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venerdì 5 giugno 2015

La chitarrina rivoluzionaria

[di Giulia Mirandola e Chiara Raffaelli]

Si chiama Chiquitica ed è una piccola chitarra prodotta a bassissimo costo concepita per diffondere l'educazione musicale in Burundi e a Cuba, grazie all'impegno di un musicista italiano e di alcune associazioni di volontariato attive in Italia e in questi paesi stranieri, tra cui l’Associazione Spagnolli-Bazzoni Onlus.




Ho conosciuto la Chiquitica (in spagnolo significa “piccolina”) qualche mese fa, durante un concerto a casa di Chiara Raffaelli. Si tratta di una cosa bella chiamata House concert, una situazione molto conviviale dove i musicisti si esibiscono gratuitamente in casa invece che in uno spazio pubblico, allo scopo di raccogliere fondi per sostenere le spese di produzione di Chiquitica. Il concerto è avvenuto in contemporanea ad altri momenti musicali, ospitati in altre case, volti a promuovere UpDoo World, che è la culla in cui è nata la prima chiquitica.



Ho quindi conosciuto meglio Chiara Raffaelli e Lorenzo Frizzera, per tutti Friz, il musicista cui si deve l'ideazione della piccola chitarra. Tornata a casa mi sono chiesta come poter aiutare il loro progetto a crescere. Ho condiviso da subito le mie riflessioni con Diletta Colombo e Chiara Bottani di Spazio b**k (con le quali mi accade facilmente di dare forma compiuta ai desideri abbozzati).




Il pubblico milanese avrebbe conosciuto Chiquitica sabato, 23 maggio, durante una giornata dedicata alla musica e all'illustrazione. Alla festa per Chiquitica erano presenti anche i Topipittori, che alla fine della serata, emozionati, ci hanno chiesto di scrivere questo post.




A Chiquitica. Giornata di musica e illustrazione hanno partecipato tanti bambini, tanti illustratori, giovani, meno giovani, signore cui piace la musica jazz, genitori di tutte le età, editori, grafici, maestre di yoga, maestri di musica, superottisti, studenti, amici, innamorati. Per un pomeriggio e una serata, Chiquitica ha movimentato Spazio B**K con ospitalità differenti: la Banda Erode diretta da Vincenzo Onida (dove c'era pure un trombone blu elettrico), il chitarrista Lorenzo Frizzera (che ha suonato la Chiquitica illustrata da Maurizio Minoggio), alcuni illustratori cui si deve la realizzazione di una collezione di Chiquitica d'autore, vendute al termine del concerto.




Il ricavato della vendita di Chiquitica servirà a finanziare la produzione di chitarrine destinate a bambini che frequentano la scuola musicale della città di Bujumbura, in Burundi (la prima scuola musicale del paese), e agli studenti dei corsi di musica attivati a Rodas, a Cuba.




La collezione di Chiquitica d'autore è nata chiedendo a 18 illustratori e illustratrici e a 2 bambini e bambine, di disegnare sulla cassa armonica (di cartone) di Chiquitica. Hanno detto sì Guido Scarabottolo, Maurizio Minoggio, Francesca Bazzurro, Claude Marzotto, Vito Manolo Roma, Massimo Caccia, Alice Beniero, Gaetani, Marta Jorio, Anna Resmini, Giulia Orecchia, Emanuela Bussolati, Alicia Baladan, Gaia Stella, Ilaria Faccioli, Arianna Vairo, Pietro Corraini, Emanuela Ligabue, una coppia di fratelli e una bambina di nome Melita.





Lorenzo Frizzera (Friz) ha suonato e raccontato. In alcuni momenti ci siamo un po’ commossi a sentirgli usare certe parole e note. Friz prova a dire perché suoniamo: gli piace la possibilità che un bambino o una persona di ottant’anni che vivono in paesi dove c'è la guerra o la libertà è limitata per motivi politici abbiano pari diritto di imparare a suonare uno strumento musicale. Ricorda che ci sono mille modi di soffrire e che la musica li allontana da questi. Scherza con gli accordi maggiori e invita a tenere una chiquitica sempre a portata di mano: quando siamo nel traffico, quando siamo arrabbiati, quando siamo disperati…. quello è il momento di un RE maggiore.



