venerdì 16 novembre 2012

Chiacchierando di ore blu...

L'edizione messicana di L'ora blu
...una conversazione di Massimo Scotti e Giovanna Zoboli.

L'ora blu è uno di quei libri che sembrano essere stati pensati in barba a tutte le regole non dette che sanciscono il potenziale commerciale di un libro illustrato. Troppe pagine, troppo testo, testo difficile, età di lettura indefinita, temi trattati né di tendenza né di attualità. E poi un libro per ragazzi con richiami letterari al romanzo francese settecentesco e con riferimenti iconografici alle stampe di paesaggio….

Non si fa! Pare male. Sa di scandalo. Mi chiedo sempre se libri per ragazzi come Peter Pan, Alice o Pierino Porcospino incontrerebbero (scritti oggi) l’approvazione di un qualunque ufficio marketing o comitato critico di settore. Ma una volta, dico proprio un tempo, nel secolo scorso, non si parlava di “libertà” e di “fantasia”, associate ai libri? Certo sono termini molto difficili da usare, oggi, molto pericolosi. Sono felice di aver vissuto infanzia e giovinezza in tempi meno irreggimentati. Ed erano proprio i libri di allora, fra tante altre cose, a renderli tali; certo, la follia al potere ha provocato vari danni. Di solito gli eccessi producono altri eccessi, ma di segno opposto. Uno di questi è l’attuale tendenza esageratamente normativa nelle scelte editoriali più miopi e stereotipate. Ha successo la saga di Moonlight? Benissimo, si punta solo sui vampiri. E via: interi settori delle librerie piene di volumi tutti uguali, ognuno sopra le 600 pagine, con Il vampiro di mezzanotte, L’ombra del vampiro, Sangue sui tuoi denti, Canini scarlatti, L’amore è un doppio foro sul tuo collo, A cena col vampiro, Pranzi veloci per conquistare il tuo vampiro di Benedetta Parodi. Ora poi si profila un autunno molto nuancé, con 50 sfumature di qualunque cosa….


Fra le incongruenze che manifesta L'ora blu, anche quella di apparire un libro ideale per un pubblico europeo, che dovrebbe cioè condividerne la cultura di appartenenza, per poi risultare invece a sospresa più accattivante per paesi esotici e lontani da noi: eccetto Naïve Livres, francese, gli editori che ne hanno acquistato i diritti sono uno cinese e uno messicano. La hora azul, edito da Oceano Traversía, ci è arrivato da poco. E ritrovarcelo fra le mani, dopo quattro anni (è uscito nel 2009), ci ha fatto venir voglia di riprenderlo e sfogliarlo. Nel 2009, Le figure dei libri ha dedicato molto spazio al libro: con una recensione e due belle e lunghe interviste ad Antonio Marinoni e a Massimo Scotti.


Ora, siccome a mio avviso nei libri illustrati è l'immagine a fare la parte del leone, quando chi li edita sa benissimo che il testo ha il medesimo peso nella loro riuscita (così come sa che trovare buoni autori di testi per albi è quanto mai raro, così come sa che la tendenza di chi produce immagini è di non dare troppa importanza al testo), ecco, per tutte queste ragioni oggi sotto i riflettori ci sarà il testo dell'Ora blu, molto più che semplicemente bello. Immaginatelo come una sorta di torta diplomatica, fatto di tanti deliziosi strati diversi. Ho chiesto a Massimo Scotti, studioso di letteratura francese, di viaggio, e di letterature comparate, di illustrarci quali ingredienti abbia usato per confezionarlo, mettendo in evidenza quante parole e libri di altri possano vivere all'interno di un racconto e animarlo segretamente.


Massimo, la tua protagonista è una giovinetta, Hortense des Orphées. O meglio è il suo diario il protagonista, quel che determina la messa in moto del racconto. In esso si legge in controluce la tradizione della scrittura privata, diaristica ed epistolare, poi diventata vero e proprio genere letterario. Nella voce di Hortense si colgono timbri di voci femminili familiari, uscite da pagine più o meno famose. A chi ti sei ispirato per caratterizzarla?

Locandina del film di Roger Vadim, 1959.




















