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lunedì 26 ottobre 2015

Manuale universale per genitori

[di Susanna Mattiangeli]

Vi è mai capitato di parlare con dei gruppi di genitori? A me sì, tanto, negli ultimi anni mi è capitato di parlare con molti genitori. A voce, per telefono, per email, su whatsapp. Ho raccolto centinaia di dubbi, incertezze e false convinzioni. Quindi ho pensato che c'è bisogno di chiarezza e, siccome ho avuto a che fare con qualche bambino e soprattutto ho un computer, credo di avere tutti i titoli per dire la mia sul tema della genitoliarità. Genitolarità. Genitorialità. Insomma su quella cosa di quando sei un genitore. Allora sono andata in giro per librerie, parchi, negozi e in una mattinata ho tirato fuori un agile pamphlet in cui ognuno può trovare la sua risposta. Eccolo qui:

Manuale universale per genitori

I genitori migliori sono quelli che erano già genitori migliori da prima. Sono quelli che si erano già iscritti ai corsi, avevano già letto i manuali, avevano già comprato tutto. Sono quelli che quando ci sono loro, si parla sempre di essere genitori.


Non è vero, diventare genitori è un fatto naturale, non serve prepararsi, basta lasciar succedere le cose e tutto andrà come deve andare. I genitori migliori fanno finta di niente e non hanno bisogno di libri. Giusto una sbirciatina, magari, se le cose si mettono male.



Macché. I genitori migliori, si sa, sono i Francesi.


Si vede che non avete le basi. I genitori migliori sono gli Arapesh della nuova Guinea.


Oggi però i genitori migliori tengono un diario, scrivono un libro, fanno un film, un disco, una mostra per condividere tutti i loro dubbi, le loro emozioni e le cose simpaticissime che succedono loro ogni giorno.


E però basta con questi figli esposti come opere d’arte, non se ne può più di foto, di pensierini, di racconti quotidiani. Per essere dei genitori come si deve, non bisognerebbe parlare dei propri figli. Mai, neanche con loro. Se chiedono qualcosa, tagliare corto e negare tutto. Ma se proprio si deve parlare, dare almeno nomi falsi.

E l'alimentazione?

I neonati devono mangiare solo nelle ore stabilite dal medico di famiglia. Assolutamente no. I neonati devono mangiare continuamente e strillare molto forte quando vanno dal medico di famiglia. I bambini devono mangiare biologico.


No, è tutta una bufala, i bambini devono mangiare roba presa a caso tra quella che costa meno al supermercato.
I bambini vanno nutriti con i vasetti comprati in farmacia. No, i vasetti fanno male ai bambini.  Nessuno dovrebbe mangiare vasetti in generale.
Ai figli bisogna dare farina di semi di miglio cotta al vapore.
Ai figli bisogna dare la Nutella.


(Comunque io ve lo dico, mi dispiace per voi ma le cose migliori da far mangiare ai bambini sono quelle che fa mia nonna e basta.)


Apprendimento

I giochi dei bambini devono essere approvati dagli esperti.


Non bisogna dare giocattoli ai bambini, ma lasciare che raccolgano nidi, pergamene, barbabietole e fossili trovati per caso mentre scorrazzano liberi nell'aia.


I genitori migliori giocano con i loro bambini, ma a fine giornata li raccolgono e li mettono a posto.


I bambini possono leggere e scrivere a tre anni.
I bambini non devono assolutamente leggere e scrivere prima dei sette anni.
I bambini devono giocare qualche ora al giorno con il tablet altrimenti non saranno competitivi nel mondo del lavoro.
Non si deve far sapere ai bambini che esistono il computer e la televisione. Se a un certo punto chiedono qualcosa, bisogna dire che non se ne sa niente. Se dovessero insistere si risponde : «Mi dispiace, non riesco a sentirti.»
I genitori migliori sono quelli che leggono ad alta voce.
Ancora migliori sono quelli che leggono ad alta voce quando c’è almeno qualcuno vicino.
Le bambine sono più tranquille dei bambini e leggono prima.
Alle bambine tutti dicono di stare tranquille e allora loro leggono prima perché altrimenti si annoiano.
Le bambine leggono prima dei bambini perché sono più veloci a prendere i libri dagli scaffali e quindi i bambini si agitano perché non hanno nient’altro da fare.


Consigli utili

Ai bambini basta dare poco.
Ai bambini bisogna dare molto.
Bisogna che i bambini si annoino.
Bisogna stimolarli.
L’importante è che si divertano.
L’importante è che si impegnino.
L’importante è seguirli sempre.
L’importante è lasciarli fare.

Bisogna saper dire no. Bisogna saper dire scusami. Bisogna saper dire "Vuoi quei kiwi?".


Quello che conta è l’esempio.
Quello che conta è il dialogo.
Bisogna ascoltarli.
Non devono stare al centro dell’attenzione.
Possono stare al centro, basta che si riesca a vedere il film.


Il bambino non va messo in imbarazzo.
Il bambino non va messo su un piedistallo.
Bisogna scendere al livello del bambino.
Bisogna innalzarsi al livello del bambino.
Bisogna che il bambino si muova.
Bisogna che sappia stare fermo, soprattutto quando è su un piedistallo.
Se i bambini stanno fermi, la terra gira intorno a loro.
Se i bambini girano insieme alla terra, alla fine del giro vogliono fare colazione.
Dopo tanti giri e tante colazioni succede che i bambini un giorno si svegliano e sono grandi. E a quel punto quello che è fatto è fatto.

Riassumendo

I genitori migliori sono quelli che non sanno di esserlo.
No, sono quelli che sanno di esserlo, ma lasciano che siano gli altri a giudicare.
I genitori migliori sono quelli che pensano di essere così così ma non sono sicuri.
No, sono quelli che pensano di essere i peggiori ma poi parlando con altri genitori cambiano idea.


I genitori migliori sono quelli che trovano tempo per se stessi.
I genitori migliori sono quelli che trovano parcheggio.
I genitori migliori sono quelli che quando leggono i manuali dicono ‘aspetta, nell’altro manuale dicevano il contrario’ e allora ne cercano un terzo, un quarto, poi passano a un romanzo, si mettono a chiacchierare e alla fine vanno a letto troppo tardi sapendo che sono rimaste pochissime ore di sonno e pensano: «Vabbè, qualcosa la so. Improvviserò.»

venerdì 10 luglio 2015

Il caso dei libri ritirati dalle scuole a Venezia: i fatti.

Da quasi tre settimane seguiamo con molta attenzione l'evolversi della vicenda dei libri per bambini fatti ritirare dal neo-sindaco di Venezia dalle biblioteche scolastiche. Ne abbiamo lette di ogni tipo e colore e ci siamo spesso domandati per quale ragioni le opinioni tendessero a prevalere sui fatti. Fatti che sono, in sé, estremamente chiari. Per questa ragione ci siamo sentiti in obbligo di ripercorrere la vicenda, a beneficio di chi si vuole informare (oltre che nostro, perché un sano ripasso fa sempre bene e lo sforzo di sintetizzare una faccenda complessa fa anche meglio). Il post è un po' lungo. Per non distrarvi, non abbiamo inserito immagini.