UpDoo World crede che la musica possa unire e migliorare la vita delle persone. Per promuovere la sua attività e per raccogliere fondi destinati alla produzione di strumenti musicali artigianali a basso costo, si sono attivate energie e persone che insieme crediamo capaci di spostare montagne. Oltre alla programmazione house concert, alla produzione e alla spedizione di chiquitica, UpDoo World è impegnata in altri esperimenti interessanti, tra cui l'organizzazione di banchetti ai concerti, di incontri informativi nelle scuole, di mercatini di strumenti musicali usati. La collezione di Chiquitica d'autore è stata un'esperienza che ci piacerebbe ripetere presto, in altre città e spazi, insieme ad altri disegnatori.






Chiquitica non rimarrà un esperimento isolato. UpDoo World sta lavorando affinché possano nascere accanto alla chitarrina altri strumenti musicali basati sul medesimo concetto: oggetti costruiti in modo artigianale, a basso costo e alta resa acustica, per imparare a suonare il mondo.


sabato 25 aprile 2015

Una mattina, mi son svegliato / 3

Tradizione vuole che il 25 aprile, sul nostro blog, si festeggi così, con una delle canzoni più belle che esistono: Bella ciao.
La storia di Bella ciao affonda la sua storia in luoghi lontani e tradizioni diverse. Nel 2006, un ingegnere, Fausto Giovannardi, a Parigi, scopre per caso un cd: Klezmer. Yiddish swing music, venti brani di varie orchestre. Lo compra, lo ascolta, e in un pezzo riconosce la musica di Bella ciao. Il titolo è Koilen; l'esecutore, Mishka Ziganoff; la registrazione, del 1919. Come il pezzo sia arrivato in Italia non si sa. Alcune ricerche rivelano che Mishka Ziganoff era un ebreo originario dell'est Europa: un Cristian gypsy accordionist, fisarmonicista zingaro cristiano, nato a Odessa, che aprì un ristorante a New York: parlava correttamente l'yiddish e lavorava come musicista klezmer. La canzone Koilen è una versione della canzone yiddish Dus Zekele Koilen.



Giunto misteriosamente in Italia, il motivo divenne celebre in due diverse versioni: come canzone simbolo della Resistenza e come canto di lotta delle mondine. Il testo di quest'ultima versione, scritto nel 1951, si deve a Vasco Scansani su richiesta di Giovanna Daffini, "la voce delle mondariso".  
Bella, ciao divenne inno ufficiale della Resistenza solo vent'anni dopo la fine della guerra. Prima del 1945, secondo recenti studi, a cantarla nelle varsione oggi notissima erano alcuni gruppi di partigiani nel modenese e attorno a Bologna. La Bella ciao partigiana, come spiega Wikipedia, riprendeva nel testo la struttura del canto tradizionale Fior di tomba, e musicalmente e nell'iterazione del ciao un canto infantile diffuso in tutto il nord Italia, La me nòna l'è vecchierella. Un'altra possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento, che mutata leggermente passò in Piemonte con il titolo di La daré d'côla môntagna, e in Trentino, Il fiore di Teresina, poi in Veneto, Stamattina mi sono alzata.
L'innesco della popolarità mondiale di Bella, ciao fu il Primo festival mondiale della gioventù democratica, tenutosi a Praga nell’estate 1947, dove numerosi giovani partigiani emiliani parteciparono alla rassegna canora Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace. Da questo momento la fama di Bella, ciao si è allargata a tutto il mondo, ed è stata assunta nelle più diverse situazioni, a canto di resistenza, come per esempio è avvenuto durante la campagna elettorale di Tsipras e nelle manifestazioni di solidarietà a Charlie Hebdo.
Oggi ve la proponiamo in una strepitosa interpretazione live di Goran Bregovic (Parigi, 2013), in cui Bella, ciao si ricongiunge alle proprie radici balcaniche. Buon 25 aprile a tutti.

