia in alcun modo preso in considerazione la proposta spudorata di tradimento, la stupiva la mia reazione di entusiasmo, che forse non si aspettava. La stessa reazione l'ho avuta leggendo il libro, da poco pubblicato, qualche giorno fa.


O meglio, entusiasmo non è la parola giusta. La definirei una sospesa e tranquilla meraviglia, che corrisponde allo stato d'animo su cui il ritmo, piano e profondo, della narrazione sintonizza il lettore. Non mi viene in mente che questo ossimoro, per descrivere la risonanza interiore che provoca il racconto.


Raccontare la propria famiglia, e dunque se stessi, non è facile. La materia autobiografica è scivolosa, perché ampia, crudele, prossima. Me ne sono resa conto osservando la fatica degli autori e fumettisti che hanno pubblicato nelle nostre collane dedicate all'autobiografia di infanzia e adolescenza. Nel libro di Pia, che ripercorre la storia di Mario, cioè del padre, operaio, a Udine, di questa fatica non c'è traccia, e non perché non ci sia stata: il libro ha avuto una lunga incubazione e lavorazione, proprio per le difficoltà che ha posto all'autrice. Il fatto è che ogni sforzo non ha lasciato residuo, bruciato da una narrazione che ha trovato una forma perfettamente coincidente e coerente con la propria materia.


Sono d'accordo con uno dei personaggi di Ferriera, Biagio, che ha studiato in seminario e cita a memoria Marx e Lenin, quando afferma: “La verità è sempre concreta”. Anche la poesia, lo è.
Ho letto diverse recensioni su questo libro (e molte altre ne usciranno), che giustamente ne mettono in luce temi, personaggi, contenuti. A me, quando ho pensato di scrivere qualcosa su Ferriera, è venuto subito in mente di elencare le pagine che mi sono rimaste, e mi rimarranno, in mente. Non perché siano migliori delle altre, ma perché in queste, per me, c'è una grande chiarezza di visione, coincidente con una altrettanto capacità di esprimerla.


Per cui adesso scriverò questo elenco. Le immagini che corredano questo post, però, non corrispondono a queste pagine, ma alla sequenza narrativa con cui Ferriera inizia. Perciò, se vi verrà voglia di osservare queste pagine, dovrete farlo con il libro fra le mani: per dire che questa non è tanto una recensione quanto una riflessione sul libro di Pia Valentinis.


Ecco le pagine di cui ho detto prima:

    - la pagina 6 dove si vede Pia che disegna, di spalle. Mi ha impressionato la precisione con cui Pia sa come è se stessa vista da dietro (questa la potete vedere, è la prima, dopo la copertina);
    - la pagina 18, il riquadro in basso a destra, in cui ci sono Pia, il padre e la madre, per mano, coi piedi nell'acqua bassa del mare, un mese prima delle vacanze, mentre si sottopongono, miti e solidali, alla fatalità della prima scottatura;
    - la pagina 25 in cui si elencano le acque sante bevute da nonna Luigia, per il modo in cui un semplice elenco di nomi mette a fuoco l'enigmatico rapporto fra fede e quotidiano, assoluto e relativo, sacro e profano;
    - la pagina 21 e la pagina 28, gemelle, nelle quali sei dettagli visivi accompagnati da sei frasi, in un caso pronunciate dalla nonna durante i pasti, e nell'altro dal padre mentre guarda la televisione, danno conto di chi le pronuncia con tale evidenza che si ha l'impressione di non aver necessità di sapere altro di queste persone/personaggi, (ma forse nemmeno di noi e della nostra famiglia);


   - la pagina 49 che apre il capitolo dedicato all'incontro fra i genitori con le parole di una vecchia canzone e immagini di baci di famosi film e attori in voga al tempo della storia: una scelta che evidenzia in modo disarmante come l'immaginario amoroso di ogni epoca determini in modo sottile, per analogia e contrasto, la realtà degli amori di chi in essa vive;
    - la pagina 66 in cui sono elencate le espressioni inglesi che il padre di Pia apprese durante il primo giorno di lavoro in una fabbrica australiana. Parole che, associate alle immagini di corrispondenti gesti delle mani, raccontano a chi legge non quella sola giornata, ma i tre anni che Mario trascorse in Australia, paese in cui era emigrato per lavorare;