Questa brutta storia comincia tanto, tanto tempo fa. E comincia da “Leggere senza Stereotipi”: un progetto presentato nel giugno 2013 alla Casa delle Donne di Roma da Scosse. Leggiamo la presentazione che ne fa il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza

Testi e immagini dei libri per l'infanzia offrono spesso una rappresentazione stereotipata dei generi, che non tiene conto dei profondi cambiamenti che hanno attraversato la nostra società negli ultimi decenni. Il progetto Leggere senza stereotipi parte da questa consapevolezza, nel tentativo di superare una tendenza molto diffusa nel nostro Paese, presente anche nella maggior parte dei libri di testo delle scuole primarie e proporre, invece, una cultura libera da stereotipi che valorizzi le differenze tra i generi.

Da questo progetto scaturisce una bibliografia online e un corso di formazione per educatori e insegnanti. Il comune di Venezia, nella persona della Delegata ai diritti civili e alla lotta alle discriminazioni, Camilla Seibezzi, trova i soldi per far partecipare 78 educatrici delle materne e dei nidi di Venezia a questo corso di formazione. La formazione è tenuta da Paola Bastianoni, professore associato in Psicologia dinamica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Ferrara, dove insegna Psicologia dinamica e clinica per il Corso di Laurea in Scienze dell'Educazione. Durante il corso, viene presentata la bibliografia e Seibezzi pensa sia giusto dotare le educatrici e le scuole in cui lavorano dei libri che sono stati utilizzati per la formazione.

Le polemiche sono iniziate quando alcuni rappresentanti di forze politiche di estrema destra o ispirate a un cattolicesimo integralista hanno scoperto la cosa. Si sa che i ruoli di genere, sia per la destra più radicale sia per i cattolici duri e puri, sono materia delicata. Ma dal momento che non è possibile costruire una polemica intorno a libri in cui le bambine sollevano orsi, le pecorelle vanno a dormire insieme ai lupacchiotti e due macchie di colore si mescolano creando un colore nuovo, cercando nella lista sono saltati fuori tre libri (tre su quarantanove) che parlano di omogenitorialità. I riferimenti sono a Piccolo Uovo di Francesca Pardi con illustrazioni di Altan, Jean a deux mamans di Ophelie Texier e E con tango siamo in tre di Peter Parnell e Justin Richardson.

Nel primo, un uovo non vuole nascere perché non sa in che famiglia andrà a finire e decide di capire quanti tipi di famiglie ci sono. Nel terzo, due pinguini maschi trovano un uovo e, invece di lasciarlo lì a marcire, decidono di covarlo e vedere che cosa salta fuori. Il secondo non lo conosco. Ma non è qui il punto. Non siamo nell’ambito dell’invenzione, del fantastico, del futuribile: siamo nella cronaca, in libri che documentano in maniera che a me pare lieve e garbatissima una realtà quotidiana fatta, per bambini e adulti, di famiglie molto diverse (e per le ragioni più diverse) le une dalle altre.

Basta così poco, nell’Italia di questo inizio di un millennio che tutti dicono nuovo, ma puzza orribilmente di vecchio, per scatenare artate polemiche. Il 7 febbraio 2014, il Giornale attacca, con un breve articolo di Luisa De Montis, che titola: Il Comune di Venezia distribuisce fiabe gay nelle scuole. (È qui che compare per la prima volta l'impropria definizione di "fiabe gay" per una lista di albi illustrati che possono essere utilizzati per diffondere la consapevolezza e l'accettazione della diversità).

Nello stesso giorno, La Nuova Venezia riferisce della richiesta di un parlamentare Udc di sospendere l’iniziativa, rivolta al sindaco Orsoni. Naturalmente, senza «discriminazione nei confronti del gay». L’immarcescibile e onnipresente Carlo Giovanardi tuona, dalle pagine dello stesso giornale: «Le istituzioni competenti si attivino immediatamente per impedire la distribuzione negli asili nido e nelle scuole dell'infanzia veneziana del materiale di propaganda gay e sulla fecondazione eterologa che la delegata del sindaco per le politiche contro le discriminazioni, Camilla Seibezzi si accinge a consegnare. […] Mi sembra evidente che i piccoli non possono essere cavie di cervellotici esperimenti che segnalano soltanto la confusione mentale di chi li vuole imporre a creature innocenti.»

Inopinatamente, Silvia Vegetti Finzi interviene lo stesso giorno sul Corriere della sera affermando che questi albi rappresentano veramente un «rovesciamento di centralità» delle forme familiari tradizionali.

Il 13 febbraio interviene perfino il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, che dichiara al giornalista del Corriere della sera: «È necessario combattere gli stereotipi, ma io quei libretti non li distribuirei». Ma questa diplomatica dichiarazione finisce sotto il titolo Il Patriarca: «Dico no alle fiabe gay». Nello stesso articolo, il capogruppo Udc Simone Venturini dichiara di non aver letto i libri oggetto della polemica, «e non è nemmeno opportuno che la politica li legga per fare censura.»

Le polemiche – che sembrano essere amplificate, invece che molcite dalla stampa – si inaspriscono e assumono toni da crociata. Ne parla anche sul nostro blog Marnie Campagnaro, della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova, con un post dal titolo Le 49 cosiddette fiabe gay, che da allora ha avuto quasi 10.000 lettori (che contiene, fra l'altro, anche tutti i link agli articoli di stampa citati sopra).

Poi passano i giorni, si apre il vaso di Pandora dello scandalo Mose e a Venezia ci si occupa principalmente di altro. Il comune viene commissariato e si indicono nuove elezioni. Nel frattempo, però, la questione ha lasciato tracce. Un libraio veneziano ci ha riferito che da allora il clima è teso e alcuni clienti che evitano di aprire qualcuno dei 49 libri oggetto della polemica ed escono dalla libreria se vengono loro proposti. Ma, alla fine, i libri vengono consegnati alle scuole. Non sappiamo se siano stati usati o meno e quali siano stati eventualmente usati, ma questo fa parte della discrezionalità degli educatori, che – oltretutto – sono stati formati proprio per usare questi libri con bambini piccoli e, probabilmente, sanno decidere e valutare il se, il come e il quando.

Arriva la campagna elettorale e uno dei candidati si fa alfiere della nuova crociata contro questi libri. Il motivo è oscuro, anche se probabilmente si tratta di opportunità politica e di speculazione elettorale: si cercano i voti di famiglie orgogliosamente tradizionali, di gruppi che si oppongono all’evoluzione sociale e lo si fa con i mezzi più facili e di grande richiamo: gridare ai quattro venti che si vogliono proteggere “gli innocenti” dalla corruzione.

Il candidato arriva al ballottaggio, lo vince e, prima ancora di insediare la giunta e tenere il primo consiglio comunale, il 25 giugno 2015 emette una circolare: via i libri gender dalle scuole di Venezia. Sembra che lo possa fare: i libri sono cespiti patrimoniali inventariati e di proprietà del Comune e, come tali, il Comune può disporre il loro ritiro. Come se fossero un banco, una sedia, un computer, un erogatore per la carta igienica. Ma se questo è amministrativamente possibile, viene da domandarsi se sia compatibile con i principi costituzionali e, in particolare, con l’articolo 21 (noi lo abbiamo rispettosamente e formalmente domandato al Presidente della Repubblica, che della Costituzione è il più alto garante, ma a oggi non abbiamo avuto alcuna risposta). La circolare di Luigi Brugnaro recita: Si chiede di voler raccogliere i libri “gender”, genitore 1 e genitore 2, consegnati durante l’anno scolastico e prepararli al fine del ritiro che avverrà al più presto da parte di un incaricato. Con i migliori saluti. 

