martedì 3 maggio 2011

Come elettrodomestici impazziti

[di Massimo Scotti]

Tutti corrono a perdifiato, in questo film. Fisicamente corrono dietro a un camioncino senza frizione, che deve condurli verso la California, e psicologicamente, moralmente, immoralmente corrono dietro a tante cose, prima fra tutte il successo, perdendo di vista tutto il resto, loro stessi compresi. Il padre che nessuno vorrebbe avere (Richard) insegue il suo sogno editoriale: ha trovato la chiave per la riuscita nel mondo e vorrebbe far stampare il suo nuovo Vangelo per diventare, chissà, emulo di Ron Hubbard. Ma poi scopre di essere un fallito. Il figlio (Dwayne) che tutti vorrebbero prendere a sberloni sul muso tanto è cocciuto, ottuso e inespugnabile, vorrebbe diventare pilota ma scopre di essere daltonico. La madre (Sheryl) cerca di star dietro ai desideri di tutti, ma non ci riesce: ogni situazione le sfugge di mano e va per conto proprio, girando in tondo e a vuoto come fa la piccola Olive appena ha scoperto di essere finalista al concorso di Piccola Miss California (la Little Miss Sunshine del titolo). Quelli che non vorrebbero proprio mettersi a correre, ma sono costretti a farlo per non intralciare i desideri degli altri, sono il nonno, seraficamente perso nel suo delirio edonista, e lo zio Frank, che ha appena tentato il suicidio. E corrono anche loro, infine, a perdifiato, per far contenta Olive, che non sarà una bellezza (“Olive! Sei sempre più… grande” esclama incerto lo zio, nell’impossibilità di farle un complimento più lusinghiero), ma ha dentro di sé qualcosa che tutti gli altri sembrano aver perduto: il fuoco dell’entusiasmo.
No, Olive non è proprio bella, almeno secondo i canoni – spaventosi – dello star system per gli infanti, ma ha dalla sua una qualità che – anche questa – le sue coetanee sembrano aver perduto. Olive è autentica. È una vera bambina, bassotta, rotondetta, con grandi occhiali a bolla che le coprono metà della faccia; da dietro quei suoi vetri, che fanno pensare ai caschi spaziali degli astronauti anni Sessanta, guarda il mondo come se lo vedesse dalla Luna. Vuole solo arrivare nel suo Pianeta Blu, la California, non vede nient’altro che quel miraggio e non sente nient’altro che la sua musica, almeno in apparenza. In realtà comprende quasi tutto, o se lo spiega a modo suo, ed è l’unica ormai in grado di porre domande precise, essenziali: “Perché state litigando?”, “Perché volevi ucciderti?”. Quando lo zio spiega a Olive sinceramente la sua storia, davanti al cognato schiumante di rabbia, e racconta di un mancato riconoscimento, di una sconfitta, dell’amore per un allievo, del tradimento, della scelta suicida, la bambina commenta: “Che matto”. Con un certo affetto e anche un lodevole equilibrio, perché come altro può sembrare il mondo a Olive, se non matto? La sua è quella che si dice tecnicamente “una famiglia disfunzionale”. L’unico a comportarsi da adulto con lei è il nonno, che fa una cosa totalmente estranea alle abitudini della famiglia: si prende cura di lei. Le insegna qualcosa che non siano gli slogan vuoti del padre, la disperata ostinazione del fratello, la febbrile incertezza della madre destinata alla schiavitù domestica.
Olive vuol fare il suo show al concorso. Bene. Il nonno le insegna come muoversi sul palco e inventa per lei una coreografia strepitosa, seguendo attentamente il perfezionamento del suo numero, nelle pause di un viaggio massacrante e pieno di imprevisti. Il nonno inoltre ascolta le sue confessioni, la sostiene nei suoi momenti di dubbio. La convince, con ruvida grazia, di essere davvero bella, davvero brava, davvero importante. Però – grottesca tragedia – il nonno muore a metà del viaggio, per overdose. Ha esagerato con la droga, da vecchio tossicodipendente qual è? Oppure ha deciso di togliersi di mezzo? E perché lo ha fatto? La mia personale idea è che il nonno scelga di porre fine così intempestivamente alla sua vita quando capisce che anche Olive è perduta. Anche in lei, come in tutti gli altri, si è insinuato il veleno dell’ambizione smodata, e insensata. Il mito del successo la consumerà, come ha ridotto gli altri personaggi a fantocci impagliati, ad automi impazziti, a hollow men, uomini vuoti, come quelli descritti nella omonima e profetica poesia di un grande autore americano, Thomas Stearns Eliot.



