mercoledì 25 novembre 2015

Cosa potete trovare a un mercatino di Topi

Come prima cosa, a un mercatino di Topi troverete dei topi.

Quando li troverete?
Domenica, 13 dicembre.

A che ora li troverete?
 Dalle 10 alle 19.

Dove li troverete?
A Milano, in viale Isonzo 16, citofono n.7.
(fermata Lodi linea gialla, comodissima).

Ma dicevamo dei topi.
Ne troverete parecchi.






Per esempio, troverete il topo che cucina le uova
quello con il piede sinistro più grosso del destro
quello con la coda storta
quello con il cappello
quello che non sa le lingue straniere
quello di cattivo umore
quello con la macchia nera sulla pancia
quello che odia la moquette
quello che non si ricorda i nomi degli attori
quello che coltiva l'orto
quello che studia da avvocato
quello che vuole andare a vivere in un tubo
quello così così.


E questo solo per cominciare.
Poi ne troverete altri 33 che ballano la polka.


16 impegnati a giocare a carte.


27 in coda per acquistare i famosi stivali antipioggia del dottor Knapp.


88 con la giacca a quadretti.
E 144 in autobus.


In mezzo a tutti questi topi, cercando un pochino, troverete anche un bel po' di libri (oltre ai famosi stivali antipioggia del dottor Knapp): tutti quelli del nostro catalogo, che sono suppergiù 130.
Quindi, qualcuno che vi piace c'è di sicuro.

Vi piaceranno ancora di più perché c'è anche lo sconto.
E perché ci sono un bel po' di libri acciaccati che costano solo 5,00 euro cadauno.
Alcuni sono acciaccati forte, altri sono solo acciaccatini.
Quelli acciaccatini sono un affarone. Ma anche gli altri lo sono, a modo loro.

Poi cercando bene bene, ma proprio molto bene, con molta attenzione, con un po' di fortuna troverete anche noi, che siamo topi ma anche pittori.
E cioè me, Giovanna Zoboli, e Lisa Topi (che non è un topo, beninteso; è che Lisa di cognome si chiama davvero così, anche se può sembrare bizzarro). Paolo Canton ci raggiungerà più tardi, arrivando in volo con le renne.

Infine, sempre che tutti quei topi e quei libri vi lascino un minuto per salutarci, noi saremo lieti di ricambiare e scambiare con voi quattro chiacchiere.

Come da tradizione, in tutto questo, ci saranno tè e biscotti.


Venite, perché per Natale i libri più belli, quelli che irradiano più calore, si trovano qui.
E anche i Topi più belli sono qui, ovvio.

Riassumendo:
Domenica 13 dicembre, dalle 10 alle 19,
a Milano, in viale Isonzo 16, citofono n.7,
(fermata Lodi, linea gialla, comodissima)
a casa dei Topipittori
c'è un fantastico mercatino di Natale.

Vi aspettiamo.

[Tutte le immagini di questo post sono di Lisa D'Andrea, per Il topo che non c'era, testo di Giovanna Zoboli]


lunedì 23 novembre 2015

"Gli Altri" e il gioco delle differenze e dell’alterità

[di Christophe Meunier]


Ciò che si pone, si oppone in quanto si distingue e niente è se stesso senza essere altro dal resto. (Marc Augé)

L’Altro, il non-io, colui che mi assomiglia ma non è me: una tematica affascinante proposta da Topipittori nel marzo del 2014 e ben presto tradotta in francese dalle edizioni Cambourakis, ad agosto dello stesso anno. L’albo è destinato ai bambini dai cinque anni in su e descrive la diversità delle persone viste attraverso gli occhi di una bambina.

Sulla copertina, molto colorata, si vedono alcune silhouette di profilo, volti e gambe disegnati all’acquerello, la cui tecnica consente di sovrapporre e mescolare i colori. In maniera programmatica, gli altri sono loro: questa diversità di volti, piedi e gambe delle figure che incrociamo nella nostra vita. Il frontespizio riprende questa idea della diversità riproducendo, sotto il titolo, un gruppo di persone in cerchio, dai colori diversi. Tra loro si distingue una figurina dal viso sorridente: è la narratrice del libro.

Risguardo iniziale
Ci sono altre tavole che considero significative e programmatiche. Per esempio, il risguardo iniziale e quello finale. In mezzo alla folla eterogenea, due bambini sembrano scambiarsi qualcosa: la ragazzina in verde che ci guarda mentre tiene un uccellino giallo sulle dita e un ragazzino in blu con il quale sembra conversare. Benché la diversità sia onnipresente nei colori, nei gesti, nelle età e nelle sagome, qui appare un’idea nuova: lo scambio. A me piace vederci quella sfumatura che il filosofo Emmanuel Lévinas ha introdotto negli anni Settanta tra diversità e alterità. In una relazione di alterità, riconosciamo l’altro nella sua differenza, tanto culturale quanto religiosa, ma, ciò che più conta, stabiliamo un impegno reciproco che Lévinas definisce una responsabilità reciproca.

