Di Elsa Morante, in questo blog, ha scritto, nel 2011, Luisa Mattia.
Due anni fa, infatti, dopo avere scoperto che Luisa condivideva con noi un folle amore per Le bellissime avventure di Caterina, libro scritto da Elsa Morante a tredici anni (e pubblicato da Einaudi dal 1942 a oggi; da un certo momento in poi col titolo di Le straordinarie avventure di Caterì dalla trecciolina), le chiedemmo di scrivere un post. Dopo qualche riga di preambolo, Luisa scrive:
Non sappiamo granché della sua infanzia romana, passata tra i libri e l’immaginazione. Non sappiamo come vestisse né quale fosse il gusto di gelato preferito. Non sappiamo quale fosse il giocattolo più amato. Sappiamo che amava i gatti e i grandi cappelli, che aveva occhi grandi e lo sguardo severo, che volentieri sorrideva e faceva una smorfia da monella. Si vede bene, nelle foto.
Sappiamo, anche, quale fosse il suo gioco più bello, quello che maggiormente la attraeva e che, con allegria ostinata, praticava: raccontare. Non si vede dalle fotografie ma da un libro.
Oggi, Einaudi per la gioia nostra, e sono certa, di Luisa (anche perché questi “aneddoti” attestano tutto ciò che lei ha osservato), ha pubblicato un libretto imperdibile per chi ama questa scrittrice, ma non solo. Si intitola Aneddoti infantili e lo definisco libretto esclusivamente in relazione al ridotto numero di pagine. Grazie a questo libro per il quale non mi viene in mente altro termine che “miracoloso”, oggi abbiamo accesso all'infanzia romana della scrittrice. Non so se alla realtà di questa infanzia, ma certo al suo mito, che poi è quello che ci interessa, considerato di chi stiamo parlando. E non perché come scrittrice Elsa Morante sia banalmente definibile come tale, ma perché, insieme ad Annamaria Ortese, questa scrittrice, come nessun altro, ha raccontata la narrazione mitica che l'infanzia tesse incessantemente intorno al mondo.
E, detto questo, non aggiungo altro, se non che in modo esemplare la Morante sembra essere appartenuta, fin dai primi istanti di vita, a quel daimon di cui parla James Hillman in Il codice dell'anima, cioè quella figura di destino che dalle origini informa la vita di ogni essere umano e la conduce.
Ho dovuto rileggere più volte il libro per capire quale brano proporre in lettura. Non il più bello, non il più luminoso, non il più commovente, non il più esilarante, non il più arcano. Ma quello, forse, che dà ragione di tutti questi registri. È tratto da Il mondo Marte è cascato.
Viaggiando per la città in tranvai, noi tre fratelli vedevamo ricchissimi palazzi e giardini chiusi da alte cancellate. Decidemmo di impadronircene ed io per prima ne diedi l'esempio. Un giorno, attirata dalla facciata gialla della Manifattura Tabacchi, gridai:
- La Manifattura Tabacchi è mia!
- E il Palazzo degli Esami è mio! - rispose il mio fratello maggiore.
Allora il mio fratello minore, tremando per l'ansia e affannando in fretta in fretta aggiunse:
- Il Colosseo è mio.
Il giorno dopo, il fratello maggiore dichiarò che la piazza del Colosseo gli apparteneva, e questo portò ad una zuffa sanguinosa, perché la piazza comprendeva appunto lo stesso Colosseo, già da un giorno di proprietà del fratello minore. Grazie alla mia mediazione si venne ad un accordo, e fu deciso che il mio fratello maggiore avrebbe restituito la piazza del Colosseo contro la cessione della Piramide di Caio Cestio da parte del mio fratello minore.
Da allora, la nostra dichiarazione di proprietà di ogni palazzo o monumento veniva seguita frettolosamente da una consimile dichiarazione per le piazze e le strade circostanti. Siccome varie zuffe abbero luogo perché spesso accadeva che uno di noi s'impadronisse di un sito e l'altro minaccioso urlasse: «L'ho già detto io», ci avvezzammo ad elencare scrupolosamente in un quadernetto le nostre rispettive proprietà, facendo precedere l'elenco dal disegno di una testa di morto.
Bene. Ma che avvenne quando ci trasferimmo a Tre Ceci, paesello composto di casacce tutte rotte e di bassi pollai? Non ci degnammo neppure di guardarlo. Ma una sera che sopra di noi si apriva nel suo pieno respiro la volta stellata, l'orgoglio di un'idea magnifica mi gonfiò le vene e gridai:
- Il mondo Marte è mio!
- La Luna è mai, - soggiunse subito il mio fratello maggiore.