(Di Bella ciao, su questo blog, abbiamo scritto qui e qui).
 


Goran Bregovic - Bella Ciao - ( LIVE ) Paris 2013 di black_jack8945


lunedì 16 giugno 2014

Un paese di umanisti

Classe di violinisti del Sistema Abreu, Venezuela.
La scorsa settimana su la Repubblica è uscito un articolo di Marco Lodoli intitolato: Addio cultura umanista. 
Per i ragazzi non ha senso. Così inizia:

Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all'atto, alla maieutica e all'iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all'idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.

È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. […]

La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. […]

Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili... Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

Classe del Sistema Abreu, Venezuela.

È vero quel che dice Lodoli, che noi adulti non dobbiamo solo rimproverare i ragazzi perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan, e invece capire "assolutamente dove stanno andando." 
Ma è vero anche, e prima di tutto, che guardandoli, dobbiamo renderci conto di tutte le cose che gli abbiamo impedito di essere, di fare, di sapere, di amare, tutto quel che gli abbiamo sottratto. E tenercelo anche bene a mente. Perché i fallimenti vanno guardati in faccia o si rischia di auto assolversi sotto una pretesa apertura mentale.

È del tutto incomprensibile che in Italia, ultimo paese in Europa per investimenti in cultura si pensi di attribuire a una sorta di mutazione genetica/culturale (peraltro non chiarita né sufficientemente argomentata) l'impossibilità di una relazione fra nuove generazioni e cultura umanistica. Addebitare ai ragazzi l'enormità di questo fatto è ingiusto, scorretto e gravemente fuorviante.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Nell'ottobre 2013, una indagine OCSE sui cittadini dai 16 ai 45 anni, ha segnalato che i “gli italiani sono in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio”.  Si parla, con questo, del fenomeno dell'analfabetismo funzionale, termine che designa "l'incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana". Spiega un articolo di la Repubblica: “Non importa, in altre parole, se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l'uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire anche attraverso le tecnologie digitali. Nell'ultima classifica stilata dall'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e diffusi oggi dall'Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all'ultimo posto. Ci piazziamo in fondo alla classica - ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.” Il Messico, tanto per capirci, ha una dato migliore del nostro. I buoni piazzamenti dell'Italia nelle classifiche mondiali non finiscono più: siamo, come è noto, fra gli ultimi in Europa per consumi culturali (con tassi di lettura imbarazzanti); ci piazziamo benissimo per dispersione scolastica e il rendimento scolastico non è dei migliori, nonostante si passino in classe più ore rispetto agli altri paesi europei; i bambini italiani sono i più a rischio obesità in Europa, ma hanno l'offerta di canali tv più ampia. Ci si chiede, allora, su che basi si fondi l'educazione, in Italia. Forse, prima di stabilire se ai ragazzi interessi o no la cultura umanista, qualcuno dovrebbe preoccuparsi di fargliela conoscere seraiamente.

José Antonio Abreu.

Se nel nostro Paese si è  interrotta la trasmissione del sapere è perché la relazione che lo permetteva, negli ultimi decenni, è clamorosamente saltata. E questo è un fatto emintemente politico. Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni, in questi mesi, in questi giorni, è legato: degrado culturale, sociale e politico, corruzione. La scuola, le insegnanti, i genitori sono solo tasselli in un quadro che nessuno più osa mettere a fuoco perché tutti vi sono implicati. Da decenni l'Italia ha smesso di occuparsi seriamente di educazione e cultura; da decenni scuole, università, biblioteche, teatri, musei, si vedono tagliare fondi, in uno stillicidio che li costringe a un declino, a una agonia inarrestabili e senza via di scampo. In questo senso, addebitare ai ragazzi la caduta della cultura umanistica, e come un fatto ineluttabile, non ha alcun senso. Perché questa generazione è stata la prima vittima delle conseguenze nefaste del degrado profondissimo e senza rete della società italiana.

