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lunedì 21 novembre 2011

Qualche lampo nello sguardo

La prima illustrazione di Joanna Concejo che ho visto è stata sulla home page del premio Calabria incantata. Raffigurava alcuni personaggi fiabeschi che si riparavano sotto ombrelli-fiore. Mi conquistò. Siccome mancava il nome dell'autore, mi chiesi a chi appartenesse quella mano straordinaria. Certamente, mi dissi, a un autore affermato e noto. Per curiosità, mandai una mail agli organizzatori del Premio per saperne qualcosa di più. Sei mesi dopo, quando ormai mi ero scordata di aver inviato il messaggio, il gentilissimo professor Riccardo del Sordo, inarrestabile bibliotecario e organizzatore del concorso, scusandosi per il ritardo, rispose, spiegandomi chi fosse Joanna Concejo, dove vivesse e mi inviò i suoi recapiti (grazie ancora, professore!).

Eravamo sconcertati, incuriositi da questa illustratrice così brava, e volevamo metterci in contatto con lei. Quando finalmente la conoscemmo, fummo sorpresi di sapere che non aveva ancora pubblicato nulla. Le chiedemmo subito se avesse voglia di collaborare con noi. E lei, per nostra fortuna, accettò. Nacque così il primo libro insieme: Il signor Nessuno. A questo seguì L'angelo delle scarpe, e, questa primavera, I cigni selvatici. Ricordo bene il giorno in cui ci arrivarono da Parigi gli originali del Signor Nessuno, che fino a quel momento avevamo solo visto sullo schermo del computer.
Rimanemmo, letteralmente, senza parole.

Joanna è una illustratrice, e una persona, disponibile, umile, gentile, educatissima, e insieme seria, rigorosa, esigente, severa. Ogni libro per lei è una prova a cui disporsi con impegno totale. Nel corso della lavorazione di ogni libro ci sono puntualmente arrivati da Parigi quaderni pieni di appunti, disegni, prove, bozzetti, studi. Una quantità di materiale da valutare con minuziosa attenzione, a testimonianza di un lavoro enorme condotto sul testo e sulle sue possibili interpretazioni visive. E ogni libro, infatti, grazie a questo lavoro meticoloso, ha portato cambiamenti nel suo punto di vista, nello stile, nel linguaggio adottato. Un ricerca sempre tormentosa e difficile.

Spesso ci siamo chiesti come una persona dotata di un talento simile potesse nutrire tanti dubbi sulla strada da prendere. Ma aveva sempre ragione lei, con i suoi dubbi e le sue riflessioni, naturalmente. Ne sono prova i libri che ha fatto, che non si ripetono mai e puntano sempre, coraggiosamente, in direzioni inesplorate.

Una stella nel buio di Lucia Tumiati e Joanna Concejo.
L'ultimo che le abbiamo proposto e a cui ha lavorato per parte del 2010 e del 2011, Una stella nel buio, che uscirà nel 2012, con un testo splendido, e complesso, di Lucia Tumiati, ci ha di nuovo sorpresi, perché Joanna ha scelto, per l'ennesima volta, nella coerenza della sua visione, una strada nuova e imprevedibile.

Una stella nel buio di Lucia Tumiati e Joanna Concejo.
Una stella nel buio di Lucia Tumiati e Joanna Concejo.
Una stella nel buio di Lucia Tumiati e Joanna Concejo.
Una stella nel buio di Lucia Tumiati e Joanna Concejo.
L'eclettismo di Joanna, la sua voglia di sperimentare, indagare, si rivelano anche nell'attività di ceramista che pratica accanto all'illustrazione. L'anno scorso a Parigi, di questi tempi, siamo andati a vedere la sua prima mostra di ceramiche, che ci sono piaciute moltissimo: purtroppo erano gli ultimi giorni e tutto era già stato precipitosamente acquistato dai molti visitatori.

Ho comprato, però, una collanina a cui sono molto affezionata e che per me ha qualche influenza magica, e infatti sento di poter portare solo in occasioni adeguate. Quest'anno, però, considerato il successo dell'anno scorso, la mostra si ripete: ha appena inaugurato, il 17 novembre, al Petit Atelier de Paris. Quindi se siete da quelle parti, non perdetevela e, se potete, stanziate un budget, da investire in queste meraviglie.