Risguardo finale.
In questo articolo, che essenzialmente verterà sull’analisi socio-spaziale dell’albo, vorrei, da una parte, osservare ciò che fa di questo albo una vera opera editoriale, che contribuisce alla creazione di un prodotto culturale socio-spaziale. Dall’altra parte, mostrare come la narrazione iconico-testuale porti il lettore a considerare la diversità come alterità nel senso in cui la intende Lévinas. Infine, vorrei concludere con uno studio della rappresentazione dei luoghi dell’alterità in questo albo e i loro diversi status.

1. L’albo: luogo d’incontro tra Roma e Caracas

Sul blog della casa editrice, il direttore artitstico, Giovanna Zoboli, racconta le circostanze in cui è nato l’albo e di come la casa editrice Topipittori, fondata nel 2004, sia stata il cuore della sua produzione. Racconta di aver ricevuto, per prima cosa, il testo firmato da Susanna Mattiangeli. L’autrice, nata a Roma nel 1971, afferma che il testo de Gli Altri fa parte di una piccola serie di testi da lei scritti sul tema dell’alterità, alla quale appartiene anche Come funziona la maestra.

L’idea de Gli Altri è venuta a Susanna Mattiangeli guardando la gente in spiaggia: Ho scritto il primo abbozzo del testo per l’albo Gli Altri sulla spiaggia, guardandomi intorno. Al mare osservi tranquillamente pance e sederi di persone sconosciute, li confronti tra loro, puoi anche vedere gente che studia dettagli di altra gente con interesse scientifico. È uno di quei posti in cui, volendo, puoi soffermarti sul particolare minimo dell’unghia dell’alluce di una signora oppure avere un’intera folla nel campo visivo senza bisogno di spostarti troppo. 

Il testo arriva dunque 'nudo' sulla scrivania dell’editore, pronto per essere illustrato da un illustratore o un’illustratrice. L’editore ammette di aver riflettuto a lungo prima di capire chi avrebbe potuto illustrarlo. La lampadina si accese per caso quando Giovanna Zoboli scoprì da un’amica un disegno raffigurante una caotica scena di vita urbana. L’opera era di un’artista venezuelana nata a Caracas, Cristina Sitja Rubio, ma che vive e lavora tra Berlino e Barcellona.

È allora che inizia il lavoro di icono-testualizzazione orchestrato dal direttore artitisco, che chiede a Cristina Sitja Rubio di creare una prima maquette dove è ben visibile ciò che il suo occhio era riuscito a cogliere: la vita urbana e il suo caos. In seguito, l'editore, Paolo Canton, chiede a Lorenza Natarella, grafica e fumettista, di mettere in scena il testo, cioè di tagliarlo e di ripartirlo in ogni doppia pagina. Lorenza sceglie la scrittura a mano di Anna Martinucci come nell’esempio di tavola I (pagine 10-11), che riporta il testo:
Se esci per strada, a une certo punto arrivano sempre. Hanno molte teste, molti piedi, molti odori. Hanno corpi di tutti i tipi, con molti vestiti, pochi e anche nessuno. Sembra non ce ne sianno due davvero identici. Ma è difficile vederli tutti insieme, porché sono cosi tanti.

Prima bozza della tavola

Realizzata la maquette, Cristina Sitja Rubio manda la prima bozza di una tavola la cui scena si svolge in una strada. L’attenzione è portata verso una ragazzina che, da un passaggio pedonale, saluta il lettore con la mano.

Tavola definitiva
Nella tavola definitiva l’obiettivo non è più stretto intorno alla narratrice. Si tratta di un piano largo e obliquo su un incrocio urbano. La strada è affollata e la narratrice non è più presentata in modo esplicito al lettore: gli unici indicatori della sua identità si troveranno nel risguardo e nel frontespizio. In questo modo durante tutta la lettura, la narratrice può confondersi con il lettore potenziale o con chiunque altro. Lo scorcio sulla casa, sulla parte sinistra della storia, è rimasto. Si vede la ragazzina uscire.

Lorenza Natarella sceglie di dividere il testo in tre blocchi. Il primo, situato sul muro della casa della ragazzina, fa eco alla scena mostrata sotto: se esci per strada. Gli altri due blocchi formano una V con il primo, suggerendo al lettore di esplorare la tavola e sorvolare la folla e la diversità. L’ultimo blocco, collocato all’estremità destra della tavola, invita a voltare pagina. Si può altresì notare il doppio percorso iconico e verbale: l’uno che parte dall’alto dell’immagine e segue la ragazzina mentre passa dal proprio spazio personale a quello pubblico; l’altro che parte dal basso. I due si uniscono nel punto in cui si gira la pagina.

Organizzazione grafica della tavola I
Com’è evidente, il rapporto tra il testo e l’immagine è molto stretto, interdipendente. Il lavoro editoriale ha avuto qui una parte preponderante nel mettere in relazione diversi collaboratori che hanno accompagnato il lavoro dell’autrice e dell’illustratrice. Sarebbe interessante conoscere la natura e il numero di scambi che ci sono stati tra l’editore e l’illustratrice così come tra l’illustratrice e l’autrice (sempre che ce ne siano stati).