    - la pagina 72 in cui attraverso il dialogo di due canarini si mette a fuoco cosa siano luoghi come una fabbrica o una miniera;
    - la pagina 74 in cui una intera pagina di francobolli dà conto di quella cosa immateriale e potentissima che sono le parole e i pensieri fra due persone lontane;
    - la pagina 75 in cui attraverso un dialogo fatto di otto battute e otto quadri, si dà conto contemporaneamente di due universi, delle dinamiche di una rapporto amoroso, del carattere di due persone, delle ragioni profonde che sottostanno a una scelta in grado di cambiare due vite.

Ricordo che, anni fa, quando guardavo le illustrazioni di Pia Valentinis, tutte le volte pensavo (con imbarazzo) che quello che mi piaceva di più non erano i tanti albi, certamente belli, che faceva. Io trovavo magnifici i disegnini che produceva per la rivista Fuorilegge. La letteratura bandita, edita dall'Associazione Equilibri. Erano dei microfumetti in bianco nero. Marginali, silenziosi. Adesso ho capito perché mi piacevano.

venerdì 21 febbraio 2014

Con le gambe a mollo ci spensieravamo

Brindisi all'acqua canterina è un fumetto realizzato da Antonella Toffolo nel 2002 (probabilmente), per una campagna contro la privatizzazione delle acque portata avanti dal Comitato acqua del bacino del Reno. Uscì in uno dei diversi opuscoli sul tema che furono pubblicati per l'occasione, ai quali, quelli che allora erano i proto Cani collaborarono su richiesta della sezione bolognese o emiliana di Attac Italia.
Pubblichiamo queste poche, ma bellissime pagine per ricordare la nostra amica Antonella, come facciamo ogni anno. Non per amore di anniversari, ma per amore di lei, che non ha mai smesso di starci accanto. In questa breve storia ci sono il suo sguardo sulle cose, il suo umorismo, la sua intelligenza, la sua capacità di dire e raccontare. E la sua luce.
Ringraziamo Elena e Antonio Bertolami per averci permesso di pubblicare queste immagini. E Lorenzo Sartori per avercele fornite.

mercoledì 5 febbraio 2014

Cani selvaggi

[di Emilio Varrà]

A leggere il nuovo splendido libro di Amanda Vähämäki (Cani selvaggi), per Canicola Edizioni, nella serie degli albi di grande formato che ha già visto protagonisti Andrea Bruno, Gabriella Giandelli, Anke Feuchtenberger, e Anna Deflorian, viene in mente che Amanda non disegna le immagini, le fa apparire. Ci sono autori che invitano l’occhio al lento formarsi delle figure, il segno che via via delinea e costruisce è clessidra e bussola per lo sguardo. Altri invece che ci mettono di fronte al fatto compiuto: l’immagine è là, davanti a noi, e sta a noi ora cercare di coglierne il senso. Spesso quando accade si tratta di figure molto sintetiche, in cui l’impatto grafico prevale sul contorno.
Non è questo il caso di Amanda, che anzi utilizza matite grasse e pastose, capaci di creare corpi un po’ sgraziati, imperfetti, sudati (cioè corpi veri) o oggetti che hanno tutte le sporcature del tempo, o ancora orizzonti dalla luce indefinita, che sanno di aurora e crepuscolo allo stesso tempo. Eppure il senso di apparizione prevale su tutto, perché quello che i suoi disegni comunicano è prima di tutto il grado zero, il vuoto che c’era un momento prima.



Lo capiamo subito, alla tavola che apre il libro, un'unica immagine con un ragazzino su una barca a remi intento a leggere un vecchio fumetto e la grande campitura di mare e cielo. Questo spazio insondabile è la materia prima da cui nascono le cose, le persone, gli animali, tutti accomunati da questa origine e per questo senza una vera gerarchia tra di loro. C’è un branco di cani divenuti randagi che sembrano fare da padroni, una gatta trovata  morta con la gola lacerata poco dopo aver dato vita a dei micini, un enorme pedalò a forma di cigno che riappare dalle profondità del mare e genererà una nidiata di anatroccoli, una comunità di ragazzini che porta avanti l’unica abitazione ancora degna di tale nome, che è anche bar o locanda, nella quale si raduna un’umanità grottesca e sparuta, di cui è impossibile costruire parentela, genealogia, relazioni, tanto è diversa nei suoi individui.

