lunedì 16 giugno 2014

Un paese di umanisti

Classe di violinisti del Sistema Abreu, Venezuela.
La scorsa settimana su la Repubblica è uscito un articolo di Marco Lodoli intitolato: Addio cultura umanista. 
Per i ragazzi non ha senso. Così inizia:

Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all'atto, alla maieutica e all'iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all'idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.

È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. […]

La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. […]

Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili... Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

Classe del Sistema Abreu, Venezuela.

È vero quel che dice Lodoli, che noi adulti non dobbiamo solo rimproverare i ragazzi perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan, e invece capire "assolutamente dove stanno andando." 
Ma è vero anche, e prima di tutto, che guardandoli, dobbiamo renderci conto di tutte le cose che gli abbiamo impedito di essere, di fare, di sapere, di amare, tutto quel che gli abbiamo sottratto. E tenercelo anche bene a mente. Perché i fallimenti vanno guardati in faccia o si rischia di auto assolversi sotto una pretesa apertura mentale.

È del tutto incomprensibile che in Italia, ultimo paese in Europa per investimenti in cultura si pensi di attribuire a una sorta di mutazione genetica/culturale (peraltro non chiarita né sufficientemente argomentata) l'impossibilità di una relazione fra nuove generazioni e cultura umanistica. Addebitare ai ragazzi l'enormità di questo fatto è ingiusto, scorretto e gravemente fuorviante.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Nell'ottobre 2013, una indagine OCSE sui cittadini dai 16 ai 45 anni, ha segnalato che i “gli italiani sono in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio”.  Si parla, con questo, del fenomeno dell'analfabetismo funzionale, termine che designa "l'incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana". Spiega un articolo di la Repubblica: “Non importa, in altre parole, se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l'uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire anche attraverso le tecnologie digitali. Nell'ultima classifica stilata dall'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e diffusi oggi dall'Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all'ultimo posto. Ci piazziamo in fondo alla classica - ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.” Il Messico, tanto per capirci, ha una dato migliore del nostro. I buoni piazzamenti dell'Italia nelle classifiche mondiali non finiscono più: siamo, come è noto, fra gli ultimi in Europa per consumi culturali (con tassi di lettura imbarazzanti); ci piazziamo benissimo per dispersione scolastica e il rendimento scolastico non è dei migliori, nonostante si passino in classe più ore rispetto agli altri paesi europei; i bambini italiani sono i più a rischio obesità in Europa, ma hanno l'offerta di canali tv più ampia. Ci si chiede, allora, su che basi si fondi l'educazione, in Italia. Forse, prima di stabilire se ai ragazzi interessi o no la cultura umanista, qualcuno dovrebbe preoccuparsi di fargliela conoscere seraiamente.

José Antonio Abreu.

Se nel nostro Paese si è  interrotta la trasmissione del sapere è perché la relazione che lo permetteva, negli ultimi decenni, è clamorosamente saltata. E questo è un fatto emintemente politico. Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni, in questi mesi, in questi giorni, è legato: degrado culturale, sociale e politico, corruzione. La scuola, le insegnanti, i genitori sono solo tasselli in un quadro che nessuno più osa mettere a fuoco perché tutti vi sono implicati. Da decenni l'Italia ha smesso di occuparsi seriamente di educazione e cultura; da decenni scuole, università, biblioteche, teatri, musei, si vedono tagliare fondi, in uno stillicidio che li costringe a un declino, a una agonia inarrestabili e senza via di scampo. In questo senso, addebitare ai ragazzi la caduta della cultura umanistica, e come un fatto ineluttabile, non ha alcun senso. Perché questa generazione è stata la prima vittima delle conseguenze nefaste del degrado profondissimo e senza rete della società italiana.

Nei giorni in cui è uscito l'articolo di Lodoli, su Radio 3 Rai ho ascoltato una intervista a Helmut Falloni che nel 2006, insieme a Francesco Merini, ha girato il film L'altra voce della musica. In viaggio con Claudio Abbado fra Caracas e l'Avana. Il film documenta i viaggi che Claudio Abbado ha compiuto nel 2005 e nel 2006 in Venezuela e Cuba, per collaborare a El Sistema, ovvero al celebre progetto musicale di José Antonio Abreu (la voce Wikipedia, lo spiega nel dettaglio e ne consigliamo la lettura). Il Venezuela è un paese dove più di un terzo della popolazione vive sotto alla soglia della povertà ed uno dei paesi più difficili del mondo, con tassi di violenza altissimi. Caracas è la città più pericolosa del continente latino americano, con circa 100 morti per arma da fuoco per fine settimana.