Un commento chiarificatore di Chiara Lalli sulle pagine di Internazionale: [la vicenda] si potrebbe liquidare chiedendosi solo cosa diavolo sono i libri “gender” e ricordando che la storia del “genitore 1” e “genitore 2” è una delle più ostinate e colossali scemenze degli ultimi mesi. Questa dicitura non ha mai avuto a che fare con i libri, ma con i moduli di iscrizione scolastica: la proposta originaria era, banalmente, di usare la parola “genitore” invece di madre e padre come termine più ampio e comprensivo e per includere, per esempio, i figli di genitori single. Ma alla conferenza stampa di presentazione un giornalista ha “tradotto” il contenuto della proposta in genitore 1 e genitore 2 e non è stato più possibile rimediare (genitore non è un insulto, e non lo sarebbe nemmeno “genitore 1” o “genitore 2”, ma la dicitura mai esistita è diventata, nelle menti dei timorati del “gender”, un modo per offendere e insultare le famiglie e i sacri ruoli genitoriali).

A questo punto si innesca la mobilitazione. Nei giorni immediatamente successivi Ibby Italia (con Nati per Leggete e Commissione Ragazzi AIB), ICWA Italia, AIB e AIE (quest'ultima solo il 7 luglio, con un ritardo difficilmente comprensibile) prendono ufficialmente posizione contro questo provvedimento. Tacciono il Ministero per i beni culturali e il Centro per il libro e la lettura. [***Emendiamo: ci era sfuggita una dichiarazione informale di Romano Montroni, presidente del Cepell, rilasciata al telefono a un giornalista della rivista online "Il Libraio" e riportata il 9 luglio 2015 qui.]

Intanto, sul territorio, due associazioni veneziane (Noi La Città – Venezia 2015 e Veneto Radicale) organizzano il 3 luglio alle 11 un incontro pubblico, invitando il sindaco a partecipare a quello che veniva proposto come un dibattito democratico con la partecipazione di un libraio, della docente universitaria che si era occupata della formazione degli educatori veneziani sul tema “Leggere senza stereotipi” e della ex delegata Seibezzi, che aveva promosso l’iniziativa. Il sindaco non si presenta.

Ma il sindaco di Venezia è, invece, molto attivo su Twitter, come è ormai costume dei politici nostrani, e con la stampa. Con un po’ di pazienza, troverete tutti i dettagli nella rassegna stampa del sito Luigi Brugnaro sindaco e sulla sua pagina Twitter.
Vi invito, in particolare alla lettura del comunicato stampa dell’8 luglio 2015 nel quale si proclama:

Denunciamo la polemica inerente quelli che sono stati definiti i libri sulla teoria gender. Ne è nata una speculazione culturale che non ci intimorisce. Non potendo avere una visione completa ed esaustiva della questione, si è preferito ritirare tutti i libri distribuiti dalla precedente Amministrazione in modo da poter verificare serenamente e con piena cognizione di causa quali siano, e soprattutto quali non siano, adatti a bambini in età prescolare. Il vizio di fondo è stata l’arroganza culturale con cui una visione personalistica della società è stata introdotta nei nidi e nelle scuole per l’infanzia unilateralmente, in forma scritta e senza chiedere niente a nessuno, in particolar modo alle famiglie. I genitori dei piccoli devono, invece, avere voce in capitolo su aspetti determinanti che riguardano l’educazione dei loro figli e non esserne aprioristicamente esclusi. E’ quindi nostra intenzione esaminare con cura e obiettività i testi, non distribuendo quelli inopportuni per i più piccoli, che pure restano liberamente consultabili da parte degli adulti nelle biblioteche. Molti libri, che trattano i temi legati alla discriminazione fisica, religiosa e razziale, sono notoriamente straordinari e verranno certamente ridistribuiti, come ad esempio le opere di Leo Lionni “Piccolo blu e piccolo giallo” e “Guizzino”. Le riserve riguardano, invece, alcuni testi come “Piccolo uovo” di Francesca Pardi o “Jean a deux mamans” di Ophelie Texier. Sarà un lavoro di analisi fatto con cura e attenzione, anche approfittando del periodo estivo e delle vacanze scolastiche, valutando quali siano le persone più adatte a questa selezione ed evitando, così, ulteriori diatribe e strumentalizzazioni di un argomento che, ad oggi, ha fatto anche troppo parlare di sé.”

E finalmente, nello stesso giorno, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il MIUR, per tramite del sottosegretario Davide Faraone ha rilasciato una dichiarazione, riportata qui, secondo cui: Nessun sindaco può intervenire in tal senso, né meno che mai può decidere quali libri possono stare o meno all’interno di un istituto: è un ambito di competenza comune della comunità scolastica, fatta di famiglie e operatori della scuola.

Il resto è cronaca di questi giorni giorni. A voi lasciamo le interpretazioni, la ricerca di un senso, il pensare e progettare azioni. Quello che interessava, qui, era mettere in fila un po’ di fatti.


venerdì 27 febbraio 2015

Racconta la storia di un coniglio

L'editoria italiana scopre la letteratura per ragazzi. Ovvero molti editori italiani non per ragazzi si cimentano in essa, inaugurando collane, proponendo pubblicazioni eccetera. Perché? Una delle spiegazioni, come hanno scritto alcuni fra coloro che hanno osservato il fenomeno, è che l'unico settore dell'editoria che oggi funziona, si fa per dire, meglio degli altri, è quello dei libri per ragazzi, in particolare gli illustrati. La motivazione lascia un po' perplessi. Pensate alla credibilità che sarebbe attribuita a Topipittori il giorno in cui si mettesse a editare saggistica universitaria per la sola ragione che questa è il solo settore trainante dell'editoria.
Di solito, alla base di una buona produzione libraria ci sono competenze, vocazioni, esperienze. Altrimenti il sospetto che ci si improvvisi, è legittimo.


Eppure, curiosamente, l'ingresso di case editrici non per ragazzi nella letteratura per ragazzi viene salutato dalla stampa con entusiasmo degno di migliore causa. La stampa e i media in generale, che sempre si sono disinteressati di libri per ragazzi, ecco che parlano di libri per ragazzi: a spingerli è la fiducia nei confronti di editori di cui fino all'altro ieri hanno recensito i libri non per ragazzi, cioè di editori che conoscono bene e con cui hanno relazioni. Magari questi editori non sanno nulla di letteratura per ragazzi, ma i recensori si fidano di loro: spesso sono editori di qualità quindi qualsiasi cosa facciano, anche se mai prima si sono occupati di libri per ragazzi, sicuramente è buona. E magari sì, lo è. Ma magari no. In ogni caso, il fatto di conoscersi e frequentarsi da tempo non dovrebbe essere sufficiente a stabilire un buon operato: stiamo parlando di libri, stiamo parlando di bambini, di ragazzi. Tutti argomenti seri.


Ci si chiede perché accada questo. La ragione è antica. E risiede in quel pregiudizio a proposito dei libri per i bambini e i ragazzi, che è come l'Idra di Lerna: per quanto tu gli tagli una testa gliene ricrescerà sempre un'altra, anzi peggio, altre sei o sette. E cioè: gli adulti si fidano degli editori seri e degli autori seri. E gli autori e gli editori seri sono quelli che fanno le cose serie, che poi sono i libri per loro, gli adulti. Chi sono, invece, gli editori per ragazzi? O gli autori per ragazzi? Chi li ha mai sentiti? Da dove escono? Come nascono? Non è puerile fare libri per ragazzi? Scriverli? Illustrarli? È chiaro che questa è un'attività di ripiego, pensano gli adulti che nulla sanno di libri e di letteratura per ragazzi: chi non riesce a fare libri “per grandi”, sceglie i libri per ragazzi: cioè la serie B. Un po' come succede nella storia della volpe e l'uva.
Spesso mi viene chiesto: Ma perché non scrivi?
Veramente io scrivo, rispondo.
No, ma io dico proprio scrivere scrivere, replicano.


