martedì 12 febbraio 2013

Ridere dell'arte

Nadar, “Le Journal Amusant”, 1861.
Alla fine dello scorso anno, Marta Sironi, autrice dei testi della nostra Pippo, nuovissima collana dedicata all'arte, traduttrice e curatrice di Libri!, nonché collaboratrice alla ricerca presso il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato un interessante saggio dal titolo Ridere dell'arte. L'arte moderna nella grafica satirica europea.

I temi affrontati in questo studio toccano sia l'arte sia l'illustrazione, attraverso una produzione grafica considerata minore. Per darvene un'idea, riportiamo dalla quarta di copertina:

Un carattere tipico della vicenda artistica della modernità è la crescente difficoltà di lettura delle opere, al di fuori di cerchie specialistiche più o meno ristrette; un fenomeno intensificato dalle attese di un pubblico sempre più di massa, irresistibilmente attratto dai segreti o dalla religione dell'arte contemporanea.

Albert Robida, “La Caricature”, 1884.
La fatica e l'ostilità del pubblico nei confronti delle sperimentazioni artistiche degli ultimi due secoli, spesso considerate incomprensibili, folli e, insieme, seducenti, sono indagate da Marta attraverso un'attenta analisi della produzione grafica satirica dedicata all'arte e alle figure degli artisti, nelle sue espressioni alte e basse (dalle incisioni litografiche alle vignette pubblicate in riviste e giornali). Un controcanto che diventa una sorta di vera e propria produzione artistica parallela che, se di frequente assume un punto di vista ‘reazionario’, ‘antimoderno’, riesce però a dare forma a invenzioni ingegnose, talvolta geniali e, non di rado, di un'intelligenza critica sorprendentemente sintetica e chiara.

Quello che colpisce, nel saggio, è come alcuni fenomeni – per esempio, le reazioni del pubblico di fronte alle opere di pittura contemporanea o il modo di percepire la figura dell'artista o l'atteggiamento e le motivazioni che spingono masse di visitatori a grandi eventi organizzati intorno all'arte – siano sostanzialmente rimasti immutati o almeno così parrebbe. Su questi temi, abbiamo rivolto a Marta Sironi alcune domande.

Félix Vallotton, “Le Rire”, 1895.
Come ti è venuta l'idea di questo studio?

Mi sono laureata in storia dell’arte contemporanea studiando una rivista inglese d’arte, “The Studio”, e proprio in quello stesso periodo l’Università Statale di Milano acquisiva una collezione di riviste illustrate che di lì a poco avrebbe costituito il nucleo iniziale del Centro Apice. Ho avuto quindi l’occasione di lavorare su tali riviste con la possibilità di vedere e maneggiare per la prima volta collezioni complete delle principali riviste illustrate europee tra Otto e Novecento. Ho iniziato così ad appassionarmi di illustrazione, imparando a conoscere anche questa storia dell’arte parallela, costituita appunto dalla produzione apparsa su tante riviste illustrate, non solo d’arte ma anche satiriche.

Oggi fa ridere pensare che Courbet possa esser stato considerato ‘incomprensibile’. Ma se guardiamo alle reazioni di fronte ad artisti come Cattelan, le cose forse non sono così cambiate. Qual è, a tuo avviso, il problema fondamentale di comprensibilità che l'arte contemporanea ha posto e pone al pubblico?

Domanda alla quale è un po’ difficile rispondere in sintesi: diciamo che da quando l’arte si è aperta a un pubblico ampio vi è sempre stata una reazione critica. Non è cambiato in sostanza nulla: nel 1855 Courbet era il Cattelan d’oggi e usare delle prostitute a riposo come soggetto di un quadro suscitava la stessa opposizione dei bambini impiccati in Piazza XXIV Maggio, a Milano. Del resto gli artisti lavorano da sempre in termini di criticità e se a questo aggiungiamo la sperimentazione linguistica, si può ben immaginare la difficoltà d’interazione fra artista e pubblico.

Matilde Ade, “Meggendorfer Blätter”, 1898.

Ti sembra corretto paragonare quello che oggi accade nella relazione fra arte contemporanea e suoi fruitori, a quanto è avvenuto nei periodi in cui il tuo studio si è concentrato?