Prima di tutto grazie per queste parole e per tutta questa attenzione, quindi, Hortense: avevo in mente molte educande e giovinette dei secoli scorsi, ma la prima a cui ho pensato è stata Cécile Volanges nelle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. L’epoca è più o meno quella, e Cécile, appena uscita dal convento, non conosce molto il mondo; le hanno detto però che le ragazze vengono riportate a casa dai conventi per convolare a nozze, così, alla prima visita maschile, per poco non sviene. Uno sconosciuto si inginocchia ai suoi piedi, lei per l’emozione si mette a strillare. Scoprirà subito dopo che si tratta solo del calzolaio, venuto a prendere le misure per un paio di nuovi stivaletti.

Jean-Honoré Fragonard, Le verrou, 1778, Louvre.
Fotoromanzo dal film Les liaisons dangereuses di Roger Vadim.

Glenn Close/Marchesa de Merteuil, Uma Thurman/Cécile de Volanges,
nel film Les Liaisons dangereuses di Stephen Frears, 1988.

Giana Anguissola.
E ricordavo che a quell’episodio sembrava ispirarsi un’autrice novecentesca, Giana Anguissola, nella sua serie dedicata a Giulietta. Un’altra ragazzina, di un’epoca diversa: Giulietta è innamorata del vicino, padre di famiglia, e quando lui le chiede un colloquio, per parlare di una cosa molto seria, pensa già che il giovane signore voglia lasciare la moglie per lei; in un susseguirsi molto comico di equivoci, scopre alla fine che il vicino voleva solo chiederle di fare da baby-sitter ai suoi figli. Avevo scritto alcune pagine del diario di Hortense inserendo episodi simili, ma poi le ho eliminate dalla stesura definitiva perché occupavano troppo spazio ed erano, tutto sommato, superflue. Rimane, di Cécile e di Giulietta, il tono ingenuo.

Ho cercato di riprodurre anche l’ironia di cui gli autori avevano intriso la presentazione dei loro personaggi; ma vorrei aggiungere un dettaglio, legato al discorso precedente: ho letto le Relazioni pericolose a dodici anni, senza traumi. Magari ho capito poco, ma mi sono molto divertito, e quella lettura mi è rimasta nella memoria; dunque un dodicenne dell’aureo secolo scorso poteva leggere contemporaneamente Laclos e Giana Anguissola: un libro “proibito” e uno “per signorine”, con gran gusto e senza danno. In barba alle attuali – e inflessibili – leggi pedagogiche. Magari anche entrando per una volta in mondi non suoi, guidato dalla curiosità e dal desiderio di libertà, cose che non fanno mai troppo male.

Quando si leggono diari e lettere di persone anche molte giovani vissute secoli fa, da una parte può colpire l'ingenuità, e quello che chiamerei il tratto convenzionale dell'eloquio, la retorica; dall'altro, all'opposto, la maturità di pensiero, l'originalità, la ricchezza e l'eleganza dello stile soprattutto, rispetto alla capacità attuale di praticare la scrittura da parte dei giovani.

Sì, questo è assolutamente vero, anche se come al solito non dobbiamo generalizzare. Saper scrivere e saper variare i toni del proprio discorso è una pratica abbastanza difficile, che richiede un lungo esercizio; certo l’uso generale della lingua da parte dei media in questo periodo è scoraggiante.

Mi stupiscono tanti fenomeni diversi e contraddittori. Ci sono giornali scritti incredibilmente bene e spaventosamente male. Traduzioni eccellenti e traduzioni ridicole. Lingue nuove che nascono ogni giorno (il sistema comunicativo degli sms, dei social network ecc.) e sistemi di appiattimento generale della lingua che fanno quasi paura.
C’è ora un film, nelle sale, che tratta, fra tanti altri temi, anche questo, Tutti i santi giorni di Virzì. Può apparire anche troppo semplificante, troppo superficiale e manicheo nella divisione tra buoni e cattivi, onesti e farabutti. Però osa affrontare per esempio il tema di due innamorati che parlano, letteralmente, due diversi linguaggi: anche in questo appare un po’ schematico e surreale, ma dopotutto ha lo stile di una favola moderna, a tratti anche drammatica, quindi a modo suo funziona; dunque, i due protagonisti hanno due modi comunicativi totalmente differenti, lui è colto e sofisticato nell’eloquio (perché fa letture di altissimo livello e di altrissimi tempi), lei è semplice, perfino rudimentale, però in compenso scrive canzoni in inglese, dai testi lirici e raffinati (nel film come nella vita). Ora, trovo spesso che il livello poetico, oltre che stilistico, di certe canzoni contemporanee sia notevole – e anche in questo caso, per contro, esistono cime abissali di orrore. Ma il suggerimento alla riflessione che viene dal film è molto interessante: siamo anche fatti di come ci esprimiamo in parole, le nostre idee si moltiplicano quando i termini si differenziano, il nostro linguaggio può definire e far scoprire la singolarità a cui tutti aspiriamo; in altri termini, perché tutti continuano a dirci “sii te stesso”, “sei assolutamente unico”, e vogliono venderci a tutti i costi “prodotti esclusivi”, quando poi tutto, intorno a noi, a cominciare dal linguaggio, tende a livellarci pesantemente? Nel film le persone ridono di come parla Guido, però molte rimangono affascinate: Antonia, per prima, è conquistata dal suo strano linguaggio, e così anche le hostess tedesche dell’albergo in cui lavora sono intenerite e sedotte dall’arcaico stile germanico delle sue frasi, imparate sulle pagine dei filologi ottocenteschi; dunque, come direbbe Carrie Bradshaw di Sex and the City, il linguaggio può diventare strumento di seduzione?