La famiglia di Olive si chiama Hoover, come la marca famosa di elettrodomestici, e la scelta di questo nome non è affatto casuale. Tutti si comportano come elettrodomestici impazziti, che centrifugano emozioni e le sparano fuori dai lavelli come biancheria pesante e umida, oppure le aspirano dalla realtà, queste emozioni, con grande enfasi e brutale frenesia, come fanno gli aspirapolveri con il sudiciume domestico. E di fronte alla scomparsa improvvisa del nonno, la famiglia Hoover cosa fa? Un cadavere non può intralciare la corsa verso la California, nemmeno la morte può fermare gli automatismi di una macchina infernale. Quindi la salma viene caricata senza tanti complimenti sul furgone, e così continua il viaggio.
Eternamente, metodicamente in ritardo, i trafelati, elettrizzati Hoover arrivano alla sede della gara quattro minuti dopo la chiusura delle iscrizioni, e devono implorare una inflessibile organizzatrice che non ha nessuna intenzione di ammettere Olive al concorso. Rigida, corvina, disumana, non si scompone nemmeno davanti a un padre che si mette in ginocchio davanti a lei. L’unico ad avere pietà è Kirby, l’addetto informatico, che si offre di riaccendere il computer per registrare l’iscrizione di Olive. “Non ci lavoro più per questi qui, l’anno prossimo. È una gabbia di matti”, commenta Kirby, che ha mantenuto, a differenza di tutto lo staff del concorso, caratteristiche umane. Perché intorno a lui si muovono soltanto automi e androidi, sotto forma di mamme e di piccine dall’aspetto alieno.

Tutto l’orrore delle “gare di bellezza” si dispiega intorno a Olive, che silenziosamente avanza, pancia in resta, fino al suo camerino, fra esserini lustrati e phonati, con teste irte di bigodini e gambe spalmate di olio lucidante, come piccoli polli da mettere in forno. Ovunque spuntano sorrisetti meccanici e rossetti smaglianti, pose da marionetta e arie da bambinaccia scaltra, come se una fabbrica di Barbie avesse preso vita all’improvviso. Vittime di un mondo ormai reso irreale (“Unreal cities!” scriveva sempre lui, Eliot, pensando alle metropoli contemporanee), creature nate sotto la dittatura del pomello gonfio, immolate fin da piccole al patto demoniaco che fa sperare nella sodezza artificiosa e perciò eterna, le concorrenti sfilano davanti al loro idolo vivente, Miss California, che firma autografi e confessa di mangiare gelati. Proprio quei gelati che papà Richard aveva reso demonici, in quanto ingrassanti, agli occhi di Olive.
Infine, l’esibizione. Fra minuscoli show di bambine-confetto che imitano già con sprezzante cinismo le movenze dei grandi, fra musichette country e furbi ritmi alla moda, la danza di Olive arriva, deflagrante. Con i suoi occhi fiduciosi e il suo pancino soave, lei si scatena nel più dirompente degli strip-tease, al suono di un rock durissimo. Certo, perché era stato il nonno disinibito a inventare lo spettacolo. Nessuno della famiglia si era preoccupato di sapere cosa avrebbe fatto la bambina sul palcoscenico. Nella fretta di concorrere, a nessuno era venuto in mente di scoprire in cosa consistesse l’esibizione di Olive.

A questo punto, però, ciascuno degli Hoover mostra il frutto dei cambiamenti interiori avvenuti durante il viaggio, e questo è forse il punto più debole del film. La retorica consueta vuole che durante ogni road movie i personaggi subiscano dei mutamenti, e così avviene: il padre si ravvede, la madre prende posizione, il figlio supera il suo cupo egoismo e lo zio esce dalla sua dimensione fallimentare scoprendosi uomo saggio. Risultato: tutti salgono sul palco, per accompagnare Olive nella sua danza indiavolata, fra lo sbigottimento degli astanti e le proteste dell’organizzatrice e dei presentatori. L’unico ad applaudirli è Kirby, insieme a uno dei padri dei piccoli mostri, che segue abitualmente i concorsi con i tappi nelle orecchie. Così, con una plateale ma allegra sconfitta, si conclude questo perfido apologo sul successo, che non concede niente all’inanità del mondo contemporaneo o al sistema dello show business. Cos’è la fama? Cosa significa “l’immagine”? Quanto costa apparire? Un dettaglio fra i tanti è emblematico: la bambina sola, che si avventura dietro le quinte per raggiungere il palcoscenico, mentre l’annunciatrice chiede ancora un po’ di pazienza al pubblico prima che entri in scena la vincitrice già designata. “Lo spettacolo non è ancora finito, deve esibirsi la numero 25”.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Un bel film, una presentazione/analisi avvincente. Grazie.

Anonimo ha detto...

P.S.: mi permetto di condividerlo.

isabel archer ha detto...

una recensione dove c'è tutta la trama in tempo reale, non si era mai vista! inoltre non hai capito il messaggio...

Silvana D'Angelo ha detto...

Miss Archer, stiamo ancora aspettando la sua interpretazione del film. Visto che ha tirato il sasso...

Secondo me, un'interpretazione non ne esclude un'altra.

La cafoneria, invece, è un dato obiettivo e univoco, e molto diffuso, come si può vedere.

Topipittori ha detto...

Gli strumenti di comunicazione mediati elettronicamente lasciano spazio a troppi equivoci e preferiremmo un po' più di cautela negli interventi.
@ Silvana: per quanto il tuo commento possa essere condivisibile, ci sembra un'ottava troppo alto.
@ Isabel Archer: se hai un'interpretazione alternativa da suggerire, questo è il posto per condividerla.