Con questo intendono “scrivere per grandi”. Costoro non sanno nulla di letteratura per ragazzi, ignorano l'evidenza che fra i più grandi capolavori della storia della letteratura ci sono libri per ragazzi, informazione che potrebbe venare di una sfumatura di dubbio la loro sicumera. Ma no, non gli interessa. Pervicacemente, alimentano la loro idea di letterature di serie A e B: anche se sono lettori forti, anche se sono intellettuali.


Ho anche incontrati scrittori sarcastici e beffardi alla solo idea di avere a che fare con qualcuno che si occupa di libri per ragazzi. Persone che poi, magari, qualche anno dopo averle incontrate, dopo la nascita di un bebè o alla comparsa della prima ruga, hanno scritto un libro per ragazzi (chiunque ne può scrivere, questo è noto: persino Elisabetta Gregoraci e Madonna), e inalberato l'aria di quelli che con la loro opera stanno segnando la svolta ante quem e post quem nella letteratura per ragazzi.


D'altra parte, se questo capita, se questo pregiudizio esiste, una fetta di responsabilità è anche del comparto dell'editoria per ragazzi. O meglio, di quell'editoria per ragazzi che ha pubblicato libri approssimativi e malfatti, dozzinali, mal progettati e pensati, in stretta economia di risorse materiali e intellettuali: prodotti che fanno pensare che per realizzare libri per ragazzi non siano necessarie competenze, esperienze, vocazioni, e questi siano alla portata davvero di chiunque.
Perché - oggi tendiamo a non ricordarlo -, ma anche prodotti popolarissimi potrebbero essere di ottimo livello.


La qualità non è, come tendiamo a pensare,  prerogativa di una élite.  Se questa, oggi, è la nostra convinzione, forse è perché chi avrebbe dovuto occuparsi della qualità di prodotti popolari, ha smesso di pensarci, buttandosi su produzioni a bassissimo costo (il che significa anche, nel corso del tempo, abbassando tutto il livello della filiera professionale del libro: gli incompetenti costano, in genere, meno dei competenti. Questo potrebbe anche spiegare l'impressione che oggi, nelle case editrici, non siano molti quelli che sanno riconoscere un buon prodotto da un altro. Per cui nel momento in cui nasce l'esigenza di alzare il livello di qualità pochi si rivelano in possesso degli strumenti e della competenze per realizzarla. La confusione fra incompetenza e cinismo impedisce di capire qual è il problema di tanta produzione attuale). Basti dire che in Italia ci siamo talmente disabituati a riscontrare la qualità di testi, immagini e design nei libri per bambini e ragazzi che da oltre un decennio i libri “di qualità” sono stati sospettati di essere libri per adulti camuffati da libri per ragazzi. Paradossale.


Ma se questo è stato possibile nel mondo dell'editoria per ragazzi, se si è potuto agire indisturbati in questa direzione, ciò è avvenuto anche in virtù di un ambiente intellettuale, di addetti alla cultura che non hanno sorvegliato, monitorato, mostrato interesse e attenzione, cioè svolto la funzione critica che gli sarebbe dovuta competere, su un intero comparto editoriale. Semplicemente si è partiti dal presupposto che in un comparto di serie B sia un'ovvietà, che la qualità sia, costituzionalmente, sempre bassa. La prova del nove di questa situazione è che i media, le terze pagine dei quotidiani e non solo, si occupano di bambini e ragazzi e di prodotti culturali per bambini e ragazzi, esclusivamente quando questi diventano “casi”, assurgendo a fenomeni globali, come è stato, per esempio, nel caso di Harry Potter, Peppa Pig, Geronimo Stilton, Twilight, Tre metri sopra il cielo e via discorrendo. Fenomeni che i media affrontano sistematicamente eludendo un discorso critico, puntuale e competente, e al suo posto sostituendo la descrizione del fenomeno di costume.


Non sono fatti nuovi, Ursula Nordstrom, editore americano della Harper Children's Books, negli anni Cinquanta si scontrò con lo stesso pregiudizio, quando le fu offerta la direzione della divisione narrativa per adulti della casa editrice: The implication, of course, was that since I had learned to publish books for children with considerable success perhaps I was now ready to move along (or up) to the adult field. I almost pushed the luncheon table into the lap of the pompous gentleman opposite me and then explained kindly that publishing children’s books was what I did, that I couldn’t possibly be interested in books for dead dull finished adults, and thank you very much but I had to get back to my desk to publish some more good books for bad children. (L. S. Marcus, Dear Genius, HarperCollins).
È famosissima una sua battuta amara, sull'idea che gli intellettuali a capo dei comparti reputati “seri” delle case editrici, cioè quelli dedicati alla produzione libraria per adulti, avevano dei libri per i piccoli: «Racconta la storia di un coniglio e falla illustrare a tuo cugino.»


Per rimediare a questo pregiudizio dannoso e pervasivo, è stato fondamentale in questo ultimo decennio, in Italia, il lavoro, svolto da tutti gli editori per ragazzi che hanno lavorato a costruire negli adulti una idea diversa di letteratura e di libri per ragazzi, a formare un pubblico nuovo, informato e aperto. Un lavoro capillare di documentazione, informazione e critica presso librai, bibliotecari, genitori, insegnanti, educatori; un lavoro grande condotto primariamente sui libri, sui prodotti editoriali, riportati a livello di una editoria europea consapevole e competente, proponendo nuove iconografie, autori, grafici, illustratori, temi, storie, immagini, generi, scritture, punti di vista.


Bene, oggi gli editori “seri”, quelli per adulti, con il loro arrivo nel settore rivelano al mondo della cultura italiana che, incredibile, esistono buoni libri per ragazzi, e spiegano a tutti che sì, è possibile fare buoni libri per ragazzi. La ricetta è semplice: basta avere un marchio autorevole, affidabile, conosciuto e mettere al lavoro autori seri, autorevoli e conosciuti: meglio se autori per adulti. Siamo grati di questa lezione, noi che ci occupiamo da tempo di libri per bambini e ragazzi, con serietà, competenza, esperienza e vocazione. Noi editori per ragazzi, che ce ne occupiamo con successo, in tutto il mondo, ma nell'inscalfibile, granitico disinteresse del nostro Paese e dei nostri intellettuali. Noi che ce ne occupiamo non perché questo sia l'unico settore trainante dell'editoria, ma perché questi sono libri fondamentali e meritano tutto l'interesse e l'attenzione possibili. Perché forse va ricordato: da sempre e non da oggi, tempi di crisi, i lettori piccoli sono quelli che domani diventeranno grandi.


[Abbiamo pensato fosse giusto corredare questa riflessione con le immagini delle copertine di alcuni fra i più significativi saggi dedicati alla letteratura per ragazzi, illustrata e non. Ci sembra infatti doveroso sottolineare come sia possibile (e senza troppa difficoltà) per un editore, un autore, un critico, un giornalista, un insegnante, un genitore costruirsi una competenza in tema di libri per bambini, imparare a distinguere il grano dal loglio, manifestare un rispetto profondo per chi più di ogni altro, da secoli, contribuisce alla produzione di lettori: autori, illustratori ed editori di libri per ragazzi.]



