giovedì 16 giugno 2011

La verde noia dell’infanzia bighellona

[di  Diego Malaspina]

Si potrebbe dire che The Tree of Life, il bellissimo e lunghissimo film di Terrence Malick,  sia divinamente concepito, proprio in senso letterale. La baronessa Blixen, nel film La mia Africa, narrando il primo viaggio aereo offertole dal biondo amante Finch Hatton, commentava: “Mi ha fatto vedere il mondo con l’occhio di Dio”. È quello che fa Malick con noi spettatori.
La sua macchina da presa segue la vita di un gruppo di persone in una lunga soggettiva, che potrebbe essere solo quella divina, cioè onnipresente e onniveggente, introspettiva e consapevole in modo supremo. Ma Dio, è risaputo, ha l’eternità a disposizione, e noi purtroppo un tempo umano che è quello che è. Limitato, frettoloso, convulso. Per cui durante il film capita di spiare l’orologio con una certa ansia. Confesso di aver ceduto a un sonno breve ma profondo, in piena tragedia. Subito dopo la morte del figlio ho perso i sensi, per ritrovarmi di colpo, al subitaneo risveglio, in mezzo ai dinosauri. Cosa sarà successo nel frattempo?



Le immagini iniziali erano seducenti quanto ovvie. Un po’ come veder sfilare una serie innumerevole di quelle immaginette in vendita a cinquanta centesimi nelle parrocchie: spighe di grano mosse dal vento, una goccia di rugiada sulla foglia, nuvole su lagune verso il tramonto. Come didascalia, frasi edificanti, versi dai Salmi, brani dell’Ecclesiaste. Oppure (forse il paragone è ancora più calzante), sembrava di essere immersi in uno di quei gadget in Power Point che ti mandano gli amici via mail, e che ti arrivano fatalmente quando hai un lavoro da consegnare e sei in ritardo. “Fermati per un momento,” dice un messaggio sullo schermo, “e osserva la Vita”. Chi può resistere a un invito simile?


Fai partire il congegno, lo schermo ti si blocca, e per venti eterni minuti aspetti che le immagini scorrano, una dopo l’altra, implacabili. Tigrotti addormentati, balene d’agosto, colonie di fenicotteri come boschi di peonie, il vento sugli oceani, tutte cose magnifiche in sé, ma la fretta ti impedisce di apprezzarle e ti senti anche in colpa per la tua ottusa, greve meschinità. “Vergognati” viene da dirsi. “Non sai proprio apprezzare il bello del Creato!”. “Sì, lo apprezzerei,” uno risponde, misero, “se non fosse che è tardissimo”.
Il tempo nel film di Malick è inesorabile. Passa, spezza i cuori, spazza via i ricordi e se ne va; ma in segreto, senza poterlo dire proprio a nessuno, tu sogni colpevolmente che l’intera famigliola O’Brien sia portata via da uno tsunami in quattro e quattr’otto, in modo da metter fine ai tormenti dell’infanzia come ai rimpianti dell’età adulta, alla dolcezza inerme della mamma succube come al pedagogismo totalitario del papà impettito.


Bisogna ammetterlo, pochi film sono riusciti a scrutare così profondamente nei paradisi infernali delle menti dei bambini, forse solo Toto Le Héros di Jacob van Dormael, I quattrocento colpi di Truffaut, Stand by me di Rob Reiner, Arrivederci ragazzi di Louis Malle (cito a caso). E bisogna scomodarsi a tirar giù dagli scaffali Le onde di Virginia Woolf per trovare un’altra opera d’arte che, come il film di Malick, tenti di definire così magistralmente la vita nei suoi termini ultimi. La vita, la natura, il cosmo, la violenza e l’infanzia, tutto insieme, e forse in questo Malick ha sbagliato. Pretendeva troppo.
In questi casi, la solennità ieratica e la retorica visiva sono in agguato. Perché Kubrick ci riusciva e Malick ci è riuscito solo in parte? Forse perché dietro le lentezze universali di The Tree of Life non c’era la tensione che è invece sempre costante in 2001 Odissea nello spazio, forse perché quei bambini, dopotutto, non fanno altro che vagare, brontolare e perder tempo, facendone perdere anche a noi, che abbiamo fin troppo presente la verde noia dell’infanzia bighellona, da cui peraltro tanti adulti non si sono mai staccati. Non sai più cosa combinare in un uggioso pomeriggio d’estate? Si manda in orbita una rana, e il gioco è fatto. Papà ti ha proprio rotto? Non vien voglia anche a te di levar di mezzo il crick e vederlo maciullato sotto la sua Oldsmobile?