2. Dalla differenza all’alterità

Concentriamoci ora sulla strutturazione dell’albo (cfr. figura xx). Il racconto iconico-testuale è composto da tredici tavole. La tavola VII (pp. 34-35) funge da punto di svolta del racconto dividendolo in due parti: la prima sull’esperienza della differenza e la seconda sull’esperienza dell’alterità.

Schema della suddivisione delle tavole
- L’esperienza della differenza (tavole da I a VI)

Nelle prime sei tavole, la narratrice prende atto della pluralità (tavole I e VI) e della diversità (tavole II, III, IV, V): gli altri sono molto numerosi e molto diversi.  Il testo della prima tavola inizialmente pone l’accento su ciò che Ricoeur definisce i caratteri della mêmeté [dal francese même, lo stesso, e soi-même, il sé. Letteralmente, medesimezza NdT]. Gli altri possiedono delle qualità fisiche che li avvicinano a noi, che fanno sì che ci assomigliamo. La molteplicità degli individui determina altresì che ciò che ci accomuna ci separa: si direbbe che non ce ne siano mai due uguali.

Tavola II
Autrui est visage (l’altro è un volto) scriveva Lévinas e non è un caso che le autrici insistano, tanto nella narrazione iconica quanto in quella testuale, sulla diversità fisica: Ce ne sono con le trecce o con i ricci, senza capelli, con la sciarpa, col bastone. L’allusione del filosofo al volto si riferisce allo stesso tempo alle differenze fisiche che distinguono a priori il dagli altri; ma anche alla principale interfaccia che permette di stabilire un contatto tra questo stesso e gli altri. Tornerò su questo punto in un secondo momento.

Dalla tavola V, l’altro è discorso e parola. Gli altri parlano, Si dicono barzellette, storie, bugie, parolacce [...]. Ci sono quelli che parlano difficile e quelli che si raccontano le cose da mangiare. Una volta superato l’impatto del volto, il narratore entra in contatto con il discorso altrui. Tuttavia, sebbene una tappa sia oltrepassata – quella delle prime impressioni – la narratrice rimane sempre dalla parte dell’osservatore.

Tavola V
La tavola V rappresenta una scena dentro la metropolitana. Lo sguardo del lettore è portato irresistibilmente verso una ragazzina seduta con una borsetta rossa tra le mani e degli auricolari. Questo personaggio sembra illuminare tutta la tavola grazie all’aura di colore chiaro che la circonda e alla biondezza dei capelli e dell’incarnato che contrasta con gli altri personaggi. Il presentimento dell’alterità è qui riassunto. La diversità circonda questa ragazzina che, con lo sguardo perso nel vuoto, ha deciso d’ignorarla sottraendosi virtualmente all’ambiente in cui si trova.

Tavola VI
Nella tavola seguente, gli altri diventano persino una minaccia: sono dappertutto. Invadono l’intimità come se potessero spiarci. La scena della tavola VI si svolge in un angolo di strada caratterizzato da una brusca linea di rottura (ad angolo aperto). Da una parte (in basso), alcune persone bisbigliano mentre un ragazzo in blu sembra spiare le loro intime conversazioni. Dall’altra (in alto), degli sconosciuti multicolori, sagome senza volto, passano senza fermarsi, vivono senza preoccuparsi dell’intimità altrui. Come interpretare questa scena? L’opposizione tra la realtà e la percezione individuale? La strada come luogo di scambio e/o di semplice passaggio? Ecco, tutte queste idee appaiono mescolate nella doppia narrazione iconico-testuale.

- La chiave di volta (tavola VII)

La tavola VII spinge ancora più lontano il confronto con l’altro, negli spazi pubblici dell’intimo poiché la scena si svolge in un bagno pubblico. La tavola è tagliata in due parti uguali, separate da una diagonale che distingue i servizi da una parte, nei quali le persone possono isolarsi dagli altri grazie a una porta e a una serratura, la cui spia rossa avvisa l’altro che non può entrare, e dall’altra il vano di accesso, nel quale le persone dello stesso sesso s’incrociano.

Tavola VII
In entrambi i casi, l’accento è posto sulla diffidenza verso l’altro. Se si va in un bagno pubblico bisogna stare attenti a non toccare niente intorno: la promiscuità organizzata spesso ci richiede di entrare in contatto tattile con l’altro. Di fianco ai caratteri della mêmeté che portano ognuno di noi a doversi spostare e ad avere gli stessi bisogni naturali, Mattiangeli evoca quelle piccole differenze che fanno tutta la differenza tra noi e gli altri, ciò che Ricoeur chiama l’ipseità [l’identità dell’essere individuale con sé stesso NdT]. Perché è sicuro gli altri si muovono molto, ma devono fermarsi a farla prima o poi [...] ed è sempre meno bella della nostra.