Nei giorni in cui è uscito l'articolo di Lodoli, su Radio 3 Rai ho ascoltato una intervista a Helmut Falloni che nel 2006, insieme a Francesco Merini, ha girato il film L'altra voce della musica. In viaggio con Claudio Abbado fra Caracas e l'Avana. Il film documenta i viaggi che Claudio Abbado ha compiuto nel 2005 e nel 2006 in Venezuela e Cuba, per collaborare a El Sistema, ovvero al celebre progetto musicale di José Antonio Abreu (la voce Wikipedia, lo spiega nel dettaglio e ne consigliamo la lettura). Il Venezuela è un paese dove più di un terzo della popolazione vive sotto alla soglia della povertà ed uno dei paesi più difficili del mondo, con tassi di violenza altissimi. Caracas è la città più pericolosa del continente latino americano, con circa 100 morti per arma da fuoco per fine settimana.

Trent'anni fa, nel 1975, in questo paese, José Antonio Abreu, economista, musicista, ex ministro della cultura, ha creato un sistema orchestrale che opera in tutto il paese e che  conta, oggi, 100 orchestre giovanili e 90 orchestre infantili. Grazie a questo sistema, 240 mila bambini e ragazzi, fra poveri e poverissimi, hanno imparato a suonare, salvandosi dalla strada, dalla violenza, dalla droga. Ed entro il 2015 si prevede saranno 500 mila. Nel corso dell'intervista, nel film, Abreu spiega che in Venezuela la cultura è sempre appartenuta a una élite, e che alla base del suo progetto c'è l'idea di fare di questa, invece, un patrimonio di tutti, perché solo in questo modo è possibile incidere sulla realtà e sulla società, per trasformarle: "Il mio sogno" spiega, "è un paese di artisti, un paese di umanisti, un paese in cui i valori dell'uomo e i valori superiori dello spirito ispirano l'azione individuale e collettiva.”

Il film, che dura un'ora, riporta uno dei progetti educativi più straordinari degli ultimi decenni. Vi consigliamo di trovare il tempo per guardarlo, per il suo valore di testimonianza. Spiega uno dei molti ragazzi intervistati, nato nel Barrio Valle, zona di Caracas in cui nessuno estraneo si avventura, se non accompagnato: “La musica mi ha fatto crescere e maturare rapidamente.” E Abbado, poco più avanti, non diversamente, racconta di essere rimasto folgorato dalla musica, a sette anni, alla Scala, ascoltando i notturni di Debussy. Tornato a casa, scrisse sul suo diario: “Un giorno cercherò di realizzare questa magia.”
Aver fiducia nei ragazzi e nei bambini significa, anzitutto, sapere che sono in possesso di risorse infinite di intuito, intelligenza, sensibilità, e per questo in grado di scegliere fin da piccolissimi la loro strada. Ma la possibilità di intraprendere questa strada dipende dagli adulti. Sono loro, oggi come ieri, a dover creare le condizioni affinché questo possa accadere, a tutti i livelli: individuale, sociale e politico.

Orchestra giovanile del Sistema Abreu, Venezuela.

Abbado, nel documentario, parlando del progetto di Abreu al quale ha collaborato con passione, osserva che in paesi più ricchi del Venzuela, ma con sacche di povertà e violenza, progetti simili non si fanno. Dicendolo, sorride: allude, ma non rivela a chi si stia riferendo. Forse, chissà, anche all'Italia.
Una cosa è certa: guardando questo film, ascoltando i tanti ragazzi e musicisti che vi sono, e vi sono stati, coinvolti (e oggi, a loro volta, diventati insegnanti di musica), risulta chiarissimo che significhi l'espressione dare una educazione. In primo luogo assumersene la responsabilità. Come dice a chiare lettere Claudio Abbado: "Questo non è solo un fatto culturale, è un fatto sociale: aiutare i giovani ad avere quello a cui hanno dirittto tutti."
Buona visione.


lunedì 9 giugno 2014

Educazione musicale (o della gioia)

Rita Pavone, nello sceneggiato Rai
Il giornalino di Gian Burrasca,
regia di Lina Wertmüller,
musiche di Nino Rota,1964.
[di Mauro Mongarli]

Come genitore sono sempre stato un po’ preoccupato di non far danni nel rapporto tra mia figlia e la musica.