Tutti sembrano avere però la medesima tensione, che è quella della pura sopravvivenza, di mettere in fila azioni e gesti per dire “ci sono”, prima che il vuoto, e con esso l’oblio, si rimangi tutto.
Una volta sembra essere già successo: in un passato indefinito, ma abbastanza recente, c’è stata una “distruzione” che ha azzerato la civiltà, e con essa la memoria. Pochi i resti del passato, qualche fumetto, la pubblicità di prodotti in offerta letti come una storia avvincente, foto di famiglia in cui pochi si sanno ancora riconoscere e conservano un nome. Perché in questa vita “al grado zero” anche i nomi sembrano essere scomparsi, spazzati via dalla catastrofe, insieme allo stesso fluire del tempo e alla possibilità di poter collegare le cose sulla base di una cronologia e di un significato.


La logica compositiva di Amanda diventa in quest’ottica una visione del mondo: la regola non è la concatenazione, ma la giustapposizione di immagini: ognuna nasce dal nulla, apparizione appunto, anche quando micro-sequenze sono riconoscibili. Separate da solo un segno di matita, senza vero margine tra una vignetta e l’altra, costruiscono mosaici incerti e claudicanti, che inutilmente si cerca di ricomporre in intreccio, visione complessiva, orizzonte di senso. Non a caso non riesco a immaginare il luogo in cui si muovono i personaggi se non come un’isola, pezzetto di terra gravitante sul vuoto, tessera di mosaico anch’essa, alla deriva.


 Non aspettatevi però aperte denunce, distopie compiaciute, lotte per la sopravvivenza, e neppure un registro dolente, da compianto. Il tono della narrazione è neutro e lascia semplicemente che le cose esistano, nel presente della loro epifania, davanti ai nostri occhi, a compiere la breve traiettoria di un’azione: seppellire la gatta morta, allattare con un biberon da bambola i micini orfani, godersi i tuffi dal pedalò appena apparso, preparare una zuppa di “pesce falso” per una sorella (se sorella è) febbricitante. Sono tutte azioni compiute dai più giovani, gli unici che sembrano ancora avere l’energia e la lucidità per farlo.


Non hanno particolare importanza né esito, eppure per il fatto stesso di compierle suonano come un atto  di resistenza. Perché quando gli orizzonti del passato e del futuro si richiudono in sé, anche le minime traiettorie di un gesto diventano dichiarazione di volontà, certificazione di un’esistenza. In attesa che dal nulla possano arrivare apparizioni inattese, piccoli brandelli di prospettiva anche solo nella forma di cucciolate che hanno in sé l’impronta del giorno in cui saranno grandi. O che possano riesistere i nomi, come quelli con cui inaspettatamente la ragazzina chiama i cani che pensavamo anonimi e randagi, ed essi rispondono, avvicinandosi e guardandola.  Solo uno sembra sconosciuto, e riceve il suo nome nell’ultima vignetta. Un battesimo, se non un nuovo inizio.

Ringraziamo la rivista Lo Straniero per averci autorizzato a pubblicare questo articolo, uscito nel numero di febbraio 2014. Il post Cani selvaggi è uscito in contemporanea sul nostro blog e sul magazine quotidiano fumettologica.it

venerdì 13 settembre 2013

Farsi un libro, farne una mostra (1. continua)

Eleonora Antonioni è poliedrica, brillante e infaticabile. Oltre a disegnare quasi tutto il giorno, è al centro di un  vortice, un vero e proprio Maelström, di iniziative, laboratori, autoproduzioni, mostre e mostriciattole, aperitivi con illustrazione, passeggiate con disegno dal vero, catalogazione di ciclisti di passaggio, collezioni di magliette vintage. Guardate un po' che cosa è riuscita a combinare questa volta, coinvolgendo il malcapitato Mannoni, tranquillo legatore e bluesman che ha la sola sventura di avere aperto bottega proprio sull'orlo del vulcano. E nessuno lo aveva avvertito.














La prossima puntata, che narrerà le conseguenze di tanta avventatezza, in onda venerdì prossimo.