- L’esperienza dell’alterità (tavole da VIII a XIII)

La tavola VIII propone un paradigma nuovo: e se smettessimo d’ignorarci e di essere diffidenti? [Gli altri] fanno quello che fai tu, ma lo fanno in tanti. E lo fanno a modo loro, che è il modo degli altri. La ripartizione della pagina permette di tornare all’opposizione tra mobilità e immobilità. Al centro della tavola, la luce e le macchie di colore scaturiscono da una strada trafficata. Nel lato sinistro, nel grigiore degli uffici, delle persone lavorano insieme, comunicano (per telefono, su internet, negli spazi di ristoro). Nel lato destro, due individui sono colti nell’intimità delle loro case, che vivono in modi diversi.

Tavola VIII
Da questo momento l’atmosfera cambia. Nella tavola IX, per esempio, sebbene ci sia ancora qualche personaggio in sovrapposizione in primo piano, tutti gli altri personaggi della tavola sono ben distinti e chiaramente identificabili nella loro diversità. L’ampia baia della pizzeria si confonde progressivamente con il blu del mare. Una grande compattezza s’impone tra interno ed esterno. C’è qui uno scambio perpetuo tra gli uni e gli altri: Tutti sanno che queste cose non ci riguardano, perché sono fatti degli altri, infatti ascoltiamo ancora un minuto e poi torniamo subito a farci i fatti nostri.

Tavola IX
La tavola XI si presenta, invece, in opposizione a ciò che ho precedentemente chiamato la chiave di volta dell’albo (la tavola VII). Anche questa immagine è divisa in due da una diagonale: da una parte (a sinistra), uno spazio a compartimenti nel quale i personaggi sono quasi statici; dall’altra (a destra), uno spazio di circolazione vuoto o quasi. Sul marciapiede, i personaggi comunicano attraverso i libri, i giornali, i tablet: Gli altri possono venire da altri paesi, parlare in modo strano e avere strani vestiti [...] Ma ci hanno lasciato un sacco di libri, dipinti, musica, storie e intere città. Ecco ciò che Lévinas avrebbe definito la consapevolezza dell’alterità. In questa relazione c’è impegno reciproco: sono responsabile dell’altro e per l’altro.

Tavola XI
Questa presa di coscienza dell’alterità permette, nell’ultima tavola, di prendere un po’ di distanza, una sorta di distacco riflessivo dal sé come un altro. È una consapevolezza che si acquisisce dall’alto, con uno sguardo diretto verso il basso dove gli altri sono in movimento. Solo se ci stringessimo molto vicini, da un punto lontano del cielo potrebbero vederci tutti quanti in una volta sola, dice il testo. Questo piccolo passo indietro è necessario per affermare che io faccio parte degli altri. La scoperta dell’alterità si è trasformata in un’esperienza identitaria per la narratrice, che dimostra di fare proprio il percorso teorizzato dall’antropologo Marc Augé: alterità, pluralità e identità.

3. I luoghi dell’alterità

Mi piaceva l’idea di rappresentare l’impatto che i luoghi hanno sul nostro modo di percepire gli sconosciuti, le persone di passaggio [...], spiega Susanna Mattiangeli. In effetti l’albo è anche il frutto di una riflessione sullo spazio pubblico, ovvero sui luoghi dell’alterità. Uso qui il termine luogo nel senso in cui lo intende Denis Retaillé. Il geografo distingue il sito dal luogo in questo modo:

Distinguerei dunque chiaramente [...] i luoghi, che sono delle circostanze più o meno durevoli, dai siti che li ospitano.

Così definiti, i luoghi dell’alterità sono gli spazi pubblici nei quali gli scambi interpersonali diventano possibili. Nell’albo, ne troviamo di due tipi: alcuni che richiedono una pratica statica, altri una pratica più dinamica. Attraverso questa distinzione ritroviamo un’opposizione che percorre tutto l’albo e della quale ho già avuto modo di parlare.

Nei luoghi di pratica statica possiamo notare un’ulteriore distinzione tra la staticità formale, come nei musei, ristoranti, bagni pubblici, uffici, spiagge, bar, parchi o librerie, e la staticità informale, per esempio nelle code d’attesa. I luoghi di pratica dinamica corrispondono a quelli che Claude Thiberge chiama gli spazi vuoti [o cavi NdT] della città, come le strade, gli incroci, le piazze. A questi vanno aggiunti i mezzi di trasporto pubblici, soprattutto la metropolitana (cfr. tavola VI), che appartengono alla categoria che io definisco gli spazi tubolari.  
Frontespizio
In tutti questi luoghi, il traffico è più o meno intenso e gli scambi interpersonali diventano possibili se s’innesca un segnale, come un volto che sorride: […] A volte, però, a sorpresa, fai ciao a uno di loro, così, a caso. Qualcuno risponde e sorride, qualcuno no.

L’illustratrice è partita da un concetto di albo denominato libro affollato o brulicante. Questa terminologia rimanda evidentemente al seeking book e al wimmelbuch. Il principio concettuale è l'accumulo di personaggi: consiste nel giocare con la pluralità e la diversità. Qui Cristina Sitja Rubio aggiunge la sovraimpressione grazie alla tecnica dell’acquerello: la trasparenza che lascia intravedere diverse cose che contemporaneamente si sovrappongono.