Traguardi per lo sviluppo delle competenze [musicali] al termine della scuola primaria.
L'alunno esplora, discrimina ed elabora eventi sonori dal punto di vista qualitativo, spaziale e in riferimento alla loro fonte.

Ho i miei gusti, suono qualche strumento, quando lavoravo nei villaggi turistici, suonare e cantare era la parte principale del mio lavoro, me ne occupo anche come pubblicitario, insomma: un guazzabuglio che temo sempre possa avere un’influenza strana su di lei.

Esplora diverse possibilità espressive della voce, di oggetti sonori e strumenti musicali, imparando ad ascoltare se stesso e gli altri;  fa uso di forme di notazione analogiche o codificate.

In effetti, la piccola, ora di nove anni, mostra chiari segni di squilibrio a chi le chiede, per esempio, chi sono i suoi artisti preferiti.

Articola combinazioni timbriche, ritmiche e melodiche, applicando schemi elementari; le esegue con la voce, il corpo, e gli strumenti, ivi compresi quelli della tecnologia informatica.

Il dialogo tipo è questo:

“Qual è il tuo cantante preferito?”
“Caparezza”
“... “
“Di maschi, però”
“Ah (speranzoso), e di cantanti donne?”
“Rita Pavone”

Al che io e mia moglie scoppiamo a ridere vedendo la faccia che fa il povero interlocutore, che magari era preparato su Violetta o Justin Bieber e non ha potuto sciorinare la sua competenza.


Improvvisa liberamente e in modo creativo, imparando gradualmente a dominare tecniche e materiali, suoni e silenzi.



Sì, Rita Pavone. Gianburrasca. Mio Cuore. Fortissimo. Datemi un martello. Quel metro e mezzo di pepe lì.
La sua interpretazione di Giannino Stoppani ha ipnotizzato Laura per settimane, vuoi per la storia vuoi per il fatto che quel tipetto di nove anni era una ragazza di 18 con una voce incredibile che, dopo un paio di puntate, mia figlia riproduceva fedelmente nelle “o” chiuse e nei singulti.



Esegue da solo e in gruppo, semplici brani vocali o strumentali, appartenenti a generi e culture differenti, utilizzando anche strumenti didattici e autocostruiti.

Posso vedere altre cose di Rita?”
E avanti con i musicarelli, da Rita la Zanzara in poi.
Non è che la bimba non canti canzoni “per bambini”, o che scappi via quando io ascolto Rossini o gli Who, è che con la Pavone (e con Caparezza) c’è una gioia del tutto diversa. Mi sembra che sia la gioia di tuffarsi nel lato spensierato del mondo adulto, così diverso da quel lato a volte così serio, strano o semplicemente incomprensibile che la circonda.



Riconosce gli elementi costitutivi di un semplice brano musicale, utilizzandoli nella pratica.

È la gioia di attraversare un passaggio sicuro su quello che sarà, un impratichirsi di amori che si sentono ormai prossimi, o un orecchiare problemi che magari sentiti da me o dalla sua mamma sembrano gravi e cupi ma che messi in rima da Caparezza (da lui si va a luglio!) sembrano cose che un giorno, magari, quando sarà ora, si potranno affrontare.



Ascolta, interpreta e descrive brani musicali di vario genere.

Tutti questi pensieri sono stati spazzati via pochi giorni fa quando, come regalo per il suo nono compleanno, le abbiamo fatto la sorpresa di portarla al concerto di Rita Pavone.