Trent'anni fa, nel 1975, in questo paese, José Antonio Abreu, economista, musicista, ex ministro della cultura, ha creato un sistema orchestrale che opera in tutto il paese e che  conta, oggi, 100 orchestre giovanili e 90 orchestre infantili. Grazie a questo sistema, 240 mila bambini e ragazzi, fra poveri e poverissimi, hanno imparato a suonare, salvandosi dalla strada, dalla violenza, dalla droga. Ed entro il 2015 si prevede saranno 500 mila. Nel corso dell'intervista, nel film, Abreu spiega che in Venezuela la cultura è sempre appartenuta a una élite, e che alla base del suo progetto c'è l'idea di fare di questa, invece, un patrimonio di tutti, perché solo in questo modo è possibile incidere sulla realtà e sulla società, per trasformarle: "Il mio sogno" spiega, "è un paese di artisti, un paese di umanisti, un paese in cui i valori dell'uomo e i valori superiori dello spirito ispirano l'azione individuale e collettiva.”

Il film, che dura un'ora, riporta uno dei progetti educativi più straordinari degli ultimi decenni. Vi consigliamo di trovare il tempo per guardarlo, per il suo valore di testimonianza. Spiega uno dei molti ragazzi intervistati, nato nel Barrio Valle, zona di Caracas in cui nessuno estraneo si avventura, se non accompagnato: “La musica mi ha fatto crescere e maturare rapidamente.” E Abbado, poco più avanti, non diversamente, racconta di essere rimasto folgorato dalla musica, a sette anni, alla Scala, ascoltando i notturni di Debussy. Tornato a casa, scrisse sul suo diario: “Un giorno cercherò di realizzare questa magia.”
Aver fiducia nei ragazzi e nei bambini significa, anzitutto, sapere che sono in possesso di risorse infinite di intuito, intelligenza, sensibilità, e per questo in grado di scegliere fin da piccolissimi la loro strada. Ma la possibilità di intraprendere questa strada dipende dagli adulti. Sono loro, oggi come ieri, a dover creare le condizioni affinché questo possa accadere, a tutti i livelli: individuale, sociale e politico.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Abbado, nel documentario, parlando del progetto di Abreu al quale ha collaborato con passione, osserva che in paesi più ricchi del Venzuela, ma con sacche di povertà e violenza, progetti simili non si fanno. Dicendolo, sorride: allude, ma non rivela a chi si stia riferendo. Forse, chissà, anche all'Italia.
Una cosa è certa: guardando questo film, ascoltando i tanti ragazzi e musicisti che vi sono, e vi sono stati, coinvolti (e oggi, a loro volta, diventati insegnanti di musica), risulta chiarissimo che significhi l'espressione dare una educazione. In primo luogo assumersene la responsabilità. Come dice a chiare lettere Claudio Abbado: "Questo non è solo un fatto culturale, è un fatto sociale: aiutare i giovani ad avere quello a cui hanno dirittto tutti."
Buona visione.


1 commento:

Benedetta ha detto...

Grazie. Innanzitutto come umanista, perché talvolta mi chiedo a cosa sia servito fare il liceo classico e poi lettere, e scoprire di poter essere un tramite anche solo per qualcuno, verso un mondo che a me ha dato moltissima gioia mi riempie di orgoglio.Perché la qualità propria dell'umanesimo è di essere vitale e vivo, non statico e polveroso, pertanto non smette di aver qualcosa da dire, pur nella distanza dall'oggi, essendo più un modo di pensare che un pensiero.
Grazie perché difendete uno sguardo profondamente rispettoso sull'infanzia e l'educazione dei ragazzi, che hanno diritto e bisogno di qualcuno che li consideri capaci di grandi cose, che peraltro è il primo passo per realizzarle.
Come mamma, mi auguro che i miei figli trovino persone capaci di rispondere alle loro grandi domande e curiosità, non con risposte finite e chiuse, ma con altre domande e curiosità perchè non smettano di camminare, cercare risposte, fare domande.