Sarah Jessica Parker, ovvero Carrie Bradshaw.

Certo, se si differenzia da quello che Mallarmé chiamava “lingua della tribù”, piatta, ordinaria, comune. E bisogna notare che Guido non usa quel modo di esprimersi con sussiego o con presunzione. Viene direttamente dal suo mondo di letture, dal piacere della lettura di testi che appartengono ad altri tempi e altri luoghi, perché anche questa è libertà: la possibilità di trovare spazi personali, unici per noi, nella sconfinata ampiezza della storia – un piacere oggi davvero sconosciuto. C’è una frase di Hobsbawm, il grande storico morto di recente; l’ha citata Internazionale, e suona quasi come un allarme. “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.” La parola antiquato è stata sostituita con antico, e questo ha provocato un grave danno. Si dà oggi all’idea di antico un senso dispregiativo. Probabilmente i ragazzi oggi temono di non risultare abbastanza “moderni” se non usano il linguaggio della tribù.

Édouard Manet, ritratto di Stéphane Mallarmé.

Stéphane Mallarmé.
Ma non sospettano che l’antico e il nuovo siano perenni ricicli degli stessi contenuti in forme diverse, e si stupirebbero molto se scoprissero, per esempio, l’arcaicità del linguaggio dei telefonini: se io scrivo ke, ki, al posto di che e chi, per risparmiare sulle battute di un sms, mi esprimo esattamente nell’italiano arcaico degli autori del Novellino (XIII secolo). Ci sarebbe poi un lungo discorso da fare sui diversi modi linguistici, sugli stili adatti a vari tipi di comunicazione, sul fatto che non ci si può esprimere con tutti nello stesso modo, ma è divertente invece variare i propri sistemi di espressione a seconda della situazione e delle esigenze particolari, ma basterà dir questo: mi sono divertito molto a immaginare come potesse scrivere Hortense, e mi sono immedesimato in lei anche attraverso quello che immaginavo potesse essere il suo linguaggio personale, privato (diaristico, appunto).


L'ingresso nel racconto dell'altro protagonista, il Conte di Saint-Germain, determina un repentino cambio di registro stilistico. I riferimenti sono sempre a quel periodo che sta fra Settecento e Ottocento, Illuminismo e Romanticismo, ma entriamo in un ambito molto diverso: l'alchimia, le scienze occulte, la massoneria. Cosa ti ha interessato e divertito di più portare alla luce di queste esperienze e atmosfere?

I migliori autori del racconto fantastico insegnano che più l’inaspettato si sprigiona in un contesto realistico, borghese, quotidiano, anche banale, più ha speranza di emozionare il lettore, e quindi più risulta potenzialmente impressionante; è l’antica e comprovata idea del “vuoto”, in arte, che risalta meglio se è posto accanto al “troppo pieno”, oppure la suggestione visiva che si ottiene affiancando colori complementari: un magnifico rosso carminio prende potere e luce se circondato da un blu cinerino. All’inizio del racconto troviamo un commesso viaggiatore, molto grigio e molto usuale.
Non immaginerebbe mai di fare il solito viaggio in compagnia però di fantasmi; così, la piccola e candida Hortense è pronta magari a innamorarsi di un agrimensore, come accade alla sua amica, ma non di un personaggio demoniaco.




