Mi spiego meglio: questi pensieri rimangono in me come validi, ma la sua gioia di cantare per due ore a squarciagola le canzoni di Rita Pavone con lei stessa a pochi metri era semplicemente assoluta, tanto da spazzare, appunto, ogni mia elucubrazione e farmi cantare il Geghegè, all’ultimo bis, come facevo a cinque anni con mia cugina Betty.
L’età media del pubblico presente al concerto era alta anche per me che ho quasi cinquant’anni, ma questo a Laura non interessava proprio.



Fosse stata fan di Justin Bieber invece di quell’artista mirabile che è Rita Pavone (concerto incredibile il suo per intensità, qualità e rispetto per il pubblico) sarei stato così felice? Penso di sì, la gioia è gioia.
Quando la signora della biglietteria, alla fine del concerto ha chiesto a mia figlia:
“Mia nipote ha la tua età ma ascolta Violetta: tu come mai vieni a sentire Rita Pavone?”
Laura ha risposto:
“Perché Violetta non è vera.”



Spero che Martina Stoessel (Violetta) abbia una fulgida carriera e le auguro ogni bene, ma io preferisco continuare a pensare a lei come un cartone animato, perché la musica

componente fondamentale e universale dell’esperienza umana, offre uno spazio simbolico e relazionale propizio all’attivazione di processi di cooperazione e socializzazione, all’acquisizione di strumenti di conoscenza, alla valorizzazione della creatività e della partecipazione, allo sviluppo del senso di appartenenza a una comunità, nonché all’interazione fra culture diverse.

(Le parti di testo in corsivo sono tratte dalle Indicazioni nazionali per la Scuola del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, comprese nel decreto legge del 16 novembre 2012 a oggi in vigore.)

Martina Stoessel.

lunedì 23 dicembre 2013

Questo celeste bambino

Quest'anno vi facciamo gli auguri di Natale con quelle che probabilmente sono alcune fra le più belle canzoni sulla notte dell'Avvento mai scritte.
Furono composte nel 1942 da Benjamin Britten, compositore inglese del Novecento, che come abbiamo scritto già qui e qui, ebbe caro il tema dell'infanzia e usò le voci dei bambini e dei ragazzi in molta parte della sua produzione musicale.
Il tema della Natività doveva essere particolarmente congeniale a Britten, se la sua prima opera A boy was born, Op.3, scritta diciannove anni, fra il 1932 e il 1933, che gli procurò fama immediata, è una variazione corale per organo e voci femminili, maschili e infantili sul tema del Natale e dell'infanzia di Gesù.

A Ceremony of Carols, l'opera che comprende le due canzoni che vi proponiamo qui in filmato, fu composta da Britten nel 1942, dopo un soggiorno di alcuni anni in America. Durante il lungo viaggio di ritorno in nave verso l'Inghilterra, Britten si dedicò alla composizione, traendo ispirazione dai Christmas Carol, canti popolari inglesi medievali, incentrati sul tema della Vergine e del bambino, e in particolare della notte di Natale. L'opera, per coro a tre voci di bambini, solisti e arpa, è composta da undici movimenti vocali e un a solo per arpa.  

La prima, si intitola This Little Babe, e questa è la traduzione del testo.

Questo bambino di pochi giorni,
 è venuto mondare il gregge di Satana.

L'Inferno vacilla al suo cospetto, 
anche se il freddo lo fa tremare.

Con questo aspetto debole e disarmato abbatte le porte dell'inferno
.
Con le lacrime combatte e vince la battaglia.
 Il suo scudo è il petto nudo.


Le sue tonanti batterie, vagiti. Le sue frecce, occhi lacrimanti.
Le sue insegne di guerra, il freddo e la povertà; un corpo inerme, spada di guerriero.
I suoi quartieri sono una stalla. Il suo baluardo un muro sbrecciato.
Una greppia la sua trincea. Fili di paglia i suoi picchetti. Pastori, le sue schiere
Le trombe degli angeli suonano la carica, sicure che il nemico sarà travolto.
Anima, unisciti a Cristo nella lotta, resta nelle tende che lui ha piantato.

