lunedì 3 novembre 2014

Il posto più comodo che io conoscessi

Pixar Studios, Emeryville, California.

Durante la settimana a San Francisco, ho avuto l'occasione, davvero unica, di visitare gli studi della Pixar. Due o tre anni fa, avevo visto la bella mostra itinerante allestita da Pixar, permettendo a milioni di curiosi e ammiratori di farsi un quadro più preciso di cosa vi sia dietro il lavoro che ha generato alcuni dei più bei film d'animazione degli ultimi venticinque anni.
Ricordo che, in quella circostanza, mentre guardavo le centinaia di bozzetti, studi, animazioni, disegni, prove, sfondi, schizzi, sculture, tutti uno più perfetto dell'altro, i quali dichiaravano chiaramente il talento e l'intelligenza di chi li aveva creati, leggendo a uno a uno i nomi e cognomi di coloro che li avevano realizzati, pensai che era incredibile che creativi di quel livello avessero subordinato il proprio lavoro all'opera collettiva.

Luxo Junior, la cellula embrionale di Pixar, suo simbolo.

Perché sì, alla fine queste persone sono anonime, il loro lavoro scompare nel corpo dell'opera (come è accaduto per esempio agli scalpellini della cattedrali romaniche e gotiche, questo me lo ha fatto notare mia sorella, qualche giorno fa, dicendomi che la mostra Pixar, a suo tempo, le aveva fatto venire in mente le botteghe degli artisti  medioevali). Ecco, girovagando per i luminosi, silenziosi ed eleganti (secondo l'estetica di Steve Jobs) edifici della Pixar, la mia impressione è stata la stessa. Un luogo dove tutti sono al servizio di un progetto che è il punto d'arrivo, e il compimento, del lavoro dei singoli.

Pixar Studios, atrio.

Devo dire che, come editrice, e come autrice, abituata come sono ad avere a che fare con le individualità dei singoli autori, questo mi colpisce molto. Perché sì, certo, lo diciamo sempre: il libro illustrato è un'opera collettiva, e lo è davvero perché è il lavoro di tutti che lo costruisce (autore, illustratore, grafico, editore, tipografo, fotolitista, distributore, libraio, bibliotecario, lettore), ma in fin dei conti quando il libro esce è prima di tutto l'opera dell'illustratore che lo firma e, solo in seconda battuta dell'autore e poi di tutti gli altri. Questo nella percezione di gran parte del pubblico e dei lettori. Invece, di un film Pixar, provare per credere, nessuno conosce nemmeno il nome dell'artefice assoluto del film, e cioè il regista.

Robert Kondo, digital, 2003.
Dominique Louis, layout by Harley Jessup, 2002, pastel.

Cercate di farvi venire in mente, senza il supporto di Wikipedia, i nomi dei registi che hanno firmato Toy Story 1, 2 e 3, Wall-e, Up, Ratatouille, Monsters, Cars, The Incredibles etc. A meno che non siate fanatici di animazione, vi accorgerete che in memoria vi è rimasto solo il titolo del film, la storia che racconta, i suoi personaggi e il marchio Pixar. Tutto il resto non esiste. Un po' come l'Odissea e l'Iliade attribuite a Omero, nome dietro il quale probabilmente, come è noto, sta la schiera anonima di rapsodi e aedi che per centinaia di anni cantarono le gesta di dei ed eroi. Del resto basta leggere queste parole di Edwin Catmull, uno dei fondatori della Pixar con Steve Jobs e John Lasseter, per capire chiaramente lo spirito dell'impresa (il brano è contenuto nel volume edito da Sperling & Kupfer Verso la creatività e oltre. La lezione della Fabbrica dei Sogni, 2014).

Harley Jessup, layout by Jason Katz, digital over storyboard.
Dominique Louis, lighting studies, 2004, digital.

Insomma, questo modo di lavorare, questa impresa ultra contemporanea, le cui possibilità narrative stanno oltre che nel meglio della creatività disponibile, in tecnologie raffinatissime e in costante evoluzione, è, da un certo punto di vista, un ritorno all'antico, a quell'epoca remota in cui esisteva unicamente l'opera creata da una comunità nella quale i singoli individui scomparivano, poiché l'idea di opera come risultato di specifiche individualità autoriali era ancora di là da venire. A mio avviso questo aspetto è molto interessante, soprattutto riflettendo, fra le altre cose, su quanto la rete ci costringa sempre più a una condivisione costante dei contenuti intellettuali, e su quanto i network abbiano messo in crisi il concetto di diritto d'autore.

The art of Ratatouille, Harley Jessup, layout by Enrico Casarosa, 2004, digital.
Jason Deamer, 2002, pencil.