In qualche modo sì, anche se oggi mi pare che l’arte contemporanea sia tornata ad avere un suo pubblico d’élite. Il periodo su cui ho concentrato la mia analisi – tra metà Ottocento e metà Novecento – corrisponde all’espansione delle maggiori avanguardie, ma anche alla nascita e crescita di una pubblicistica illustrata che spesso era considerata una vera e propria ‘palestra’ per moli artisti e disegnatori. Quindi l’arte contemporanea era oggetto di un dibattito pubblico più di quando mi pare avvenga oggi, almeno pensando alla carta stampata: forse dovremmo riferirci alla rete che però si rivolge anch’essa, paradossalmente, a un pubblico di appassionati, una sorta di élite, anche se magari internazionale.

Charles Léandre, “Le Rire”, 1895.

Quali sono stati i cliché più in voga rispetto alla figura dell'artista?

Il fannullone buono a nulla. Al di là di questa lettura banale, si è sviluppata però una complessa definizione dell’artista o di singoli artisti in relazione al loro modo di fare arte, giocando e facendo ancora una volta forza su quello stesso ‘stile’ che veniva in qualche modo criticato.
Courbet è stato il primo artista capace di sfruttare il ‘potere mediatico’ della satira per costruirsi un personaggio pubblico riconoscibile: un po’ come fosse un ‘santo moderno’, sempre rappresentato con gli stessi attributi identificativi: zoccoli di legno, boccale di birra, pennello grossolano … (un po’ come le chiavi per San Pietro o le frecce per San Sebastiano).

Lucien Métivet, “Le Rire”, 1895.
Albert Robida, “La Caricature”, 1888.
Adolphe Willette, L’Assiette au Beurre”, 1909.
















Enrich Schilling, “Simplicissimus”, 1921.

Guardando le immagini del libro, si ha l'impressione che questi artisti satirici, mentre li irridevano, al tempo stesso si nutrissero dei linguaggi artistici delle avanguardie, e spesso li sapessero utilizzare con estrema finezza. Sembra contraddittorio, ma le immagini e le parole possono dire cose diverse (mi viene in mente Walter Benjamin quando nei libri illustrati per bambini riscontrava un divario fra testi moralistici e immagini eversive: una distanza fra chi scrive e chi illustra, fra linguaggio verbale e visivo). Pensi che questo sia accaduto ai vignettisti che hai studiato?

Assolutamente sì. Le riviste satiriche spesso erano molto popolari e dovevano mantenere il loro pubblico e per far questo mantenevano una certa posizione, il più possibile vicina o avvicinabile all’opinione pubblica. Ma non perdevano occasione, ironizzando e parlando delle astrusità moderne, per rinnovare la grafica della testate, aprendosi a collaborazioni di disegnatori che spesso appartenevano agli stessi filoni d’avanguardia criticati.

Mino Maccari, “Il Selvaggio”, 1936.
Edward Tennyson Reed,  “The Punch”, 1895.

A tuo avviso la produzione satirica sulle correnti artistiche sperimentali e d'avanguardia, ha avuto come effetto collaterale, magari non voluto, ma presente, la loro divulgazione?

Certamente. La rivista di Monaco “Jugend”, per esempio, ironizzava sul contemporaneo stile moderno di cui la stessa rivista è divenuta una delle espressioni più interessanti.
Così durante il ventennio fascista alcune riviste come “Il Selvaggio” e “L’Italiano” polemizzavano contro certa modernità per loro troppo esterofila, ma il modo di polemizzare era al contempo una sperimentazione visuale in termini di modernità.

Copertina di “Jugend”, 1896.
Copertina di “Jugend”, 1896.

















Attraverso il lavoro di questi artisti, spesso eccezionalmente bravi, è possibile che i nuovi modi di rappresentare la realtà siano entrati a far parte dell'orizzonte quotidiano del pubblico, che nel momento stesso in cui li dileggiava, in realtà li stava assimilando?

Aubrey Beardsley, copertina, “The Yellow Book”, 1894.
Sì, è stato anche l’aspetto che mi aveva molto stupito quando vedevo queste riviste per la prima volta: mi pareva di scoprire una storia dell’arte parallela che, seguendo le principali tracce della sperimentazione visuale delle avanguardie, trovava soluzioni e modulazioni delle stesse in termini di comunicazione di massa. Gli scapigliati scrivevano e disegnavano per le riviste satiriche, così come Franz von Stuck, quando esponeva nelle principali esposizioni d’arte moderna di Monaco, disegnava anche per la rivista satirica più popolare della città: naturalmente conoscevano le questioni da molto vicino e non perdevano occasione di modulare sperimentazioni linguistiche anche per le riviste.


Qual è stato l'aspetto che più ti ha interessato di questo studio?


Scoprire e iniziare a studiare anche questa storia dell’arte ‘minore’: per me è diventata la ‘maggiore’.

Edouard Riou, “Le petit Journal pour Rire“, 1856.

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