Quest’estate, fra i libri portati in vacanza, alcuni sono stati oggetto di letture particolarmente appassionate e partecipate. Uno di questi si intitola Insegnare al principe di Danimarca, di Carla Melazzini.
Carla Melazzini è stata ideatrice e insegnante del Progetto Chance, vera e propria scuola impegnata a svolgere il programma per la licenza di terza media per giovani che hanno abbandonato la scuola, operante nella periferia orientale di Napoli, a Barra, Ponticelli, San Giovanni Teduccio. Come si legge nel libro a proposito di questo progetto pedagogico: “I ragazzi vi si iscrivono volontariamente – è quasi un arruolamento civile. La distinzione fra le varie discipline è spesso sconvolta. Oltre agli insegnanti ci sono educatori e genitori «sociali». Vi si realizzano molte attività pratiche e attorno a quelle esperienze si impara a leggere, scrivere e far di conto.” Qui trovate un’intervista sul progetto a Marco Rossi Doria, autore del bel libro Di mestiere faccio il maestro.
Non è facile dire perché questo libro che tratta dell'esperienza di insegnamento maturata nel corso di Chance, sia tanto forte, coinvolgente e sconvolgente: l’esperienza che riporta e la voce che la riporta poco si prestano a semplificazioni, in qualche modo ne precludono ogni tentazione. La complessità dei problemi, l’esercizio del dubbio, la pratica della critica, il rifiuto di soluzioni facili e di riflessioni consolatorie, sono costantemente in primo piano. La gravità dei vissuti dei ragazzi coinvolti nel progetto, il degrado dell’ambiente da cui provengono impongono all’autrice un rigoroso e severo rispetto della verità, anche la più scomoda, contro ogni retorica da parte di chi, su opposti versanti, a questo progetto, anche molto avversato, ha prestato attenzione. E infatti numerosissime sono le riflessioni, a volte impietose, sulle motivazioni e sulle modalità di intervento da parte di chi, anche con le migliori intenzioni, si impegna in questi ambiti. Costantemente, poi, è analizzato l’atteggiamento degli adulti, in particolar modo dei docenti, nel rapporto coi ragazzi, la loro reale capacità di insegnamento, andando alla radice di quel che questo significa, e di quel che significa una relazione educativa. Carla Melazzini mette la parola al centro di tale relazione: la parola come strumento fondamentale di ricerca di senso e di significati. Non solo: al come usare le parole, all’uso che si fa del linguaggio, vera e propria cartina di tornasole delle reali intenzioni, dei pregiudizi, dei luoghi comuni, degli ideologismi, rivolge una continua attenzione nel libro, che proprio per questo, oltre che per i contenuti didattici, è tanto straordinario.
Con le sue parole, per questa ragione, inauguriamo una rubrica alle parole destinata: speculare e gemella di quella dedicata alle immagini. Lo facciamo con un brano tratto da un capitolo che ha un titolo emblematico e bellissimo: Dal chiasso alla parola, che prendiamo a prestito per questa rubrica (frasi evidenziate in nero a cura della redazione).
Dal chiasso alla parola
Raramente ci chiediamo quale forma
venga imposta alla realtà quando le
diamo la veste di un racconto.
J. Bruner, La fabbrica delle storie
Alla domanda quale sia la parte più significativa del Progetto «Chance» per i docenti, si potrebbe rispondere che esso offre all'insegnante l'opportunità inestimabile di ripartire dal grado zero della parola.
È come se, nel momento in cui il ragazzo viene invitato a siglare volontariamente un nuovo patto educativo con persone di cui si fida, una esperienza dolorosa di fallimenti e rifiuti gli fornisse la legittimazione a fondare il patto su una sfida: la parola non è un diritto acquisito, ma si deve conquistare insieme: alunno e docente.
Per l’alunno è un processo quasi primario, nel quale la parola viene fatta emergere dal silenzio, dal chiasso, dal gesto che traduce senza mediazioni simboliche emozioni profonde.
Per il docente è una riconquista del senso delle parole, perché il ragazzo non è disposto ad accettare parole che siano prive di significato per lui.
Non è facile per un docente accettare di essere zittito, ma se riesce a sostenerlo, si apre un percorso educativo molto ricco per entrambi.
Nel primo anno di Chance il laboratorio artistico e quello linguistico costituiscono i cardini della porta che apre la via a un percorso di costruzione dell'identità attraverso la scoperta di significati.
Nel libro citato all'inizio, Bruner afferma che «creiamo e ricreiamo l’identità mediante la narrativa», che «il sé è un prodotto del nostro raccontare», e che «la creazione del sé avviene dall’esterno verso l’interno tanto quanto in senso contrario».