Alla fine del giro alla Pixar, visto che già non ero stata abbastanza fortunata da visitare gli studi, consumare un buon pranzo a una mensa accogliente e chiacchierare con persone molto simpatiche, mi è stato regalato un libro. Anzi, fra quelli disponibili ho anche potuto scegliere. Ho optato per The art of Ratatouille di Karen Paik. E non solo perché topo chiama Topi, ma perché insieme a Toy Story (di cui, fra l'altro, Paolo Canton e io curammo l'edizione italiana del libro, decenni fa), e a Wall-e, questo è il film Pixar che più mi è piaciuto, in assoluto (regista e sceneggiatore è Brad Bird, ma l'idea originale del film è di Jan Pinkava, co-regista).

Dominique Louis, layout by Harley Jessup, 2002, pastel.
The art of Ratatouille, a destra, Harley Jessup, layout by Enrico Casarosa, 2005,
digital; a sinistra, storyboard, Mark Cachuela, sopra; Enrico Casarosa, sotto.

Se ne nel film i nomi dei creatori scompaiono (o, meglio, appaiono rapidissamamente nei titoli di coda) nel libro ogni contributo è riportato con dovizia di riflessioni, immagini, schizzi e quant'altro. Mentre ammiravo i lavori di disegnatori, coloristi, animatori, scenografi eccetera che hanno creato la storia di Remy, topo parigino che sogna di diventare il più grande chef del mondo, la mia attenzione si è soffermata su una riflessione firmata dal set designer Robert Kondo.

The art of Ratatouille, a sinistra Harley Jessup, 2002, pencil
and marker; a destra, Robert Kondo, 2004, digital, pencil.
The art of Ratatouille, a sinistra e destra,  Robert Kondo, 2004, digital,
pen and marker; a destra, Dominique Louis, digital paint over set render.

Sono molto felice che Pixar abbia riservato tempo e un’attenzione speciale ai piccoli dettagli, perfino al pavimento della cucina. Abbiamo appena modificato il reticolato del pavimento di piastrelle in modo che queste fossero leggermente irregolari, l’effetto ombra poi ha fatto sì che sembrasse consumato in modo non uniforme, come un pavimento reale. Certo, questo è solo un pavimento, ma, essendo i ratti i protagonisti del film, l’avremmo avuto spesso sotto gli occhi. Se non avessimo dedicato tutto quel tempo a ricreare il pavimento nel modo giusto, quelle linee e quelle superfici perfettamente dritte avrebbero catapultato lo spettatore fuori dal mondo [di Ratatouille ndr], avrebbero vanificato tutto il lavoro che avevamo fatto per cercare di dare una personalità ai fornelli e a tutto il resto della cucina.

Dominique Louis, 2005, digital paint over set render.
Ben Cooper, Lighting studies.

Mi sono detta: chi mai, guardando Ratatouille, si mette a pensare al pavimento? Nessuno. Quello che accade sullo schermo è così coinvolgente, appassionante che il pavimento è l'ultima delle preoccupazioni dello spettatore. Eppure Robert Kondo ha perfettamente ragione: in questa storia il pavimento non è un dettaglio, perché questa è la storia di un topo e per un topo un pavimento è l'ambiente su cui trascorre gran parte del proprio tempo. Così come, per esempio, e guarda caso, lo è per un bambino molto piccolo. Se fate mente locale, e fate uno sforzo di memoria, scoprirete che sì, in effetti, quando si è piccoli, un pavimento è una cosa molto prossima, e con la quale, infatti, si ha grande confidenza.



Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente il brano, letto tempo fa, di un grande architetto austriaco, Richard Neutra, vissuto in America, in particolare in California, regione in cui si concentra gran parte del suo lavoro. Neutra fu, insieme ad altri, fra i quali Frank Lloyd Wright, un pioniere dell'architettura organica, corrente che predicò il ritorno all'armonia fra uomo e natura, e si batté per la creazione di un nuovo equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale attraverso l'integrazione di elementi artificiali umani e naturali. In un saggio famoso, Survival through Design, ovvero Progettare per sopravvivere, Neutra scrive alcune cose sul ruolo delle superfici negli edifici, a partire proprio dalla percezione del pavimento che aveva da bambino.

The art of Ratatouille, studi di Linguini di Dan Lee, Kristophe Vergne,
Enrico Casarosa, Peter Sohn, Sharon Calahan, 2003-2006.

Ecco, rileggendole, mi è sembrato che queste parole, che vi riporto di seguito, echeggino in Ratatouille, non solo nelle immagini dei pavimenti, ma in tutta la storia di questo topo anticonformista, e nel suo modo di vedere il mondo degli umani. In fondo, alla base del grande sogno di Remy, come in quello di Neutra, c'è proprio la lingua, ovvero il senso del gusto, come “esigentissimo strumento di investigazione” delle cose. Perché sì, lo sappiamo tutti, è a quell'epoca strana della vita in cui i pavimenti ci sono vicinissimi che si forma in noi l'equipaggiamento indispensabile per il futuro che ci attende.