E il mio fratello minore, pallido per lo sforzo, dichiarò:
- Il Sole è mio.
Così ci impadronimmo pure dell'Orsa e delle principali stelle e pianeti. Ma qui comincia il mio trionfo. Perché se i miei fratelli più svelti e robusti, possedevano un maggior numero di stelle, neppure tutte le loro stelle riunite, dai lunghi nomi cercati sull'Atlante, valevano il mondo di Marte. Pallidi per l'invidia mi udivano magnificare le qualità del possedimento: nel mondo Marte le signore portavano in testa, per cappello, bei giardinetti con piante vere, oppure girandoline che scoppiavano e facevano i fuochi d'artificio; e, al posto della sciarpa, serpenti a sonagli. Nel mondo Marte i cavalli avevano la criniera fatta di fuoco vero, e il cavaliere galoppando si accendeva la pipa. E mica c'erano le automobili, perché la gente aveva un motorino nella pancia, con annesso un fornelletto per cuocere le uova e tutto. E si poteva puntare un semplice dito della destra, e sparare una pallottola come con la pistola. I fratelli cercavano di emularmi, dicendo che nella Luna i gatti comprano il giornale e le guardie dormono dritte in piedi. Ma sì! Ci corre.
Allora i miei fratelli fondarono una società ai miei danni. Con finta indifferenza li vedevo confabulare e lanciarmi occhiate bieche; finché, acquistato un quaderno di cinquanta fogli, si accinsero a un'opera misteriosa. Nessuno poteva conoscerla o gettarvi uno sguardo sia pure distratto; ma dal feroce atteggiamento degli autori, i quali nel compilarla ora arrotavano i denti, ora spalancando gli occhi mostravano la lingua, ora gettavano spaventose imprecazioni, oppure in disaccordo circa una variante del testo, furiosamente, lottavano, si capiva che quel libro doveva contenere terribili segreti.
Un giorno, in assenza dei fratelli, furtivamente frugai nel loro cassetto e avida corsi al quaderno. Era un'opera in vari capitoli dal titolo: Il mondo Marte è cascato.
L'aneddoto ha una chiusa epocale. Dieci righe che, ispirata dalla perfidia di Elsa, non vi rivelo. Come lei dovrete conquistarvi, a rischio dell'incolumità, il segreto di quel quaderno di cinquanta pagine.
Due anni fa, infatti, dopo avere scoperto che Luisa condivideva con noi un folle amore per Le bellissime avventure di Caterina, libro scritto da Elsa Morante a tredici anni (e pubblicato da Einaudi dal 1942 a oggi; da un certo momento in poi col titolo di Le straordinarie avventure di Caterì dalla trecciolina), le chiedemmo di scrivere un post. Dopo qualche riga di preambolo, Luisa scrive:
Non sappiamo granché della sua infanzia romana, passata tra i libri e l’immaginazione. Non sappiamo come vestisse né quale fosse il gusto di gelato preferito. Non sappiamo quale fosse il giocattolo più amato. Sappiamo che amava i gatti e i grandi cappelli, che aveva occhi grandi e lo sguardo severo, che volentieri sorrideva e faceva una smorfia da monella. Si vede bene, nelle foto.
Sappiamo, anche, quale fosse il suo gioco più bello, quello che maggiormente la attraeva e che, con allegria ostinata, praticava: raccontare. Non si vede dalle fotografie ma da un libro.
Oggi, Einaudi per la gioia nostra, e sono certa, di Luisa (anche perché questi “aneddoti” attestano tutto ciò che lei ha osservato), ha pubblicato un libretto imperdibile per chi ama questa scrittrice, ma non solo. Si intitola Aneddoti infantili e lo definisco libretto esclusivamente in relazione al ridotto numero di pagine. Grazie a questo libro per il quale non mi viene in mente altro termine che “miracoloso”, oggi abbiamo accesso all'infanzia romana della scrittrice. Non so se alla realtà di questa infanzia, ma certo al suo mito, che poi è quello che ci interessa, considerato di chi stiamo parlando. E non perché come scrittrice Elsa Morante sia banalmente definibile come tale, ma perché, insieme ad Annamaria Ortese, questa scrittrice, come nessun altro, ha raccontata la narrazione mitica che l'infanzia tesse incessantemente intorno al mondo.
E, detto questo, non aggiungo altro, se non che in modo esemplare la Morante sembra essere appartenuta, fin dai primi istanti di vita, a quel daimon di cui parla James Hillman in Il codice dell'anima, cioè quella figura di destino che dalle origini informa la vita di ogni essere umano e la conduce.