Quanto alla recitazione degli attori, bisognerebbe riflettere a lungo: la misteriosa bravura dei ragazzi, quando smette di essere istintiva per raggiunti limiti di età, si trasforma nella statica espressività di Brad Pitt, che quando hai detto bello hai detto tutto. Ma perché? Certo in questo film, bisogna ammetterlo, si sforza. Immaginiamo un dialogo fra attore e regista.
“Brad,” gli avrà detto Terrence Malick, “se vuoi lavorare con me non devi farti truccare”.
“Ma Terry, mi hai già tolto il botulino da una settimana, sono un disastro”.
“Mettiti a dieta e piantala col whisky. Lo so che ti serve per reggere i sei figli urlanti all’unisono e quel demonio dell’Angelina, ma se vuoi lisciarti la faccia, non c’è altro mezzo. Inoltre, se vuoi avere la voce drammatica, fai come quell’italiana, la Bellucci: pronuncia le parole solo a metà”.
“Ma lo sai che ho l’accento dell’Oklahoma!”.
“Mi dispiace tanto, ma qui siamo nel Texas, e non ho intenzione di cambiare l’ambientazione per te, abbiamo già tutte le location”.
“Dimmi tu, allora, cosa devo fare?”.
“Sforzati, Bradie. Come se fossi in bagno da mezz’ora, con un parto difficile in ballo e la sola compagnia del giornale della settimana scorsa. O vuoi che ti metta l’agrifoglio nelle mutande, come ho fatto con Jessica (Chastain, n.d.r.)? Porta fortuna e induce all’espressione dolorosa in permanenza”.
“No, no, l’agrifoglio no! Ti giuro che mi concentro”.


E a lungo andare, sotto la minaccia del rametto spinoso, anche Brad qualche espressione l’ha fatta: monocorde, incolore, fissa come al solito, ma si può dire che passi con dinamismo artritico dalla cupezza allo sguardo radioso, come quando ha in mano il famoso piedino di neonato che allieta ogni locandina.
Dobbiamo ripeterlo, è un film magnifico, un poema sull’età perduta e sul mondo che troppo spesso sfugge alla nostra attenzione, ma diciamo che averlo contemplato così lenticolarmente, quel mondo, per due ore e mezza buone, tutto in una volta, ci mette in pace con la coscienza per un bel po’.

5 commenti:

aliciabaladan@gmail.com ha detto...

Dopo la “sottile linea rossa” che ho amato, mi sono messa in testa che questo film voglio vederlo, ma ho capito che devo essere preparata, testa libera e ben riposata. Certo non so se basterà . Gira addirittura la voce che una sala cinematografica, quelle che solitamente proieta film d'autore, abbia proiettato il film per una settimana con i tempi alternati e nessuno se ne accorto. :-( . ma come è possibile?!...

Silvana Luca ha detto...

Divertentissimo e di sostanza, come sempre.

Non pensavo mai che subissare Diego di tante mail-catene di S.Antonio avrebbe avuto un effetto così pregnante!
Ma allora continuo!

Silvana

Topipittori ha detto...

Alicia, vuoi un consiglio spassionato? Puoi tranquillamente perderlo, questo film. Al massimo prendere il dvd per farti una sonora dormita in una fredda sera d'inverno.

Piero ha detto...

Alicia, è vero, al cinema Lumiére di Bologna hanno proiettato The Tree of Life a rulli invertiti per nove giorni senza che nessuno se ne accorgesse nonostante il tutto risultasse piuttosto incomprensibile.
È incredibile come sia difficile esercitare la propria libertà critica quando un'opera d'arte viene presentata come «importante», credo per una sorta di complesso di inferiorità che l'arte contemporanea ci ha abituato a nutrire verso ciò che non si capisce.
Sul sito di pagina3, (programma culturale di radio rai tre) hanno molto spiritosamente messo il video della famosa scena in cui Fantozzi finalmente esprime ciò che tutti pensavano de «La corazzata Potëmkin» che il direttore costringeva a guardare: http://www.youtube.com/watch?v=BCztQYzz3AA

Federico Gemma ha detto...

Purtroppo sono andato a vederlo e per di più impreparato! Bè credo sia un film assolutamente da perdere e continuare a vivere senza alcun rimpianto! Evitare anche il DVD se possibile ... Ciao!