The art of Ratatouille, a sinistra Robert Kondo, 2006, ink
and pencil; a destra, Harley Jessup, 2004, digital and pencil.

Agli albori della vita noi passiamo molto tempo sul pavimento, alla maniera perplessa e curiosa dei bambini. A due o tre anni io mi accoccolavo sul parquet dell’appartamento dei miei, a scrutare le fibre scrostate e scheggiate del legno consunto e le assicelle sformate. Le fessure interstiziali erano piene di una sostanza compatta che mi piaceva scavare con le dita. Per gli adulti il pavimento è lontano. Se loro si fossero fermati a esaminare ciò che estraevo da questo quieto ripostiglio delle giunture di parquet, l’avrebbero chiamato sporcizia. Con un opportuno ingrandimento al microscopio ci si sarebbe accorti che era un mondo pullulante di microbi. Io lo saggiavo con l’inveterata prova dell’infante – me lo mettevo in bocca e lo trovavo “non buono”.
Per strano che possa sembrare, le mie impressioni in fatto di architettura furono in gran parte gustative. Leccavo la carta da parati prossima al mio guanciale, ruvida come cartasciugante, e l’ottone lustro della mia credenzina giocattolo. Dovette essere proprio allora che nacque in me una preferenza inconsapevole per le superfici impeccabilmente lisce, collaudabili dalla lingua, questo esigentissimo strumento di investigazione tattile, e per la pavimentazione dalle giunture meno sconnesse e dalla superficie più elastica. Mi ricordo che semisvestito o nudo com’ero, percepivo in modo sgradevole la superficie su cui sedevo e mi muovevo.
Fu pure allora che provai per la prima volta la sensazione di un’altezza torreggiante alzando gli occhi alla cimasa intagliata di un canterano vittoriano. Mi fece un’impressione più forte e paurosa che non, più tardi, le colonne gigantesche su cui poggiano le volte del Duomo di Milano o il tetto del Tempio di Luxor.
L’idea di alloggio si collega nella mia mente a una sensazione che si radicò in me in quei giorni. Il soffitto del nostro salotto era troppo alto, e così ero solito mettermi a giocare seduto sotto il pianoforte a coda. Il poco spazio che lì sotto il piano mi lasciava in altezza mi forniva il posto più comodo che io conoscessi. Molte simpatie e antipatie dovettero prendere forma nel bambino che ero, come succede a ogni bambino. Di notte c’erano spazi bui, inaccessibili, misteriosi – come quella zona di paura dietro il divanetto a due posti tappezzato di verde oliva e collocato di traverso contro un angolo. Al ricordo ne rabbrividisco ancora. E ancora aborro lo spreco di spazio dietro i mobili.
Quelle molte esperienze infantili mi insegnarono mute lezioni sull’apprezzamento di spazio, valori tattili, luce ed ombra, odore dei tappeti, calore del legno e freschezza del focolare di pietra sito davanti alla nostra stufa di cucina.
Più tardi, le nostre lezioni universitarie sull’architettura non accennarono mai ad esperienze sensorie così basilari, o al sottile rapporto che intercorre fra le strutture fisiche e il comportamento nervoso dell’uomo. Sentii parlare molto, però, di buon gusto e bellezza. La cosiddetta bellezza era un’astrazione logora che non sollecitava in me nessun progresso di comprensione, e il cosiddetto gusto era un termine vago senza significati ben definiti. Entrambi sembravano concepiti come se si potesse semplicemente aggiungerli a ciò che altrimenti era soltanto “pratico”. C’era un sapore di lusso inessenziale in questo “supplemento” di “gusto e bellezza”.
Il nostro ambiente esige una valutazione più integrata, specie quella sua parte cruciale che l’uomo stesso costruisce e continua a ricostruire di epoca in epoca.


(brano tratto da: Richard Neutra, Progettare per sopravvivere, Edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 22-24. Ed. originale Survival through Design, Oxford University Press, New York 1954).

Richard Neutra, Wise House, Los Angeles, California, 1957.

[Grazie a Elisabetta e Guido che hanno reso possibile la visita alla Pixar.]

3 commenti:

gianlorenzo ingrami ha detto...

un articolo bellissimo, grazie

Unknown ha detto...

A me piace quest'idea che il prodotto finale siaopera di tutti e che non debbano evidensiarsi meriti individualistici, rende l'idea di comunità, di bene comune.
In editoria sui libri illustrati è citato il nome dell'autore e dell'illustratore, ma mancano il senso di appartenenza ad un gruppo a un'azienda a un'opera ed otterranno anche trattamenti garantiti dal nome della società che un libero professionista non avrà mai.Anche la cessione dei diritti d'autore per infiniti modi di pubblicare carta web supporti multimediali e per tempi infiniti lo ritengo un'abitudine piuttosto discutibile.

roberta ha detto...

hai tutta la mia grande invidia......che giornata unica deve essere stata!! wooow..che bello!