Ho dovuto rileggere più volte il libro per capire quale brano proporre in lettura. Non il più bello, non il più luminoso, non il più commovente, non il più esilarante, non il più arcano. Ma quello, forse, che dà ragione di tutti questi registri. È tratto da Il mondo Marte è cascato.
Viaggiando per la città in tranvai, noi tre fratelli vedevamo ricchissimi palazzi e giardini chiusi da alte cancellate. Decidemmo di impadronircene ed io per prima ne diedi l'esempio. Un giorno, attirata dalla facciata gialla della Manifattura Tabacchi, gridai:
- La Manifattura Tabacchi è mia!
- E il Palazzo degli Esami è mio! - rispose il mio fratello maggiore.
Allora il mio fratello minore, tremando per l'ansia e affannando in fretta in fretta aggiunse:
- Il Colosseo è mio.
Il giorno dopo, il fratello maggiore dichiarò che la piazza del Colosseo gli apparteneva, e questo portò ad una zuffa sanguinosa, perché la piazza comprendeva appunto lo stesso Colosseo, già da un giorno di proprietà del fratello minore. Grazie alla mia mediazione si venne ad un accordo, e fu deciso che il mio fratello maggiore avrebbe restituito la piazza del Colosseo contro la cessione della Piramide di Caio Cestio da parte del mio fratello minore.
Da allora, la nostra dichiarazione di proprietà di ogni palazzo o monumento veniva seguita frettolosamente da una consimile dichiarazione per le piazze e le strade circostanti. Siccome varie zuffe abbero luogo perché spesso accadeva che uno di noi s'impadronisse di un sito e l'altro minaccioso urlasse: «L'ho già detto io», ci avvezzammo ad elencare scrupolosamente in un quadernetto le nostre rispettive proprietà, facendo precedere l'elenco dal disegno di una testa di morto.
Bene. Ma che avvenne quando ci trasferimmo a Tre Ceci, paesello composto di casacce tutte rotte e di bassi pollai? Non ci degnammo neppure di guardarlo. Ma una sera che sopra di noi si apriva nel suo pieno respiro la volta stellata, l'orgoglio di un'idea magnifica mi gonfiò le vene e gridai:
- Il mondo Marte è mio!
- La Luna è mai, - soggiunse subito il mio fratello maggiore.
E il mio fratello minore, pallido per lo sforzo, dichiarò:
- Il Sole è mio.
Così ci impadronimmo pure dell'Orsa e delle principali stelle e pianeti. Ma qui comincia il mio trionfo. Perché se i miei fratelli più svelti e robusti, possedevano un maggior numero di stelle, neppure tutte le loro stelle riunite, dai lunghi nomi cercati sull'Atlante, valevano il mondo di Marte. Pallidi per l'invidia mi udivano magnificare le qualità del possedimento: nel mondo Marte le signore portavano in testa, per cappello, bei giardinetti con piante vere, oppure girandoline che scoppiavano e facevano i fuochi d'artificio; e, al posto della sciarpa, serpenti a sonagli. Nel mondo Marte i cavalli avevano la criniera fatta di fuoco vero, e il cavaliere galoppando si accendeva la pipa. E mica c'erano le automobili, perché la gente aveva un motorino nella pancia, con annesso un fornelletto per cuocere le uova e tutto. E si poteva puntare un semplice dito della destra, e sparare una pallottola come con la pistola. I fratelli cercavano di emularmi, dicendo che nella Luna i gatti comprano il giornale e le guardie dormono dritte in piedi. Ma sì! Ci corre.
Allora i miei fratelli fondarono una società ai miei danni. Con finta indifferenza li vedevo confabulare e lanciarmi occhiate bieche; finché, acquistato un quaderno di cinquanta fogli, si accinsero a un'opera misteriosa. Nessuno poteva conoscerla o gettarvi uno sguardo sia pure distratto; ma dal feroce atteggiamento degli autori, i quali nel compilarla ora arrotavano i denti, ora spalancando gli occhi mostravano la lingua, ora gettavano spaventose imprecazioni, oppure in disaccordo circa una variante del testo, furiosamente, lottavano, si capiva che quel libro doveva contenere terribili segreti.
Un giorno, in assenza dei fratelli, furtivamente frugai nel loro cassetto e avida corsi al quaderno. Era un'opera in vari capitoli dal titolo: Il mondo Marte è cascato.
L'aneddoto ha una chiusa epocale. Dieci righe che, ispirata dalla perfidia di Elsa, non vi rivelo. Come lei dovrete conquistarvi, a rischio dell'incolumità, il segreto di quel quaderno di cinquanta pagine.
1 commento:
Lo doveva avere davvero il daimon. Lascia senza fiato. Grazie per la segnalazione e la scelta del brano.
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