[Alcuni parziali approfondimenti sulla letteratura critica e storiografica dedicata al libro per l'infanzia, e all'illustrazione in particolare, sono stati pubblicati in questo blog, sotto la rubrica "Leggere l'illustrazione".]

giovedì 9 ottobre 2014

Fin da quando ero piccola

Cara Alessia,
ho letto le tue riflessioni sul blog di Radice-Labirinto, nel post Libro elegante, libro distante?.
Sono d'accordo con te: i librai hanno vita movimentata, come tutti coloro che si occupano di libri. E sono anche d'accordo che l’idea di bambino che ognuno possiede è la bussola con cui si traccia la linea di confine fra libri per bambini e non.
Il tuo post tocca moltissime questioni, su tutte varrebbe la pena di riflettere, ma, essendo stata chiamata in causa, a proposito del libro L'uomo dei palloncini, penso sia necessario fare, su questo, alcune precisazioni. La tua analisi di L'uomo dei palloncini arriva dopo una serie di considerazioni che, a partire da quella centrale di 'nostalgia dell'infanzia' da parte dell'adulto, proseguono con distinzioni fra poesia e prosa, e con l'identificazione del 'lirismo come insidia' che porta alla 'perdita di vista della trama e della realtà'. Al di là delle idee personali su concetti generali, su cui si può essere più o meno d'accordo, in base alle proprie convinzioni, formazione e cultura, voglio specificare alcuni punti fondamentali che riguardano il mio lavoro, che conosco bene e di cui posso parlare con sicurezza, grazie a un'esperienza ventennale di autrice e di lavoro editoriale, escludendo quello che non mi appartiene e in cui in alcun modo mi riconosco.
Il sentimento di nostalgia nei confronti dell'infanzia mi è estraneo (anche quello verso l'adolescenza). Provo grande interesse verso queste età, che mi sembrano fondamentali nella vita degli individui. Bambini e ragazzi hanno, per me, pensieri, comportamenti e idee degni di estrema attenzione per la forza, la ricchezza, l'intensità, l'intelligenza, lo spessore dei significati e dei valori che mettono in luce. Significati in grado di mostrare aspetti rilevanti dell'esperienza umana, anche adulta.
Non è una mia scoperta, ovviamente: tutti coloro che hanno studiato, educato e sono stati in compagnia dei bambini lo sanno e ne hanno fatto esperienza. 

Per quanto riguarda la mia autobiografia, non ho nostalgia della mia infanzia, il che non significa naturalmente che non abbia bei ricordi a essa legati e che non mi capiti di provare nostalgia, come tutti, verso momenti passati legati soprattutto a persone che non ci sono più. 
Da piccola mi è sempre interessato giocare, ma anche crescere, mi sono sempre interessati gli adulti, oltre che i miei coetanei. Forse anche perché ho la fortuna di avere una memoria del passato molto viva, questo da sempre. Capita che cose accadute quarant'anni fa mi sembrino vicine come il ricordo di una cosa accaduta ieri, il che rende il passato non insanabilmente lontano, ma prossimo e presente. Questo mi aiuta nello scrivere per bambini, non per volgermi al passato con rimpianto, idealizzandolo, ma perché mi dà la possibilità di recuperare esperienze infantili.
Pur avendo avuto un'infanzia e una adolescenza agiate e tutto sommato serene, in una famiglia sufficientemente equilibrata e di buon senso, mi ricordo con estrema chiarezza che queste età hanno comportato notevoli dosi di fatica, impegno, dolore, paura, coraggio, rabbia, disagio, e richiesto, per questo, molta energia. Non è facile essere bambini e ragazzi per la semplice e buona ragione che in quei periodi della vita non sai nulla e devi capire tutto, in un contesto adulto che afferma di sapere tutto e di non dovere capire nulla. Questo, anche se sei un bambino che vive in società e famiglie accoglienti, benestanti e democratiche, non cambia di una virgola.
Tale concetto è particolarmente arduo da accettare da parte del mondo adulto che chiede alle generazioni giovani di restituirgli, in cambio di cure, educazione e accudimento, una buona immagine di sé, e tende a chiudere gli occhi su tutte le manifestazioni dell'infanzia e dell'adolescenza che destabilizzano la perfezione del quadro d'insieme, e che possono generare sentimenti ed emozioni non proprio accettabili, come dubbi, rabbia, fastidio, irritazione, indifferenza, stanchezza, senso di inadeguatezza o di colpa. Insomma il confronto generazionale non è facile per nessuno, da sempre.

La maturità ritengo sia una conquista: finalmente si è liberi di scegliere e di essere. L'infanzia e l'adolescenza sono, costituzionalmente, età di grandi scoperte, cambiamenti, trasformazioni e inquietudini, ma non sono le età della libertà e delle scelte. Per questo i bambini vogliono, giustamente, crescere, e per questo gli si fa un torto se si impedisce loro di farlo.
L'uomo dei palloncini nasce non dalla nostalgia per la mia infanzia o un momento particolare di essa, ma dall'avere osservato, una sera di qualche anno fa, dalla finestra di una casa in una cittadina appenninica, un giovane uomo che faceva quel mestiere. Non mi ero mai soffermata su questo tipo di personaggio e quello che vidi quella sera mi accorsi che non era un semplice venditore, ma una figura interessante che sapeva entrare in relazione coi bambini e parlare loro, capirli. Questo mi interessò molto: non me l'aspettavo, e rimasi a osservare quell'interazione per qualche ora, come fossi al cinema.
In seguito, pensando alle ragioni per cui quella figura mi potesse avere tanto attratto, e dopo aver scritto L'uomo dei palloncini, testo la cui stesura avvenne nel lasso di tempo di due anni circa, ne misi a fuoco con chiarezza tre. Tutte sono legate a mie esperienze infantili. Siccome per i bambini le questioni fondamentali si esprimono sotto forma di domanda, in questo modo formulerò le tre ragioni.

1)    Come ha fatto il mondo a esserci se io non esistevo? Come era prima? Ovvero c'è sempre un momento in cui i bambini scoprono questa realtà: e cioè che il mondo, e i loro genitori, non sono nati con loro. È una scoperta incredibile, proprio filosofica, anche perché in quel momento i bambini si rendono conto che il mondo potrà continuare a esistere anche quando loro non ci saranno più. Insieme a questo scoprono i concetti, impersonali, di tempo e di spazio.

2)    Come fa una persona che non mi conosce a conoscermi così bene? Come fa a sapere chi sono, di cosa ho bisogno? Ovvero, ci sono adulti che pur non sapendo nulla di noi ci conoscono benissimo e sono in grado di offrirci cose che nemmeno i nostri affetti più cari sanno darci. Questa è un'altra scoperta incredibile perché apre all'infinito l'orizzonte, limitato, della famiglia e della casa. Con questa scoperta si inizia a essere nel mondo.

2)    Come mai la notte il mondo non scompare, le cose non si annullano nel buio? Avevo osservato, le volte in cui avevo accesso al mondo dopo le 9 di sera, che esistevano persone che la notte rimanevano sveglie, per lavoro, per esempio, ma anche perché insonni. Pensai così che il merito della salvezza del mondo fosse loro che non dormivano mai, e vegliavano sul sonno degli altri, permettendolo. Fu un grande sollievo. Immaginavo figure adulte di appoggio e responsabilità, figure di bene e saggezza che magari non conoscevo, ma su cui sapevo di poter contare. I miei mi proteggevano, ma c'era qualcuno che a sua volta proteggeva loro.