 Il Conte di Saint-Germain è anzitutto lo splendido tenebroso che andava molto in voga nei romanzi neri di quell’epoca, ma è anche un personaggio davvero esistito, benché molto favoleggiato ai suoi tempi; io ho una passione per quelle atmosfere e quelle storie, e in questo caso mi sono ispirato, oltre che alla figura reale del Conte, anche a una serie di racconti in cui la figlia dell’alchimista o dello scienziato pazzo viene immolata sull’altare della sperimentazione occulta (La figlia di Rappacini di Hawthorne, Il caso Makropulos di Karel Čapek).

A che fonti hai attinto per tratteggiare questo sulfureo seduttore? 

Sul Conte di Saint-Germain hanno scritto in tanti; pare che abbia incontrato di persona anche Horace Walpole, “inventore” del romanzo gotico con Il castello d’Otranto, e qui il cerchio già potrebbe chiudersi, perché è un po’ come se Bram Stoker avesse incontrato Dracula. Il romanzo più bello dedicato al Conte di Saint-Germain è quello di Alexander Lernet-Holenia. D’altra parte, Saint-Germain è una specie di alter ego di Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro
 
Il Conte di Cagliostro.

Vlad III Dracula.



















Ritratto di Horace Walpole, Joshua Reynolds, 1756-57.
 Nathaniel Hawthorne, di Charles Osgood, 1841.
Il Conte di Saint-Germain.

















A me è piaciuto soprattutto “umanizzare” la figura del sulfureo seduttore, come dici tu: ho guardato a lungo il suo unico ritratto conosciuto, mi ha fatto simpatia con quell’aria buona, un po’ mesta, e quel nasone, così ne ho fatto un uomo ferito per amore (ferito anche in senso letterale), che va in cerca della morte. Una situazione a dir poco inusuale; la cosa che tutti temiamo di più, lui la desidera, anche perché potrebbe restituirgli l’essere amato; il legame fra la morte e l’amore è un tema principe del Romanticismo come del Decadentismo, e mi accorgo, con un po’ di stupore, che tutte le mie storie scritte per voi parlano sempre di questo (un altro argomento che non piace molto, forse, ai pedagogisti).





















Infine, Tony Tanner: in questo personaggio c'è molto della letteratura contemporanea. Il suo tono colloquiale, piano, quasi dimesso, contrasta apertamente con quello dei due protagonisti.

Dunque, Tony Tanner è stato un grandissimo critico letterario, doveva essere una persona molto simpatica, a giudicare da quello che scrive, e ha un nome allitterante che mi piace molto perché sembra finto. Ho voluto dare il suo nome, per contrasto, al mio personaggio, che è un po’ il commesso viaggiatore di Arthur Miller, un po’ il protagonista della Modificazione di Butor, un po’ l’uomo qualunque che tutti siamo, e che non sa di vivere un’avventura del tutto straordinaria, com’è sempre la nostra esistenza (solo che spesso non ce ne accorgiamo). Lui, il Tanner dell’Ora blu, al contrario del suo omonimo critico, non conosce il mondo romanzesco in cui vivevano le persone – alcune persone – fra Settecento e Ottocento. Noi, nel senso di noi contemporanei, abbiamo elaborato nell’immaginario quel mondo come romanzesco; se penso a un secolo davvero poderoso e sconfinatamente sbalorditivo, mi viene in mente proprio il XIX, ma ripeto, è la nostra costruzione culturale di quell’epoca a renderla così stupefacente, proprio perché la conosciamo soprattutto, principalmente e con maggior piacere, proprio dai romanzi e da tutte le storie ambientate in quel tempo (e in quel mondo).

Nel tuo racconto dialogano registri stilistici, personaggi, voci, sguardi, punti di vista. E attraverso di loro dialoga il tempo: passato, presente e futuro. Cosa aspetta Tony Tanner, sceso dal treno e avviatosi alla ricerca di Hortense?


Beh, ci vorrebbe un sequel, e poi magari un altro, e alla fine un prequel; ovviamente, la prima cosa da fare sarebbe seguire Tony Tanner nei suoi vagabondaggi. È il classico eroe senza una meta, ma anche i viaggi di ricerca sono diventati ormai un luogo comune. Metà dei film italiani, oggi, sono road movies, e ormai si ripetono. Mi chiedo sempre come faccia la gente ad avere tanta voglia di sapere dov’è finito lo zio Pino, scomparso da una balera: dove vuoi che sia? Si godrà in pace il suo panino con la porchetta, nascosto da qualche parte in modo che non glielo rubino. Ma anche, mi chiedo: il milionesimo assassino e l’ennesimo serial killer, interessano davvero così tanto? Di certe cose talmente rifritte il pubblico non si stanca mai?