Quando si va a visitare il blog di Joanna, si scoprono, oltre alle ceramiche, anche molti altri manufatti. Piccole cose deliziose, come sghembi centrini (o anche vestitini per pere) all'uncinetto, tessuti disegnati, ricami dall'aria ingenua...

Ho l'impressione che in questi oggetti fiabeschi serpeggi il vivo senso dell'umorismo, il piacere di divertirsi, di pasticciare con la bellezza e la ricchezza del visibile nelle sue molte forme, che questa nordica signora pratica con grande discrezione, lasciandoli di tanto in tanto trasparire da qualche lampo nello sguardo, altrimenti sempre così attento, concentrato e serio.


martedì 15 febbraio 2011

I cigni selvatici arrivano in libreria

Hans Christian Andersen, come è noto, ha scritto fiabe meravigliose e terribili. Di questo, e di quanto il lato oscuro che affronta nelle sue storie sia importante per crescere, per imparare a distinguere il bene dal male, abbiamo trattato nel post, L'importanza di farsi spaventare, riportando una magnifica pagina di Wisława Szymborska.
Quando abbiamo pensato che Joanna Concejo sarebbe stata una illustratrice perfetta per una fiaba di Andersen, la scelta è caduta su I cigni selvatici, forse una delle storie più strazianti dello scrittore danese, per la sofferenza attraversata, in un silenzio inaccessibile, dalla sua protagonista, Elisa. Ma anche una delle storie più affascinanti. A cominciare dalle prime righe che qui riportiamo nella splendida traduzione di Maria Giacobbe di cui abbiamo parlato nel post L'infanzia di Maria: righe perfette, fulminanti nel prefigurare l'altezza e lo splendore da cui i protagonisti cadranno a precipizio verso un destino misterioso, insondabile, oscuro, fino al luminoso e liberatorio epilogo.











Queste sono le prime quattordici pagine. Se vi hanno fatto venire voglia di sfogliarlo tutto, da oggi il libro è disponibile in vendita sul nostro sito e, a brevissimo, nelle migliori librerie.

venerdì 3 dicembre 2010

L'infanzia di Maria

Per la nostra edizione de I cigni selvatici, di Hans Christian Andersen, con illustrazioni di Joanna Concejo, abbiamo potuto contare su una traduttrice d'eccezione: Maria Giacobbe.
Abbiamo conosciuto i libri di questa scrittrice, un'estate, durante una vacanza in Sardegna, sua terra d'origine. In una libreria ci imbattemmo in  Il diario di una maestrina (Il Maestrale, 2003) in cui la Giacobbe ripercorre le tappe della sua storia personale, di bambina e adolescente, in una famiglia colta, borghese e antifascista, durante il ventennio, quindi la scelta di diventare maestra e le prime esperienze di insegnamento in una Sardegna poverissima, legata a una cultura arcaica e in una situazione di grave emergenza economico-sociale. Un libro bellissimo che, nel 1957, quando uscì, ebbe molta risonanza e vinse numerosi premi. Un libro che ha molto ancora da dire, anche in relazione al rapporto fra ragazzi e insegnanti, scuola e società, didattica e cultura d'appartenenza.
Il tema della propria infanzia Maria Giacobbe lo approfondisce anche in una altro libro, Maschere e angeli nudi. Ritratto di un'infanzia  (Il Maestrale, 1999), davvero straordinario per la capacità di penetrare la dimensione infantile, restituendone la complessità, la difficoltà, lo spessore, la ricchezza immaginativa e intellettuale, il suo porsi come condizione “aliena”, fuori da qualsiasi schema, convenzione, cliché (sarebbe stato un bellissimo Anni in tasca...).
Le pagine che varrebbe la pena di estrapolare, per dare un saggio della qualità del libro, scritto in una lingua scarna, severa e insieme immaginifica, sono numerosissime. La scelta è ardua.
Ci siamo decisi per quelle che danno l'avvio al capitolo “Malaria”. Ringraziamo Maria Giacobbe e le edizioni Il Maestrale per averci data la possibilità di pubblicarle.
Da molti anni Maria Giacobbe vive in Danimarca, paese di cui conosce perfettamente la lingua. Quando ci si è posto il problema della traduzione de I cigni selvatici, ci siamo detti che nessuno avrebbe assolto meglio di lei il compito di restituire ai bambini la meraviglia di questa fiaba. Maria ha accolto la nostra proposta con interesse, disponibilità, curiosità, prestandosi generosamente alla prova. Per giudicare il risultato, però, dovrete aspettare il 15 febbraio 2011.