Questa storia, perciò, non ha nulla a che vedere con la nostalgia, ma con esperienze infantili molto forti. L'ho scritta pensando a quanto mistero quella semplice figura portasse con sé. Quanto un incontro del genere, così apparentemente prosaico, l'acquisto di un oggetto, possa determinare un'esperienza significativa per un bambino, per il quale, per esempio, le cose rivestono sempre significati immateriali e simbolici importanti. Vi siete mai chiesti, seriamente, perché i bambini, tutti i bambini del mondo, siano irresistibilmente attratti da venti grammi di plastica attaccata a un filo? O perché un bambino possa metterci molto tempo a scegliere un oggetto assolutamente insignificante? Addirittura a volte un prodotto seriale, uguale a cento altri identici, ma nel quale sembra vedere fondamentali differenze?

Sono consapevole di essere stata una bambina pensosa e portata per la contemplazione e la riflessione sul mondo intorno a me. Ma questa è una caratteristica che tutti i bambini hanno, non mia esclusiva. Che i bambini abbiano questa inclinazione naturale lo ha affermato e ripetuto per tutta la vita, fra gli altri, Maria Montessori. È quel tipo di caratteristica per cui di solito, appena una bambino esprime un pensiero di solito definito 'profondo', gli adulti cadono dal mondo delle nuvole, trovando assolutamente incredibile che a quell'età si pensi in quel modo, come se a parlare fosse stato, fra lo sgomento generale, una scimmia o un canarino. Non solo i bambini pensano, ma come dichiara il titolo di un imperdibile libro del maestro umbro Franco Lorenzoni, edito da Sellerio, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica.

Da piccola, alle elementari leggevo fumetti: da Topolino a Diabolik (che trovavo un po' pretenzioso), da Valentina Mela Verde ai Peanuts. Essendo una bambina osservatrice mi era chiaro che con numerosi miei coetanei potevo condividere le mie impressioni sui primi due fumetti, molto popolari (oggi direi il 90% dei bambini); per trovare amiche con cui condividere il mio amore per Valentina, la percentuale scendeva diciamo al 30%. Dei Peanuts, - ragazzini americani dal segno elegante, filosofici, caustici, pensosi, esilaranti, le cui storie non cominciavano e non finivano perché erano storie fatte di situazioni e non di trama - potevo parlare con pochissimi, praticamente nessuno. Io conoscevo i Peanuts perché mia madre era abbonata a Linus, rivista di nicchia che i più non conoscevano. I miei non mi forzavano a leggerlo per farmi diventare una scimmia intelligente da esibire nei salotti radical. Semplicemente i miei erano curiosi, leggevano molto e di tutto, e la rivista girava per casa e io la guardavo e leggevo i fumetti che mi piacevano; gli altri, quelli che non mi parlavano, li lasciavo perdere, pensando che prima o poi magari avrei avuto accesso ai loro misteri.
Non mi sentivo strana per avere, fra gli altri, anche gusti diversi: non mi importava non trovare qualcuno con cui parlare dei Peanuts. Se rimanevano una passione solitaria, coi miei amici potevo parlare di un milione di altre cose.

Senza paragonarmi a Schultz, trovo importante che i bambini possano avere esperienze del genere. Che vi siano libri che parlino loro con una voce che può anche spiazzarli e parlare una lingua che ha regole diverse. Se scrivo Il grande libro dei pisolini o Al supermercato degli animali sono, ovviamente, consapevole che avrò un pubblico più numeroso: temi, parole e rime so benissimo che rendono il libro più accessibile e godibile per tutti, facendo riferimento a un mio gusto e a mie esperienze di bambina molto amate, allegre e condivise. Ma come scrittrice penso sia interessante rivolgermi anche a quei lettori che hanno esperienze meno condivisibili e meno facili da capire, spiegare, affrontare, accogliere, esattamente come le avevo io. Per questo non mi precludo libri come L'uomo dei palloncini, come La più buona colazione del mondo, C'era una volta una storia o Casa di fiaba per dire qualche titolo davanti al quale ho visto inarcarsi più d'un sopracciglio.

Infine, due considerazioni: se qualcuno mi dice che a suo figlio è piaciuto un mio libro sono ovviamente molto contenta, ma con ciò non deduco in nessun modo che il libro piaccia 'a tutti i bambini'. E rimarrei piuttosto perplessa davanti a una riflessione che parta dal presupposto di 'osservare il libro con gli occhi di un adulto'. Quale adulto? Forse me stessa? Difficile stabilire che in base alla reazione di un non ben definito adulto una storia sia mancata o riuscita, stabilendo il perché. Sappiamo bene che i pareri di noi tutti sui libri sono contrastanti. Ma sappiamo altrettanto bene che esiste un modo più impersonale di valutare un libro, e che ci sono libri orrendi e libri buoni, al di là del fatto che ci siano piaciuti o meno, dato che la nostra opinione è relativa e soggettiva. Per giudicare una cosa bisogna conoscerla. E quello della conoscenza è un processo di avvicinamento che richiede tempo, distacco e impegno.
Sforzarsi di vedere con gli occhi di un bambino è meritevole, ma sempre tenendo presente che noi non lo siamo bambini, e quel bambino lo immaginiamo soltanto. Sotto numerosi giudizi dati a libri per bambini cova sempre l'idea che i libri, per essere definibili adatti ai bambini, debbano piacere alla misteriosa categoria dei bambini, test inequivocabile, che ne sancisce la leggibilità tout court. Come se non ci fossero gusti, inclinazioni, interessi che fanno di ogni bambino un lettore diverso, come avviene per noi adulti che a ogni passo invochiamo, fino destituirla di ogni senso, la famigerata bibliodiversità. Come se non esistesse una possibilità di discorso critico, al di là dell'età, come se provare a uscire dal cerchio mi piace/non mi piace dei bambini, fosse un sopruso inammissibile e antidemocratico. Come se non ci fosse un'idea di educazione. Quanti problemi da sbrogliare, quanta confusione su questi temi.

Ricordo un padre, a Più libri più liberi, fiera romana dal pubblico selezionato, che dopo essersi rigirato per le mani un libro per dieci minuti, decise di non comprarlo con questa spiegazione: «Troppo problematico, preferisco non mettergli in testa idee che non ha.» O una madre, pediatra, in cerca di un libro per il compleanno della sua bambina, che dopo aver ispezionato ogni millimetro di Filastrocca ventosa non lo acquistò: «Non voglio gettare un'ombra sul momento felice dello spegnere le candeline.» Quanto questi due genitori stavano pensando al loro figlio come lettore e hanno effettivamente valutato il libro al di là della riflessione 'fa bene o fa male'? Quanto quelle ombre e quelle idee sbagliate riguardavano loro e non i loro bambini? Se empiricamente stabiliamo che a molti bambini piace di più il coniglio dei cereali Nesquik rispetto alle illustrazioni di Mattotti per Hansel e Gretel, cosa significherà? Che i bambini sono più esposti a immagini pubblicitarie o che Mattotti non è un illustratore adatto all'infanzia? Che la Nesquik ha sfruttato la popolarità planetaria di un celebre coniglio dei cartoni animati o che la fiaba dei Grimm è inadatta a essere illustrata per i bambini di oggi perché propone loro un immaginario negativo e spaventevole? Che il coniglio è rassicurante e propone un'idea di infanzia positiva, allegra e condivisibile o che Mattotti è inquietante e distante perché ha elaborato un linguaggio visivo che non ha tenuto in considerazione la visione delle cose dei bambini, ma solo la propria? Qual è la visione delle cose dei bambini? Quella che stabiliamo noi? Quella che stabilisce la Nesquik? O quella che stabiliamo noi insieme alla Nesquik? Quella di Mattotti? Quella dei Grimm?

Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l'educazione all'immagine, al segno, alla parola? Non è anche questo modo di vedere le cose che alla fine consegna l'idea di lettura in età infantile a pratica di puro intrattenimento con tutte le conseguenze del caso? Eppure, come spiega impeccabilmente Lorenzoni nel suo bellissimo libro, in un capitolo magistrale sull'educazione all'arte, "i bambini sanno nutrirsi in modo straordinario del bello."

Si parla sempre, e aggiungerei quasi da non poterne più (e da non capire più di cosa si stia parlando), di diversità. Forse così come dobbiamo rispettare e capire le differenze fra le persone, grandi e piccole, dobbiamo capire quelle fra i libri.
Al di là di L'uomo dei palloncini che leggitimamente può piacere o non piacere così come tutti i libri del mondo, forse questi libri 'eleganti' che ricorrono a parole e immagini che utilizzano registri 'altri' perché raccontano di esperienze 'altre', parlano a bambini che nella vita di tutti i giorni fanno esperienze poco condivise, ma importanti sia per se stessi sia per gli altri.
Fin da quando ero piccola ho imparato che riguardo a certi temi e modi di esprimersi, le percentuali si abbassano. Non è un problema per me, mi colpisce sempre che lo sia per altri.

lunedì 16 giugno 2014

Un paese di umanisti

Classe di violinisti del Sistema Abreu, Venezuela.
La scorsa settimana su la Repubblica è uscito un articolo di Marco Lodoli intitolato: Addio cultura umanista. 
Per i ragazzi non ha senso. Così inizia:

Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all'atto, alla maieutica e all'iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all'idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.

È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. […]

La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. […]

Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili... Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

Classe del Sistema Abreu, Venezuela.

È vero quel che dice Lodoli, che noi adulti non dobbiamo solo rimproverare i ragazzi perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan, e invece capire "assolutamente dove stanno andando." 
Ma è vero anche, e prima di tutto, che guardandoli, dobbiamo renderci conto di tutte le cose che gli abbiamo impedito di essere, di fare, di sapere, di amare, tutto quel che gli abbiamo sottratto. E tenercelo anche bene a mente. Perché i fallimenti vanno guardati in faccia o si rischia di auto assolversi sotto una pretesa apertura mentale.

È del tutto incomprensibile che in Italia, ultimo paese in Europa per investimenti in cultura si pensi di attribuire a una sorta di mutazione genetica/culturale (peraltro non chiarita né sufficientemente argomentata) l'impossibilità di una relazione fra nuove generazioni e cultura umanistica. Addebitare ai ragazzi l'enormità di questo fatto è ingiusto, scorretto e gravemente fuorviante.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Nell'ottobre 2013, una indagine OCSE sui cittadini dai 16 ai 45 anni, ha segnalato che i “gli italiani sono in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio”.  Si parla, con questo, del fenomeno dell'analfabetismo funzionale, termine che designa "l'incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana". Spiega un articolo di la Repubblica: “Non importa, in altre parole, se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l'uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire anche attraverso le tecnologie digitali. Nell'ultima classifica stilata dall'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e diffusi oggi dall'Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all'ultimo posto. Ci piazziamo in fondo alla classica - ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.” Il Messico, tanto per capirci, ha una dato migliore del nostro. I buoni piazzamenti dell'Italia nelle classifiche mondiali non finiscono più: siamo, come è noto, fra gli ultimi in Europa per consumi culturali (con tassi di lettura imbarazzanti); ci piazziamo benissimo per dispersione scolastica e il rendimento scolastico non è dei migliori, nonostante si passino in classe più ore rispetto agli altri paesi europei; i bambini italiani sono i più a rischio obesità in Europa, ma hanno l'offerta di canali tv più ampia. Ci si chiede, allora, su che basi si fondi l'educazione, in Italia. Forse, prima di stabilire se ai ragazzi interessi o no la cultura umanista, qualcuno dovrebbe preoccuparsi di fargliela conoscere seraiamente.

José Antonio Abreu.

Se nel nostro Paese si è  interrotta la trasmissione del sapere è perché la relazione che lo permetteva, negli ultimi decenni, è clamorosamente saltata. E questo è un fatto emintemente politico. Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni, in questi mesi, in questi giorni, è legato: degrado culturale, sociale e politico, corruzione. La scuola, le insegnanti, i genitori sono solo tasselli in un quadro che nessuno più osa mettere a fuoco perché tutti vi sono implicati. Da decenni l'Italia ha smesso di occuparsi seriamente di educazione e cultura; da decenni scuole, università, biblioteche, teatri, musei, si vedono tagliare fondi, in uno stillicidio che li costringe a un declino, a una agonia inarrestabili e senza via di scampo. In questo senso, addebitare ai ragazzi la caduta della cultura umanistica, e come un fatto ineluttabile, non ha alcun senso. Perché questa generazione è stata la prima vittima delle conseguenze nefaste del degrado profondissimo e senza rete della società italiana.

Nei giorni in cui è uscito l'articolo di Lodoli, su Radio 3 Rai ho ascoltato una intervista a Helmut Falloni che nel 2006, insieme a Francesco Merini, ha girato il film L'altra voce della musica. In viaggio con Claudio Abbado fra Caracas e l'Avana. Il film documenta i viaggi che Claudio Abbado ha compiuto nel 2005 e nel 2006 in Venezuela e Cuba, per collaborare a El Sistema, ovvero al celebre progetto musicale di José Antonio Abreu (la voce Wikipedia, lo spiega nel dettaglio e ne consigliamo la lettura). Il Venezuela è un paese dove più di un terzo della popolazione vive sotto alla soglia della povertà ed uno dei paesi più difficili del mondo, con tassi di violenza altissimi. Caracas è la città più pericolosa del continente latino americano, con circa 100 morti per arma da fuoco per fine settimana.

Trent'anni fa, nel 1975, in questo paese, José Antonio Abreu, economista, musicista, ex ministro della cultura, ha creato un sistema orchestrale che opera in tutto il paese e che  conta, oggi, 100 orchestre giovanili e 90 orchestre infantili. Grazie a questo sistema, 240 mila bambini e ragazzi, fra poveri e poverissimi, hanno imparato a suonare, salvandosi dalla strada, dalla violenza, dalla droga. Ed entro il 2015 si prevede saranno 500 mila. Nel corso dell'intervista, nel film, Abreu spiega che in Venezuela la cultura è sempre appartenuta a una élite, e che alla base del suo progetto c'è l'idea di fare di questa, invece, un patrimonio di tutti, perché solo in questo modo è possibile incidere sulla realtà e sulla società, per trasformarle: "Il mio sogno" spiega, "è un paese di artisti, un paese di umanisti, un paese in cui i valori dell'uomo e i valori superiori dello spirito ispirano l'azione individuale e collettiva.”