L’ultima immagine è una vista obliqua su un’area urbana immaginaria e globalizzante che vuole rappresentare tutte le aree urbane del mondo. Vi si trovano spazi vuoti e anche delle sporgenze che rimandano a diverse città del mondo. Si distinguono la torre Eiffel, la Sears Tower (Chicago), la Swiss bank (Londra), i tram gialli di Lisbona ecc. Come indica il loro nome, queste sporgenze sono i soli indicatori che consentono di distinguere dove ci si trova. Gli individui non sono più differenziati e formano un insieme indissociabile chiamato loro.

Ultima tavola
Secondo Marc Augé la rappresentazione che gli altri si fanno dell’altro e degli altri è l’oggetto di ricerca principale dell’antropologia. L’organizzazione dei siti formali o informali, statici o dinamici, nei quali avviene l’incontro con l’altro costituisce il cuore dell’indagine sulla dimensione spaziale del sociale. La presa di coscienza dell’alterità, la trasformazione dei siti in luoghi di scambio interpersonale è una questione altra.

Come dimostrato da Michel Lussault nel capitolo introduttivo di De la lutte des classes à la lutte des places, non basta creare un sito per avere un luogo e, ancora meno, una località. A titolo d’esempio, Michel Lussault cita la finta hall di un edificio costruita nel quartiere di Graville-la-Vallée a Le Havre nell’agosto del 2007 per ovviare allo stravolgimento delle hall che, da luoghi di passaggio, diventano spesso luoghi di sosta. Risultato dell’operazione: la hall fu vandalizzata, incendiata e dismessa definitivamente tre mesi dopo la sua installazione!

Quale altro messaggio ci trasmette questo albo? Lo stesso messaggio. Esistono nelle aree urbane tanti siti quanti sono gli spazi in cui s’incrociano, si mescolano gli individui. E in questa confusione piena zeppa di volti, chi nota colui che ci sorride e cerca di stabilire un contatto, chi cerca lo scambio? Il lavoro di Susanna Mattiangeli, di Cristina Sitja Rubio e della casa editrice Topipittori contiene una vera e propria intenzionalità socio-spaziale che conduce il bambino dalla presa di coscienza della diversità e della pluralità alla scoperta dell’alterità. Non esistono soluzioni preconfezionate per la gestione degli spazi pubblici, ma piste possono aprirsi. Al bambino il compito di costruirle.

venerdì 20 novembre 2015

C'era una storia che inizia

Stupinigi, Casino di caccia, Filippo Juvarra, 1729-1733.
Capita, e non di rado, che istituzioni o aziende decidano di produrre un libro per comunicare ai loro o utenti o clienti qualcosa che ritengono importante, qualcosa, come si suol dire in gergo, di “strategico”. Non di rado questo libro è destinato ai bambini. È una bella cosa che aziende e istituzioni, di solito molto disinteressate, nel nostro Paese, ai libri e alla cultura, quando vogliono dare lustro ai loro messaggi pensino a un libro. Significa, probabilmente, che i libri, nonostante tutto, continuano a mantenere una nobiltà che altri media non hanno né hanno mai avuto. Ed è una bella cosa che aziende e istituzioni ogni tanto pensino ai bambini che, come i libri, rappresentano una parte nobile di quello che ci sta intorno. Quindi, di entrambe le cose non ci si può che rallegrare.


E tuttavia molte di queste iniziative tradiscono presupposti, obiettivi e promesse, perché sono affidate a professionisti inadeguati, privi delle competenze necessarie in ambito editoriale, grafico e letterario, per affrontare un libro e in particolare un libro illustrato per bambini. Diventano allora, queste edizioni, occasioni sprecate e mancate, perché idee e risorse preziose vengono disperse in oggetti poco nobili e per niente all'altezza dei destinatari.


Non è detto, tuttavia, che questo debba capitare per forza. Ci sono aziende e istituzioni che sanno attuare scelte serie e pubblicare buoni libri, degni di finire nelle mani di un bambino.
Recentemente ci è capitato in mano un libro veramente bello, realizzato su commissione e nato all'interno di un progetto istituzionale. Si intitola Fritz. La storia di Fritz elefante a Stupinigi ed è nato dalla collaborazione di Federico Novaro, Christel Martinod e Stefano Olivari. La ragione per cui ci ha conquistato, letteralmente, al primo sguardo è la evidente qualità del progetto, che risalta  in immagini deliziose e in una storia scritta magnificamente. Un oggetto ben meditato e realizzato che ha il merito di risolvere con eleganza e senza forzature la necessità di divulgare un contenuto storico con la costruzione di una storia per parole e immagini, compito per nulla scontato come ben sa chi fa il nostro lavoro.
Per queste ragioni abbiamo chiesto agli ideatori e autori di Fritz di rispondere a qualche domanda. Li ringraziamo per le risposte che ci hanno dato.


