giovedì 24 aprile 2014

Prendersi cura

Una sera, in un paese di mare, cenavo su una terrazza. In basso c'era un piccolo giardino. Due adulti e un bambino stavano finendo la cena, come me. Durante la conversazione al mio tavolo, li seguivo con lo sguardo. Dopo cena hanno chiacchierato, poi hanno sparecchiato. Poi si sono spostati sulle sdraio, mentre il bambino giocava sull'erba. Quando è venuta l'ora della nanna, i genitori si sono alternati a mettere a letto il bambino. Poi di nuovo si sono seduti sulle sdraio, a chiacchierare. Infine, ormai era tardi, hanno riordinato tutto prima del sonno: pulito la tovaglia di plastica, messo le sedie in ordine intorno al tavolo, raccolto i giocattoli sparsi, riposte le cose utilizzate durante la giornata, come probabilmente tutte le sere. Infine, sono entrati in casa, hanno chiuso la porta e dalla persiana ho visto la luce spegnersi. Mentre li osservavo, ho pensato che quei gesti non si spiegassero tanto come incombenza pratica. Ma che la loro ragione più vera fosse legare un ordine individuale a un ordine universale; fossero, cioè, un omaggio al giorno finito e una specie di preghiera rivolta alla notte. Una ricomposizione fra buio e luce. Mi sono apparsi, insomma, come una cosa molto antica. Grazie a quelle due persone, ho avuto l'impressione di capire per la prima volta il concetto di cura. Una necessità di ordine e di senso che molto prima di essere pratica, funzionale, è gratuita e naturale: un bisogno biologico e simbolico. Dopo mi è capitato spesso di pensare a quelle persone.


Ci ho pensato anche mentre guardavo un film che mi è parso molto bello: Ida del regista polacco Pawel Pawlikowski. Protagonista del film è una ragazza giovanissima. Prima di prendere i voti nel convento dove ha sempre abitato, ospitata come orfana, a Ida, interpretata da Agata Trzebuchowska, viene rivelata l'esistenza di una zia che non l'ha mai voluta conoscere (nel film, Agata Kulesza). La madre superiora impone a Ida di andare a trovare questa parente, prima di decidere per sempre della propria vita. Dietro la decisione della zia (importante magistrato e funzionaria di partito) di celare  alla nipote la propria esistenza, si nasconde la volontà di nasconderle le proprie origini ebraiche.


L'incontro fra zia e nipote, nonostante la diffidenza reciproca, crea in entrambe la necessità, non più procrastinabile, di fare luce sulla storia di famiglia. Ristabilire la verità coincide in questo caso con il ripercorrere, tappa dopo tappa, gli eventi della storia di famiglia, per ricomporne l'ordine corretto da cui possa emergere la verità. Per entrambe tale ricerca si configura come una prova, anzi, la prova. Il coraggio di affrontarla viene a entrambe dalla necessità di portare a termine il compito, biologico e simbolico, della verità. Perché anche in questo caso, la possibilità di ricomporre un ordine, che qui coincide con quello dei fatti che consentono di accedere alla verità, la preghiera da rivolgere per ritrovare il senso di sé e delle cose, avviene attraverso gesti di cura.


Nella scena più tremenda, che non descrivo perché questo film, sebbene non sia un thriller, va visto senza conoscerne i dettagli, i gesti delle due donne sono contrassegnati dall'infinito affetto che, anche in circostanze durissime, ha “il prendersi cura di”. Un affetto che riesce a rammendare anche le lacerazioni prodotte da una violenza che appare immedicabile. Nella storia di Ida, questi gesti sfidano il tabù e il terrore della morte, e pertanto qui la potenza di un gesto di cura assurge al suo pieno significato che è quello di riparazione del tessuto della vita stessa e della sua radice. Un gesto che è personale e impersonale al tempo stesso.


All'inizio del film, vediamo Ida, in convento, concentrata nel restaurare la testa di una malandata statua di Cristo. I suoi gesti sono precisi, esatti, il suo sguardo è concentrato, attento. Sono gesti e sguardi rigorosi e al tempo stesso amorosissimi. Senza quel tirocinio alla cura, attraverso la pratica dell'attenzione e del gesto, si ha l'impressione che questa giovanissima non avrebbe potuto affrontare i fatti, seppelliti in un silenzio infame, di cui il suo destino è la conseguenza. Un destino che torna nelle sue mani grazie a un gesto coraggioso, preciso, attento, esattamente come quello di un appassionato restauratore.




4 commenti:

lisa ha detto...

"L'assistenza è un'arte; e se deve essere realizzata come un'arte, richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano il tempio dello spirito di Dio.
È una delle Belle Arti.
Anzi, la più bella delle Arti Belle." Florence Nightingale

joanna (asia) concejo ha detto...

j'ai vu ce film, il est juste bouleversant ...

Topipittori ha detto...

Grazie Joanna. E grazie Lisa, questa frase della Nightingale sembra davvero fatta per questo film.

claire garralon, le blog ha detto...

Je l'ai vu aussi, magnifique !