    Come la scuola, la morte, le campane, il fascismo, anche la febbre, la malaria, il chinino facevano dunque parte della vita. Della vita quotidiana. Normale.
    Come il vento che gridava dietro le imposte con la voce dei morti che premevano per tornare negli spazi che erano stati loro e che noi, i vivi, indebitamente gli contendevamo, occupandoli.
    Come la notte senza luce, senza sonno e con tanti ululati di cani fantasmi che s'incrociavano nel buio.
    Come l'inverno, la pioggia, le blatte, il freddo, la polizia, l'esattore delle imposte, il collettore del comune, certi adulti che non mi piacevano o che mi facevano paura, certe bambine che ero obbligata a frequentare e mi annoiavano, certi angeli spioni che forse c'erano forse non c'erano ma che in ogni caso disturbavano, come le macchie repulsive di salsa e vino sulla tovaglia, le file di escrementi e di immondizie in certi vicoli che ero costretta a percorrere, e tante altre cose ripugnanti o fastidiose che per qualche infernale motivo esistevano ed ero costretta ad accettare come inevitabili.

    Sinché c'erano. E ogni volta che si ripresentavano. La febbre. La malaria. Il chinino. Erano spiacevoli. E anche molto. Molto spiacevoli. Ma non bisognava esagerare. Non bisognava mai esagerare. Se possibile. Quando era possibile. Questo l'avevo imparato. Non bisognava mai esagerare.

Gustave Doré, "La Divina Commedia", Inferno, Canto V
    La febbre, quando finalmente arrivava, era quasi gradevole e liberatoria. Affondavo in essa come in un nido caldo, dopo la tempesta di freddo furioso che l'aveva preceduta.

    Ai primi brividi lunghi che partivano dalla nuca e scendevano per la spina dorsale, invadendo petto e visceri, ne seguivano altri sempre più frequenti e caotici che partivano contemporaneamente da ogni zona e fibra del corpo scuotendolo e gettandolo in ogni direzione allo stesso tempo, minandone ogni connessione e cardine.


    Il corpo era un'accozzaglia disordinata di ossicini che tendevano a disgregarsi sotto spinte e attrazioni contrastanti, in preda a forze centrifughe e centripete che si combattevano nell'intento di smembrarlo e disperderlo ai quattro venti.
    Un intersecarsi disordinato e rapidissimo di correnti gelide vi si combattevano, contendendoselo, tirandolo, abbandonandolo, gettandolo da altezze vertiginose in abissi bianchi e profondissimi dai quali altre correnti irresistibili lo facevano emergere, separandolo dal cuore.
    Che restava duro, nero, solitario, in un luogo lontano, isolato, dove il suo battito era come una pesante campana il cui tocco arrivava grigio e sordo attraverso la bufera.
    Insieme al dolore fisico, alla nausea, ai conati di vomito, ma ancora più terribile, c'era la certezza panica che ciò non avrebbe mai avuto termine. Che quella lotta cosmica fra gli elementi che si scontravano nel mio corpo sarebbe durata per sempre. Non c'era più in tutto l'universo un solo punto fermo nel quale almeno per un momento il corpo potesse trovare rifugio e riposo.