Sulla copertina del libro non si leggono i nomi degli autori, al loro posto c'è scritto:
Stupinigi Fertile. Ci spiegate cosa significa questa indicazione?

Stefano: Stupinigi Fertile è il nome di un progetto di valorizzazione territoriale che ha vinto nel 2013 un bando indetto dalla Compagnia di San Paolo. Al centro del progetto erano le aree agricole di Stupinigi: il parco, i poderi e le cascine, oggetto di eventi artistici e una serie di azioni di marketing territoriale e sviluppo locale. I nomi degli autori non compaiono quindi in copertina di Fritz e degli altri tre volumi prodotti a significare la loro appartenenza al progetto generale, che è pluriautoriale.
[Stupinigi è una frazione del comune di Nichelino, alla periferia di Torino. È famosa per la Palazzina di caccia, capolavoro settecentesco di Filippo Juvarra, con annesso parco naturale, ndr]


Come viene l'idea di un libro nell'ambito di un progetto per la valorizzazione del patrimonio rurale e agricolo del sistema territoriale?

Stefano: Stupinigi fertile aveva tra le sue modalità progettuali la collaborazione con gli abitanti per sviluppare contenuti e obiettivi del progetto. Questa è una delle quattro pubblicazioni prodotte e che raccolgono memorie, esperienze e immaginari degli stupinigesi. Fritz, destinato ad essere distribuito ad ogni bambini delle scuole elementari di Nichelino (di cui Stupinigi è frazione) è stato immaginato con l’intento di far scoprire anche ai più piccoli un luogo straordinario e la sua storia.


La prima cosa che si legge, in Fritz, dopo la copertina è questa frase: C'era una storia che inizia. Come è iniziata la storia di questo libro?

La storia inizia con Daniela Maino, abitante dei poderi, che ci ha mostrato una sua versione della storia di Fritz, un elefante vissuto nel serraglio di Stupinigi tra il 1827 e il 1852. Da qui l’idea di Stefano di affidarne la cura a Christel e Federico per trasformarla in una pubblicazione.

Solo all'interno del libro, nel colophon, si trovano scritti i nomi degli autori: rielaborazione testi di Federico Novaro; grafica e illustrazioni di Christel Martinod. Avevate mai fatto un libro per ragazzi, prima di Fritz?

Federico e Christel: No, pur lavorando spesso a progetti comuni, questa è la prima volta che ci proviamo nel rivolgerci a un pubblico di bambini.


Formato, carta, colori, caratteri, corpo eccetera: ci spiegate le ragioni delle scelte tecniche che avete fatto?

Federico e Christel: Sin dall’inizio l’abbiamo pensato, coerentemente con le altre pubblicazioni, più che come un libro, come un quaderno. Il formato orizzontale richiama gli album da disegno, così come le carte, che sono porose e opache, cartoncino per la copertina e carta 120gr per le pagine. La scelta del cartoncino, colorato, e della carta interna, avoriata, è dettata dalla coerenza con le altre pubblicazioni di Stupinigi Fertile, così come il carattere, un Garamond regular. Abbiamo scelto di usare il carattere in tre corpi diversi a indicare i tre toni e livelli della storia (titoli, racconto e istruzioni pratiche). Riguardo la stampa abbiamo scelto di usare il ciano come unico colore, oltre al nero, sia per un’ottimizzazione dei costi sia per lasciare maggior libertà agli interventi di chi legge.




Fritz oltre a raccontare, propone ai lettori attività di disegno, ritaglio, osservazione. La cosa bella è che i giochi proposti servono anche narrativamente, a fare procedere la storia. Cosa vi ha spinto a optare per la formula del libro-gioco?

Federico e Christel: Pensato come quaderno o album il libro diventa uno strumento di lavoro personale, sui cui il lettore possa intervenire attivamente e appropriarsi così dello svolgimento della storia. Ci divertiva l’idea che la storia fosse in qualche modo solo suggerita e che noi fossimo più che narratori accompagnatori. Il libro è stato concepito operativamente come un progetto in tre fasi autonome e condivise. Prima Federico ha stabilito il testo, poi insieme abbiamo disegnato uno storyboard molto dettagliato, sulla base del quale Christel ha realizzato le illustrazioni e impaginato il testo. Il tutto è avvenuto fra continui confronti, discussioni, mi piace / non mi piace e ansie per i tempi strettissimi (un mese, a causa di una improvvisa scadenza istituzionale).




La storia di Fritz prende spunto da una storia vera. In che relazione ti sei posto, scrivendola, con i contenuti storici della vicenda?

Federico: È stato un po’ complicato muoversi fra fedeltà al dato storico e esigenze narrative: ci rivolgevamo a un pubblico fra i 6 e gli 11 anni e questo ci ha indotto a alcune omissioni. In Fritz per esempio raccontiamo la morte di uno dei due protagonisti, Stefano, il guardiano di Fritz, e ne abbiamo fatto il centro emotivo del racconto, ma abbiamo omesso che in seguito il vero Fritz uccise il guardiano chiamato a sostituire il suo amato Stefano. Nella realtà Fritz fu quindi abbattuto e poi, imbalsamato, esposto al Museo di Scienze Naturali; noi abbiamo sublimato la sua morte in un volontario esilio: tre morti in un libro per bambini di 45 pagine ci sono sembrate un po’ troppe. D’altra parte invece tutti i dati storici, già presenti nella versione di Maino, sono esatti.