Un laboratorio dei linguaggi, verbali e non, deve dunque essere uno spazio predisposto con cura e amore perché vi possa avvenire il passaggio dal silenzio e dal chiasso alla parola e poi alla narrazione rispecchiata e condivisa che costruisce identità.
Raccogliendo la sfida che i ragazzi ci lanciano all’inizio, cerchiamo di guidarli a costruire una narrazione di sé che acquisti grammatica e sintassi senza perdere originalità, calore e verità.
La ri-conquista delle storie per i docenti
Al termine dei primi tre anni siamo riusciti finalmente a parlare delle nostre pratiche didattiche. C’è una soddisfazione generale per questa esperienza, e insieme circolava la domanda: «Perché non si è fatto tre anni fa?» Chiediamoci: «Si poteva fare tre anni fa?» La risposta è no; si è fatto adesso perché c’era un’esigenza generale di farlo e il senso di poterlo fare ora, e non senza una grande ansia, che nella fase preparatoria ha rischiato di paralizzare la situazione.
Perché tutta questa ansia e tutto questo tempo? Ancora una volta realizziamo quanto siamo simili ai nostri ragazzi e il nostro percorso sia simile al loro, nei tempi e nei modi: solo dopo tre anni ci siamo sentiti sufficientemente sicuri di avere fatto cose buone, tanto da poter ammettere le nostre debolezze e lacune e da affrontare il il confronto in campo aperto. Confronto con chi? Con noi stessi, con tutti gli altri colleghi, con il fantasma della scuola che ci portiamo dentro.
Anni fa ci siamo detti che Chance avrebbe scosso e ridefinito la nostra identità di insegnanti, e non ci immaginavamo quanto: qualcuno ha retto all’urto, qualcuno ha eretto difese, tutti abbiamo continuato a chiederci: «Ma io sto facendo l’insegnante o sto solo aiutando dei ragazzi ad acquistare un minimo di fiducia in sé e nella vita attraverso la relazione personale che ho stretto con loro?» Se oggi ci siamo messi al lavoro per migliorare il nostro modo di essere insegnanti è perché ci siamo convinti che quello che abbiamo fatto è scuola vera.
In questi giorni ci siamo messi a lavorare attorno a dei tavoli che all’inizio erano vuoti; le consegne non erano chiare e c’era molta ansia; poi sono comparsi dei fogli con riflessioni scritte a mano, una scheda di lavoro, la descrizione di un percorso; via via che la discussione e il confronto si accendevano, uscivano cose sempre nuove, come dal cilindro di un mago, pezzi di temi, fotografie, copioni teatrali, giornali, e tutto veniva buttato sopra un mucchio che diventava sempre più alto. Che succedeva? Scambio e restituzione reciproca, che ci aiutava a capire meglio le stesse cose che abbiamo fatto in questi anni con i ragazzi, col loro mondo interno prima di tutto, e con le loro conoscenze.
Siamo stati d’accordo di chiamarla didattica della parola, dove la parola non è un dato, ma una conquista: a partire dal silenzio, dall’urlo, dal gesto, dal chiasso.
Da quel mucchio sopra al tavolo è emerso un repertorio abbastanza vasto di tecniche e strumenti che abbiamo usato per conquistare spazi alla parola (che è il percorso caratterizzante il primo livello di Chance).
In questo repertorio di pratiche, nel quale non è possibile scindere relazione personale e didattica, abbiamo identificato dei nuclei fondanti. Il primo è quello che abbiamo concordato di chiamare: insegnare significa dare significato alla parola (e a tutte le attività che se ne servono). Se il significato, per essere tale, deve essere condiviso da insegnante e alunno, ne deriva il corollario della reciprocità, nella relazione personale come nella didattica: che significa accogliere i silenzi, i veti, ma anche gli indizi, i suggerimenti, gli orientamenti da parte degli alunni, pena la perdita appunto, della significanza.
Un’acquisizione importante di queste giornate di lavoro è stata scoprire, attraverso l’analisi e il confronto dei materiali e delle esperienze, quanta reciprocità ci sia anche in quel nucleo centrale della didattica della parola che è la pratica della restituzione: non solo noi restituiamo ai ragazzi le loro voci, immagini, emozioni, traducendole in parole strutturate, ma loro ci restituiscono continuamente, arricchendoli, i significati delle esperienze che facciamo insieme. Per questo, il lavoro di ricordo e inventario che abbiamo appena iniziato a fare è doveroso non solo per noi, ma innanzitutto per non perdere la ricchezza di questa restituzione, che in definitiva è ciò che ci ha convinto di essere insegnanti veri.
1 commento:
Post favoloso anche per noi genitori. Non vedo l'ora di leggere altri articoli di questa nuova rubrica. Corro in libreria a prendere il libro. Grazie!
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