William Blake, "La Divina Commedia", Inferno, Canto V
    Un giorno, in una edizione della Divina Commedia illustrata dal Doré, che arrivava in fascicoli in casa di nonna, avevo visto un disegno che rappresentava un vortice di corpi umani distorti e torturati da un vento che li trascinava come foglie aspirate e sbattute da un gigantesco mulinello. Compitai il verso che, tra due virgolette e con tre puntini da ogni parte, ne faceva da didascalia: “la bufera infernal che mai non resta”, e subito ebbi la certezza che era lì, nella “bufera infernal che mai non resta” che mi trovavo duranti i miei accessi di malaria.

venerdì 5 novembre 2010

L'importanza di farsi spaventare

Letture facoltative (Adelphi, 2006) è uno di quei libri per i quali vale la pena, se ancora non lo si è letto, di mettersi su in fretta e in furia il cappotto con sotto il pigiama, se ancora non ci si è vestiti, per correre alla prima libreria vicino a casa ad acquistarlo. L'ha scritto un Nobel per la letteratura, Wisława Szymborska: il meno pomposo, saccente e trombone Nobel della storia, in compenso la più ironica, lieve e sferzante voce che si possa immaginare. La signora Szymborska ha il dono di dire cose che accendono la testa come un salone delle feste, illuminato da centomila cristalli. Basti dire che Letture facoltative è una raccolta di recensioni su libri marginali, inutili, frivoli, popolari, pratici, cioè libri rigorosamente non “nobili” (ed è sufficiente soffermarsi sull'idea di recensire libri così, per intuirne la  genialità).

Siccome a questo genere di libri, nella concezione corrente di letteratura non nobile, appartengono anche quelli destinati ai bambini (persino le Fiabe di Andersen), ecco che la Szymborska, su tale argomento, ha scritto una pagina fondamentale. Si intitola L'importanza di farsi spaventare. Eccola qui.

A uno scrittore dall'immaginazione piuttosto sbrigliata proposero di scrivere qualcosa per i bambini. «Benissimo,» si rallegrò «avevo giusto in mente un raccontino con una strega». Le signore della casa editrice cominciarono a gesticolare agitate: «No, le streghe no, per carità! Non si devono spaventare i bambini!» «E i giocattoli nei negozi?» domandò lo scrittore. «Come la mettiamo con quegli orsacchiotti strabici di peluche viola?» Quanto a me, sono di un diverso avviso. 


I bambini amano essere spaventati dalle favole. Hanno un naturale bisogno di sperimentare emozioni forti. Andersen atterriva i bambini, ma nessuno di loro, una volta diventato grande, gliene ha mai voluto. Le sue splendide favole sono piene di creature soprannaturali, senza contare gli animali parlanti e i secchi dal pronto eloquio. Non tutti i membri di questa confraternita sono cordiali e innocui. Il personaggio che ricorre con maggiore frequenza è la morte, figura implacabile che irrompe all'improvviso nel cuore della felicità, portandosi via i migliori, i più amati. 

Andersen prendeva i bambini sul serio. Non parlava loro soltanto della radiosa avventura della vita, ma anche di disgrazie, sventure e sconfitte non sempre meritate. Le sue favole, popolate di creature immaginarie, sono più realistiche di quintali di odierna letteratura per l'infanzia, così ansiosa di risultare verisimile da sfuggire gli incantesimi come la peste. Andersen aveva il coraggio di scrivere favole con un finale triste. Riteneva che non si debba cercare di essere buoni  per un tornaconto (proprio quello che i raccontini moralistici di oggi si ostinano a divulgare, e che non sempre, in questo mondo, corrisponde a verità), ma perché la cattiveria è frutto di un limite intellettuale ed emotivo, l'unica forma di miseria da cui tenersi alla larga. Ed è ridicola, quant'è ridicola! Andersen non sarebbe stato il grande scrittore che fu senza un senso dell'umorismo che spaziava dall'indulgenza al dileggio. E non sarebbe stato nemmeno un grande moralista, se si fosse limitato a incarnare i buoni sentimenti. No, aveva i suoi capricci, le sue debolezze e nella vita di ogni giorno poteva essere un tipo insopportabile. 

Pare che Dickens rendesse grazie al cielo il giorno in cui Andersen si recò a fargli visita e fu sistemato in una cameretta piena di fiori in segno di benvenuto. Ma poi arrivò a fare altrettanto anche il giorno in cui l'ospite ripartì alla volta della nebbiosa Copenhagen. 





E noi che credevamo che due scrittori per tanti versi simili avrebbero dovuto rimanere a fissarsi negli occhi fino alla morte! Beh, pazienza.

(trad. Valentina Parisi)

(Qui sopra, nel testo, le tavole delle illustrazioni di Joanna Concejo per I cigni selvatici di Andersen, che pubblicheremo a gennaio)