Il tuo testo è veramente bello. Ha ritmo, grazia, eleganza e sapienza narrativa. Come sei arrivato a questo risultato? Cosa ti ha affascinato e cosa ti interessava raccontare di Fritz?

Federico (arrossendo): Mi sono mosso fra due punti: da una parte ho considerato il mio un lavoro di servizio: bisognava rispettare il testo da cui si partiva -del quale abbiamo tenuto soprattutto l’idea della cadenza in capitoli brevissimi- e renderlo adatto ai fini indicati da Stefano per Stupinigi Fertile, dall’altra ho cercato di fare emergere il rapporto emotivamente fortissimo fra Stefano e Fritz, la sua messa in scena come racconto pubblico, mi piaceva nascondere sotto l’aspetto di un libro-gioco, strumento di un progetto di marketing, dei toni quasi melò, che senza dirlo alludessero all’amore, all’amicizia, che travalicano le vite stesse dei personaggi. Un libro che forse non piacerebbe al Sindaco di Venezia.



Le tue immagini, Christel, entrano a pieno titolo nella tradizione dei grafici che un certo punto si trovano alle prese con le illustrazioni di un libro illustrato per i bambini e, visibilmente, ci si divertono molto: Paul Rand, Bruno Munari, Fredun Shapur e molti altri. Cosa ti ha interessato visivamente di questa vicenda, e cosa hai deciso di mettere al centro della tua narrazione visiva?

Christel (terribilmente imbarazzata): Io non sono una illustratrice, sono in effetti una grafica a cui è capitato di dover fare delle illustrazioni. Sono partita da una scelta già presente nel lavoro di Maino: l’uso della silhouette, che ho interpretato senza mai usare linee curve,  che caratterizzano la silhouette settecentesca. Questo sia per un gusto e un’affinità personale sia per tentare di evocare quella che potrebbe essere una silhouette ritagliata da un bambino. Altra scelta che caratterizza Fritz è che ogni doppia pagina è stata pensata come episodio a sé, frazionando la storia in una successione di episodi autoconclusivi che permettono una lettura anche molto frammentata e un trattamento visivo nettamente grafico. Avendo avuto totale libertà da parte di Stefano ho potuto così seguire interamente quello che mi piace: pulizia, uso delle campiture, bidimensionalità, geometrie. Che per fortuna sono le cose che piacciono anche a Federico.


 
Quale sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato, realizzando queste illustrazioni?


Christel: Il vero unico ostacolo è stato quello iniziale: come diventare illustratrice e con quale chiave visuale? Ho pensato che la giusta strada fosse di non abdicare al mio mestiere, e tradurre graficamente i testi, evocando più che narrando. Una volta trovata questa chiave e stabilite le linee guida con lo storyboard, è stato molto spontaneo e divertente comporre le illustrazioni.



mercoledì 18 novembre 2015

Tuo Cip

Cari Lettori del nostro blog,
ogni tanto i nostri autori si innamorano di libri fatti da altri nostri autori. E allora ci scrivono su una riflessione, e ce la mandano. E allora noi rispondiamo: «Che bella questa recensione! Che ne dici se la pubblichiamo sul nostro blog?» 
«Ok, va bene, ciao, grazie».
Ecco, volevamo dirvi che va proprio così, anche se magari non ci credete. Questa volta è stata Silvia Vecchini a innamorarsi.
Vostri
Topipittori


[di Silvia Vecchini]

Mi sono innamorata di questo libro.
Si tratta di Una lettera per Leo di Sergio Ruzzier.

Le figure dei protagonisti sembrano muoversi nello sfondo lontano che si intravede in dipinti o affreschi medievali. Montagne, alberi spogli, cieli luminosi. Ma anche il gioco delle bocce, una cucina.


La storia intreccia due grandi desideri che appartengono fortemente al pensiero dei bambini. Uno ben conosciuto e molto frequentato: trovare un cucciolo.
L’altro meno abituale e quasi dimenticato: ricevere posta per sé.
Tanti bambini chiedono, implorano un cucciolo da tenere. Tanti, ricevendo una risposta negativa o un rimandare in eterno per tante e buone e ragioni, sognano di trovarne uno per caso e dargli rifugio.


E che grande sorpresa si apre sul viso di un bambino nel ricevere una lettera, una cartolina, un pacchetto con scritto il proprio nome sullo spazio riservato al destinatario!
Lo raccontava Phillippe Delerm in Che bello fare i compiti sul tavolo della cucina e altri minuscoli piaceri (Salani) dove racconta anche il piacere di un bambino abbonato a un mensile:

Ed è proprio quel giorno che il giornale ci attende, un po’ nascosto nella cassetta dai volantini pubblicitari, ma noi riconosciamo subito l’angolino che spunta. Questo è il momento migliore. Assaporiamo la piccola etichetta con nostro nome e indirizzo battuti a macchina, come se fossimo un personaggio ufficiale.