Il film, che dura un'ora, riporta uno dei progetti educativi più straordinari degli ultimi decenni. Vi consigliamo di trovare il tempo per guardarlo, per il suo valore di testimonianza. Spiega uno dei molti ragazzi intervistati, nato nel Barrio Valle, zona di Caracas in cui nessuno estraneo si avventura, se non accompagnato: “La musica mi ha fatto crescere e maturare rapidamente.” E Abbado, poco più avanti, non diversamente, racconta di essere rimasto folgorato dalla musica, a sette anni, alla Scala, ascoltando i notturni di Debussy. Tornato a casa, scrisse sul suo diario: “Un giorno cercherò di realizzare questa magia.”
Aver fiducia nei ragazzi e nei bambini significa, anzitutto, sapere che sono in possesso di risorse infinite di intuito, intelligenza, sensibilità, e per questo in grado di scegliere fin da piccolissimi la loro strada. Ma la possibilità di intraprendere questa strada dipende dagli adulti. Sono loro, oggi come ieri, a dover creare le condizioni affinché questo possa accadere, a tutti i livelli: individuale, sociale e politico.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Abbado, nel documentario, parlando del progetto di Abreu al quale ha collaborato con passione, osserva che in paesi più ricchi del Venzuela, ma con sacche di povertà e violenza, progetti simili non si fanno. Dicendolo, sorride: allude, ma non rivela a chi si stia riferendo. Forse, chissà, anche all'Italia.
Una cosa è certa: guardando questo film, ascoltando i tanti ragazzi e musicisti che vi sono, e vi sono stati, coinvolti (e oggi, a loro volta, diventati insegnanti di musica), risulta chiarissimo che significhi l'espressione dare una educazione. In primo luogo assumersene la responsabilità. Come dice a chiare lettere Claudio Abbado: "Questo non è solo un fatto culturale, è un fatto sociale: aiutare i giovani ad avere quello a cui hanno dirittto tutti."
Buona visione.


lunedì 17 febbraio 2014

Sulle 49 cosiddette “fiabe gay”

[di Marnie Campagnaro]

Per cominciare, l'antefatto, che lascio ai titoli di quotidiani e ai rispettivi link.

7 febbraio 2014, "Il Corriere del Veneto".
Fiabe, il sindaco Orsoni si arrabbia: «Dico no alla propaganda». Polemica sui libri negli asili con storie su famiglie gay, single, miste. Attacco di Giovanardi, la difesa di Galan.

L'articolo si conclude con questo "salvifico" messaggio:
L’assessore alla cultura della Provincia di Venezia Raffaele Speranzon, affida a facebook il suo commento: «Il Comune di Venezia dove vivono migliaia di indigenti spreca 10mila euro per comprare questi libretti - sbotta - Il Comune guidato maldestramente dal sindaco Orsoni pensi a garantire la pulizia nelle scuole comunali che sono lerce invece di buttare i soldi pubblici per comprare libri spazzatura».

7 febbraio 2014, "Il Giornale".
Il Comune di Venezia distribuisce fiabe gay negli asili e nelle scuole.

7 febbraio 2014, "La Nuova Venezia".
Fiabe gay alle materne, De Poli diffida il comune di Venezia. E Giovanardi: "Giù le mani dai bambini"

8 febbraio 2014, "Il Gazzettino di Venezia e Mestre".
Libri sui gay all'asilo, ormai è guerra. Orsoni: «Seibezzi fa propaganda».

13 febbraio 2014, "Il Corriere del Veneto".
Il Patriarca: «Dico no alle fiabe gay». Seibezzi minacciata su Facebook.La consigliera: «Ora basta, denuncio». Critiche anche da Donazzan, Lega e Udc.


Leo Lionni, Guizzino, Babalibri.

Sul caso delle cosiddette “49 fiabe gay” distribuite ai bambini dell’asilo nido e della scuola dell’infanzia del comune di Venezia, mi hanno particolarmente colpita i titoli roboanti dei giornali, non certamente le prevedibilissime reazioni di taluni politici, sempre pronti a promuovere pretestuose crociate (possibilmente brevi, massmediaticamente rumorose e senza conseguenza alcuna per il loro portafoglio e il loro investimento personale) in difesa dei diritti dei bambini, dei quali ci si ricorda, ovviamente, solo in casi come questo.



“49 fiabe gay”? Ma da chi e in quali anni sono state pubblicate queste fiabe? Da studiosa di letteratura per l’infanzia ho subito frugato fra i miei appunti, ho riletto recensioni e libri, e sono andata a scandagliare le banche date informatizzate dedicate ai libri per ragazzi.

Indagando in maniera approfondita, si scopre che fra le 49 presunte “fiabe gay”, sono inclusi, ad esempio, anche opere di letteratura per l’infanzia irrinunciabili quali Piccolo blu e piccolo giallo, Pezzettino o Guizzino di Leo Lionni, A caccia dell'orso di Michael Rosen e Helen Oxenbury, Sono io il più bello di Mario Ramos, Ninna nanna per una pecorella di Eleonora Bellini e Massimo Caccia, Forte come un orso di Katrin Stangl, Dove è la mia mamma? di Julia Donaldson e Axel Scheffler o  Il pentolino di Antonino di Isabelle Carrier.

Gli albi che trattano il tema dell’omosessualità risulterebbero essere in definitiva solo quattro che, insieme agli altri 45 libri, sono stati selezionati e offerti ai bambini per aprire un dialogo sulle tematiche legate all’accettazione dell’alterità e alla decostruzione degli stereotipi culturali e di genere, così pervicacemente diffusi nella nostra quotidianità.
Sorge allora spontanea una domanda: questa esile pattuglia di albi illustrati rappresentano veramente un “rovesciamento di centralità” delle forme familiari tradizionali, secondo quanto paventato, ad esempio, in alcuni quotidiani nazionali (es. Silvia Vegetti Finzi sulle pagine de Il Corriere della Sera di venerdì, 7 febbraio)? A me pare di no.

Eleonora Bellini, Massimo Caccia, Ninna nanna per una pecorella, Topipittori.

La fumosa polemica sollevata in questi giorni denota, purtroppo, ancora una volta, una diffusa mancanza di cultura relativa sia alla letteratura per l’infanzia (i cosiddetti “libretti”, SIC) sia agli orientamenti dell’attuale pedagogia della lettura.

Katrin Stangl, Forte come un orso, Topipittori.

Da tempo, gli studiosi italiani e stranieri hanno messo in evidenza il lungo e faticoso cammino che questa disciplina è riuscita positivamente a compiere nel corso della sua dibattuta evoluzione storica: dall’ottocentesca funzione moralistica, omologante, istruttivo-didascalica, la letteratura per l’infanzia è riuscita ad approdare, come ci ricorda il pedagogista Franco Cambi, in maniera sempre più ardita e dirompente, a una produzione libera, divergente, utopica, convinta sostenitrice di un concetto di infanzia indipendente, inquieta, critica, che si interroga sulle questioni profonde della vita: l’amicizia, l’amore, l’attesa, l’inganno, la paura, il tradimento, la guerra, la fedeltà, il coraggio, la morte.

Julia Donaldson e Axel Scheffler, Dove è la mia mamma?, Emme Edizioni.

La finalità educativa della letteratura per l’infanzia non è, infatti, imporre a bambini e ragazzi modelli precostituiti ai quali essi debbano uniformarsi, ma accompagnarli dentro boschi narrativi che parlino di tutti gli aspetti della nostra vita, anche di quelli più bui e spinosi, attraverso i quali essi possano imparare a conoscere e ad accettare la natura inquieta dell’uomo, l’ambivalenza delle relazioni umane e i chiaroscuri della vita, nel convincimento che “se rappresentati e comunicati”, essi possono essere affrontati e compresi.

Nulla di più lontano pertanto dalla propaganda e da La mala educación.