Il Divin Marchese, di Charles-Amédée-Philippe van Loo.
A volte si ha paura di scrivere storie che assomiglino troppo a tutte le altre, poi salta fuori una tranquilla massaia con fantasie sadomasochiste, e il caso scoppia. Ma come? E gli innumerevoli romanzi libertini del XVIII secolo? E quel povero Marchese de Sade, che non ha fatto altro se non scrivere storie di sadismo (a cui peraltro ha dato il suo nome), ed è finito anche in galera per questo? Tutti dimenticati. Però ho seguito un’intervista con E. L. James, e devo dire che è una donna irresistibile, autoironica, un po’ matta. Varrebbe la pena di leggere uno dei suoi libroni solo per farla contenta.


Hai giocato con i piani narrativi legati ai tre personaggi, suggerendo al lettore molto di loro, del loro carattere, del modo che hanno di guardare la realtà, attraverso il modo che hanno di esprimersi: e con ciò implicitamente dichiarando quale sia la funzione dello stile.

Lo stile è tutto, punto.

Parlare dello stile e della sua funzione può sembrare scontato, ma non lo è. Oggi il romanzo (per ragazzi e non), può essere costruito al di fuori di preoccupazioni di stile, e la scrittura diventare  semplicemente funzione della trama e della definizione di precisi contenuti, per esempio di attualità, o di generi come il fantasy o la fiction.

Personalmente odio i libri che hanno una scrittura particolarmente – magari anche volutamente – piatta. “Lei è seduta accanto alla finestra. La apre. Accende una sigaretta. Il fumo sale nella stanza. Cade la cenere. Cerca un posacenere. Introvabile. Allora butta la cenere fuori dalla finestra. Poi butta anche la sigaretta. Vuole smettere di fumare. Squilla il telefono”. Ecco, io non riesco ad andare avanti, è più forte di me, magari poi la storia si complica e diventa interessante, ma faccio troppa fatica. La scrittura diventa la didascalia di un’immagine inesistente, e spesso prevedibile. Non mi racconta niente di più rispetto a quello che posso percepire io della realtà, in ogni momento: la superficie senza niente dietro, anzi, con dietro il vuoto. Temiamo tutti, sempre, che dietro la realtà ci sia soltanto il vuoto, ma migliaia di anni di cultura e civiltà sono stati spesi proprio per nasconderlo. È quella la loro funzione, farci dimenticare che al di là di quello che vediamo non ci sia proprio niente.

Bela Lugosi ovvero il Conte Dracula, 1927.
E più ci riescono, gli artisti e gli scrittori, più svolgono bene il loro compito; la bellezza e l’armonia sono illusioni, certo, ma bisogna smascherarle solo per poi passare la vita a nutrirci di squallore? Sai che noia. Lo stile è fatto apposta per illuderci che le parole ne sappiano un po’ più di noi su realtà diverse, nascoste e lontane, mi pare magnifico crederci, a costo di illudersi. Tanto, cosa cambia?
Un discorso completamente diverso da fare sarebbe quello della “letterarietà” e dei suoi misteri; tempo fa parlavo con una redattrice che si mostrava molto stupita della mia passione per Harry Potter: “Ma non è mica letterario!” è sbottata. “È scritto malissimo. ‘Ron disse’, ‘Hermione disse’, l’autrice non sa usare nemmeno dei sinonimi!”.

