Architetture in legno di diversi colori e venature, ferro e vetro, spazi trasparenti e verde, che riflettono il fiume Han e, sullo sfondo, il monte Shimhak. Palazzi che si alternano, ognuno con una sua personalità definita, in una sorta di esibizione, di mostra.
Sotto il sole di giugno, pranziamo in un ristorante con soffitti altissimi, silenzioso e fresco. Avremo incrociato circa cinque persone da quando siamo arrivati, in pullman. Siamo una quindicina di editori da tutto il mondo e questo è il giorno della visita alla città del libro.
L'idea di Paju Bookcity è nata nel 1989 e da allora la città è cresciuta grazie all'appoggio del governo, degli editori, e al contributo fondamentale di una equipe di architetti incaricati di costruire la "terra promessa". La presentazione completa di questo progetto, in inglese, è disponibile qui.
A una prima lettura sono rimasta spiazzata: la Bookcity è nata sulla base di una esigenza morale, di recupero di valori umani contro la disumanizzazione contemporanea. E soprattutto è stata concepita come un luogo in cui recuperare e proteggere i valori della collettività, concetto che si è perso, a favore di un individualismo penetrato nella società coreana in diversi momenti. Dice più o meno così:
La perdita del senso del bene comune e uno stile di vita contaminato sono strettamente connessi alla storia moderna e contemporanea della Corea, contrassegnata da alti e bassi: 36 anni di dominazione giapponese, seguiti da un periodo caotico, con la guerra civile coreana; l'afflusso incontrastato della cultura occidentale, penetrata profondamente nella società; poi la dittatura; e infine l'instaurazione della repubblica negli anni '80. La Corea è stata presa nel vortice del nuovo regime economico mondiale, che ha portato inevitabilmente a un cambiamento radicale nelle città, come nelle zone rurali.
In questo processo, in cui sembra che i coreani abbiano quasi perso se stessi, Paju Bookcity è stata concepita "for the restoration of humanity lost".
È un luogo completamente dedicato al libro in tutti i suoi aspetti, dalla produzione alla commercializzazione, dalla promozione alla formazione. Trenta architetti coreani e dieci provenienti da tutto il mondo, ispirandosi al processo di realizzazione del libro (l'editore come architetto e viceversa), hanno concepito e disegnato Paju Bookcity, che sarà completata nel corso dei prossimi quindici anni.
Gli editori sono dunque invitati a trasferirsi lì. Questo fornisce loro numerose facilitazioni, dalle spese, alla distribuzione centralizzata, alla tipografia in loco, alla prossimità fra abitazione e luogo di lavoro. Questo primo aspetto, a mio parere, è un po' in contraddizione con la ricerca del senso di umanità di cui sopra. Mi ricorda molto, invece, i villaggi industriali del nord Italia, costruiti e voluti dai primi imprenditori tessili, dove tutti vivevano intorno alla fabbrica: l'ambiente era razionale, progettato con cura, bello (infatti Crespi d'Adda oggi è patrimonio dell'umanità); ma di umano c'era poco.
Ogni editore che accetta di trasferirsi a Paju Bookcity è obbligato a fare qualcosa per la collettività. Negli spettacolari edifici delle case editrici si trova sempre una libreria, una biblioteca, uno spazio per le presentazioni, le proiezioni o i laboratori. L'editore diventa promotore di cultura, deve portare alla collettività, ovvero ai circa 100000 visitatori che passano di lì, un messaggio; si incarica di insegnare tutto ciò che c'è da sapere, si preoccupa di avvicinare al libro le migliaia di bambini e ragazzi che ogni anno visitano le sedi per partecipare a laboratori, seminari, spettacoli teatrali e mostre. Il tutto, lontano da Seoul.
Ho avuto la fortuna di poter visitare due edifici.
La sede della Yeowon media è un bell'edificio con un giardino ordinato. Tre piani dove trovo un teatro per gli spettacoli di marionette, uno per le mostre e per l'esposizione delle tavole originali dei libri, uno che fa da biblioteca e spazio polivalente.
E, doppiamente fortunata, la visita a questo piccolo museo tematico si svolge in compagnia di tre classi delle elementari. Il presidente della compagnia, Dong Hwi Kim, ci racconta che per tutto l'anno, tutti i giorni, i bambini delle scuole del paese vengono per partecipare ai laboratori, per leggere e sfogliare i libri, per assistere agli spettacoli di marionette nel teatro. Una volta l'anno poi si svolge la festa del libro, e le strade si animano con giocolieri e clown, attori e artisti. Assistiamo a uno spettacolo di marionette, dedicato a Pinocchio, nel teatro, e visitiamo con i bimbi una mostra dedicata agli insetti, per lo più enormi scarafaggi.
La seconda visita è a Nangilsa Publishing. Una libreria bellissima, su due piani, con banconi perpendicolari, avvolta in un rispettoso silenzio, luminosa e coperta alle pareti di meravigliosi quadri (peccato che nessuno abbia saputo spiegarmi di chi fossero!).
Un piacere rimanere lì a leggere, sfogliare e curiosare tra i suoi scaffali. E un peccato che il tempo utile alla visita sia già finito. Mi sarebbe piaciuto continuare a camminare tra quegli edifici, molti ancora vuoti, altri in fase di occupazione, e vedere quali altre soluzioni e spazi sono stati creati dagli editori.
Mi rimane andando via una sensazione strana. Come di essere stata su un'"Isola che non c'è", un posto lontano e affascinante. E ritornare alla caotica Seoul mi toglie un po' il fiato. Poi però ripenso a Paju Bookcity e mi chiedo se relegare il mondo del libro in quella dimensione perfetta non significhi allontanarlo da quella realtà che lo nutre e lo ispira, a volte o spesso. Forse ragiono da occidentale: forse l'intento è fare vedere ai coreani che c'è la possibilità di vivere in un altro modo, forse Paju Bookcity è una reale prova di ciò che i libri sono in grado di costruire, una concretizzazione di quella capacità che hanno di portarci altrove con le parole e le immagini. Eppure...
Penso alle frotte di bimbetti vociferanti che oggi invadevano le stanze di Yeowon, e mi chiedo se quello che gli resta, dopo una giornata così, è un bel ricordo, se ci ritorneranno. Penso anche che, una volta a casa, non potranno ripassare da lì, non potranno dire, indicando con il dito: "Ehi! Io lì ci sono stato ed è bellissimo!". Non sarà insomma un luogo che farà parte della loro geografia quotidiana. E, forse, invece, questo potrebbe essere importante.
1 commento:
Sono dei non luoghi mascherati da futuro, intendi?
Rabbrividiamoooommm...
Posta un commento