Mi piacciono le lettere. Da bambina ho avuto più di un amico di penna (e ho avuto un cane tardi passando prima per galline, papere, conigli).
Da grande ho continuato a scrivere lettere e a riceverne.
Una volta scrissi una breve poesia su una lettera non arrivata.

Uguale a me, obliqua
la pioggia sbianca. Te
e la tua pazienza sbatterei
come la porta di casa
rientrando – nella furia
di consumare anche questo giorno
di posta inutile.



E ho letto con partecipazione le Lettere a Milena di Kafka e anche i suoi Diari in cui a volte condensa in un rigo il senso di un giorno.

19 dicembre: Lettera di F. Bella mattina, calore nel sangue.
20 dicembre. Niente lettere.


E così via.
Il primo regalo di Natale che ho fatto al mio sposo nella nostra minuscola casa è stata la cassetta della posta con i nostri nomi. La distanza minima che avevamo conquistato si misurava anche in quel modo.
Ai nostri figli abbiamo ben presto intestato un abbonamento a una rivista e giochiamo spesso a scriverci bigliettini. Tantissimi sono passati sotto la porta. Botte e risposte. Richieste, scuse, dichiarazioni di amore, prese in giro, quiz.


Beatrice, mia figlia ormai grande, da bambina ha desiderato una corrispondenza e tramite la sua rivista ha trovato un’amica a Torino. L’ha incontrata due anni dopo il primo scambio di lettere. Giovanni al solito è stato più tecnico e ha usato un paio di lettere per protestare: una alla redazione di Topolino quando si accorse che il gioco che stava acquistando a puntate di settimana in settimana non avrebbe mai funzionato. Scrisse che se lo era pagato da solo ed era una delusione il fatto che le batterie non entrassero nell’alloggiamento previsto. La redazione rispose subito e per rimediare mandò il pezzo giusto. Poi c’è stata la volta in cui scrisse al sindaco del nostro comune per dire che a scuola mancava un’aula per la musica e le ore d’informatica. Il sindaco gli rispose sul quotidiano locale promettendo un ampliamento di cui adesso beneficia Teresa.
Ecco, Teresa. La più piccola. Ha otto anni e la sua Amica (vuol dire proprio quella lì, quella del cuore, l’amica-amica) da un paio di anni si è trasferita. In questi giorni compie gli anni e abbiamo pensato di regalarle Una lettera per Leo. E tante bustine e biglietti per la corrispondenza così potranno scriversi.


È bello scrivere e ricevere lettere. Ed è vero che non si fa praticamente più ma in questo modo si perde un’esperienza fecondissima che anche nell’albo è raccontata nelle pagine che precedono il finale. È quella dell’attesa. Franco Lorenzoni nel suo libro I bambini pensano grande (Sellerio) racconta alcune esperienze fatte in classe utilizzando questo strumento. Poi afferma:

Scrivere lettere da mettere dentro buste da affrancare e spedire per posta nel tempo di Internet può sembrare un paradosso. Infatti pochi di loro sanno cosa sia un francobollo e nessuno ha mai ricevuto una lettera. Eppure, proprio in questo ci vedo una possibilità interessante, perché tra gli aspetti della vita che meno frequentano i bambini di oggi c’è l’attesa: una delle esperienze che la contemporaneità maggiormente svilisce (…). So bene di essere un uomo del secolo passato, ma sono convinto che l’interiorità, per dilatarsi ed espandersi in un ampio respiro ha bisogno di tempo.


Anch’io lo penso. Ed è particolarmente interessante questa dilatazione dell’interiorità grazie a una durata più lunga che permetta ai pensieri di farsi più densi, di innescare connessioni, di lavorare dentro di noi in modo misterioso.
È anche per questo che lettere e cartoline finiscono volentieri nei miei libri e nelle attività di scrittura che propongo ai bambini.

La cosa più commovente dell’albo è proprio la lettera.

Cip,
cip cip cip,
cip cip cip cip.
Tuo,
Cip.


“Tuo” racchiude tutto il senso del messaggio arrivato a Leo e la sostanza della storia.


Scrive Pietro Citati, raccontando la corrispondenza di Kafka a Milena:

Da principio, scrivendole, aveva firmato Franz Kafka, poi solo Franz, e poi solo “tuo”: voleva perdere il nome, gettarlo nella sua ombra, dimenticare la propria identità. Infine scrisse: “Franz sbagliato, F sbagliato, tuo sbagliato, non più, silenzio, bosco profondo”.
Una lettera per Leo è una bellissima, piccola storia, un invito luminoso a prendere carta e penna per scrivere una lettera in cui ci possiamo firmare “Tuo”, un incoraggiamento a provare anche insieme ai bambini l’esperienza antica dell’attesa e dello sbirciare la cassetta della posta.

p.s. Ah, Teresa ringrazia Sergio Ruzzier per il maiale sullo slittino.