Daniel Jacob Radcliffe ovvero Harry Potter.
Questo è un vero equivoco. Un testo è davvero letterario, secondo me, e ha uno stile inconfondibile, anche se non usa un linguaggio particolarmente forbito (cosa non importante né essenziale), ma se riesce a creare con il suo linguaggio un mondo, e se sa farci credere in quel mondo: l’esempio di scrittura di cui ho parlato prima non è scontato e soporifero solo perché usa termini comuni e insignificanti, ma perché le immagini che crea, il mondo che costruisce sono opachi. Posso immaginare perfettamente cosa faccia una donna sola in una stanza alla finestra: se è una fumatrice fumerà, se è logorroica parlerà tre quarti d’ora al telefono con un’amica, come lei nullafacente. Se non mi si dice niente di quella stanza o di quella finestra, penso subito a quelle case in cui si è appena andati ad abitare, ancora senza mobili, e mi viene la malinconia. Se solo si aggiungesse che la sigaretta ha un cerchietto d’oro intorno al filtro, penserei almeno a quelle sigarette che fumavo io da giovane, per gasarmi un po’, costosissime e schifose. Magari al mentolo. Mi verrebbe in mente quel tempo là e mi divertirei a ricordarlo; ma anche l’attenzione per gli oggetti, le descrizioni accurate, sono ormai desuete. Molti libri vengono scritti come trattamenti cinematografici, in attesa di un film che magari non verrà mai. E forse è meglio così, perché lo posso immaginare: luci livide in una stanza, a febbraio, con un mondo grigio fuori, un’attrice impacciata che guarda nel vuoto, del tutto inespressiva. E dal suo sforzo visibile possiamo immaginare il regista, dietro la macchina da presa, che la aizza: “A’ Tea, a’ bbella, deve fa’ vvedé che stai a suffrì! Soffri, cocca, dajje!”.

La passione per la letteratura comincia prestissimo per te, fin dall'infanzia e adolescenza. Cosa ti affascinava di più nei libri, cosa cercavi?


Heinrich Heine.
Cercavo di scrivermi da solo i libri che nessuno aveva scritto per me, poi però ne leggevo sempre di nuovi e scoprivo che i libri contenevano molte più cose di quanto avrei mai potuto immaginare, perché la fantasia si autoalimenta, quando c’è, e si spera che non abbia mai fine. Mi piaceva però anche tutto quello che vedevo oltre le pagine; sono sempre stato molto lento a leggere, perché sospendevo spesso la lettura per guardarmi intorno, e trovavo quasi sempre stupefacente l’interazione fra la sfera del reale e quella dell’immaginario, nessuna delle due poteva esistere senza l’altra, erano due complici e il loro accordo segreto mi incuriosiva, proprio perché di solito erano ambiti opposti ed estranei. 


Un solo esempio: ogni volta che penso a Heine, uno dei miei scrittori preferiti, mi viene in mente una sera d’autunno in cui leggevo il suo libro Donne di Shakespeare nella cucina di mia zia Palmira, in campagna; c’era una luce fioca, la stufa accesa, i grandi parlavano fra loro a voce bassa di problemi familiari; io tenevo il libro sulle ginocchia, era un bel volume illustrato, e pensavo alla vita diversa che facevano quei personaggi, tanto lontani da noi, però mi incuriosiva anche spiare cosa stava succedendo in famiglia, sperando in qualche scandalo. Così la zia mi sorprese a fissare il muro un po’ scrostato, invece delle pagine, e mi disse “C’è troppo scuro, non riesci più a leggere?”. Come al solito, queste esperienze e questi ricordi hanno senso esclusivamente per chi li ha vissuti, però te li racconto per farti capire che anche l’occasione della lettura entrava a far parte del fascino della lettura stessa: quel particolare momento dell’anno, il buio e il freddo fuori, il senso di protezione della stufa accesa e dell’atmosfera domestica, quei disegni bellissimi che vedevo, le parole che leggevo e il senso di mistero che si diffondeva intorno: Desdemona era colpevole o no? Lady Macbeth sarebbe riuscita nei suoi intenti? E cosa aveva combinato il nostro grassissimo zio Carlo, di cui si parlava sottovoce?

2 commenti:

Marta ha detto...

E' un libro adatto ad una bambina di 7 anni? Grazie per la risposta.

Topipittori ha detto...

Grazie a te Marta, per l'attenzione.
Allora, stabilire la fascia di età di un libro, non è così scontato. Sette anni potrebbe anche essere una età giusta. Se io leggevo "Piccole donne" a quell'età, penso che la bambina che hai in mente, potrebbe tranquillamente divertirsi con "L'ora blu". E se i bambini di oggi a quell'età si sciroppano i tomoni di Harry Potter e le saghe dei vampiri, perché non dare questo libro? Però dipende anche da che tipo è questa ragazzina: è una buona lettrice? Che tipo di libri ama? è una lettrice curiosa e intraprendente, onnivora? le piace dare l'assalto a libri strani "non conformi" secondo gli standard in uso ai giorni nostri? O invece è un po' pigra e ama in particolare l'intrattenimento alla Geronimo Stilton? Non si può mai generalizzare...