La sua greppia è il luogo più sicuro. Questo bambino sarà la tua guardia.
Se vuoi sconfiggere i tuoi nemici con gioia, non separarti da questo celeste bambino.




La seconda si intitola Balulalow, composta su un testo del 1548 di James, John e Robert Wedderburn. E questa è la traduzione.

O mio tesoro, piccolo dolce Gesù

prepara la tua culla nella mia anima

io ti cullerò sul mio cuore

e non mi separerò mai da te.

D'ora in poi ti loderò

con dolci canti sulla tua gloria;

piegherò le ginocchia del mio cuore

e canterò ninna nanna.


martedì 9 luglio 2013

Nel Paese del Poster Selvaggio


Il 12 Novembre 2002 è una data da ricordare per gli amanti del rock poster.
Gli Stati Uniti presentano al mondo l'American Poster Insitute, associazione no-profit tesa a promuovere la grafica da concerto: indubbiamente uno dono splendido.
Ed era anche ora che qualcosa del genere accadesse: dagli anni Cinquanta in poi, l'intero pianeta ha sfornato artisti di altissimo livello che, nascosti dietro le punte dei loro pennarelli, si sono occupati dell'immagine di rock bands celeberrime.

Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi.
Poster per Sasquatch! Music Festival, di Invisible Creature .

Nel 2000, l'esplosione è stata forte: si è perso il conto degli studi grafici legati all'ambiente musicale, e rock poster è diventata una vera e propria parola d'ordine.
Non sono solo rose e fiori, però.
Se avete letto Nel paese dei mostri selvaggi (Where the Wild Things Are) non vi sarà difficile giocare alle differenze con il poster realizzato dalla Invisible Creature per il Sasquatch! Music Festival di Seattle: una parata di mostriciattoli dal chiaro sapore vintage.

Manifesto per il film Goodfellas, di Methane Studios.
Caso analogo è il manifesto a opera del Methane Studios, agenzia grafica di Atlanta fondata da Robert Lee e Mark McDevitt, molto Vertigo, di Saul Bass.
A parte il gusto, ciò che accomuna questi grandi nomi è il periodo storico: quello a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta che tante cose belle ha graficamente regalato al mondo.
Un momento in cui l'arte ha dettato il carattere di un paese.
Un momento che sembra ritornare, prepotentemente.
È chiaro che un recupero così radicale, così evidente e sfacciato, indichi in qualche modo una perdita di coscienza. Codici precisi, come geometrie, palette di colori e sintesi, vengono ripescate dal passato e riadattate in favore di un pubblico moderno.
Se per un verso è bello vedere che i giovani rendano onore alla storia, da Ikko Tanaka  a Milton Glaser, per l'altro si ha la sensazione che Jeff Kleinsmith non possa vivere senza Paul Rand.

Manifesto per il film Vertigo, di Saul Bass, 1958.
Quando ho realizzato questo pensiero ho subito pensato a una crisi, e al fatto che le giovani menti non sappiano fare altro che appoggiarsi a un rimando sicuro. Che sia molto più semplice chiamare a carico di certi destinatari e trafugare la loro maestria, piuttosto che spaccarsi la testa per trovare una chiave di lettura al passo coi tempi.
Così ho posto qualche domanda. Ho chiesto un parere a Dan Kuhlken, co-fondatore del DKNG Studios, classe 2005.
La sua creatura, fondata assieme a Nathan Goldman, è un ottimo esempio. Un progetto giovane, ma già di grandissimo successo, e poster all'attivo per Eric Clapton, Dave Matthews Band, Bon Iver, Jack White e molti altri ancora.
Dan è un professionista, grande appassionato dell'epoca d'oro della grafica americana, ma con i piedi radicati nel presente: il nostro uomo.


Manifesto di Jeff Kleinsmith.
Ho avuto il piacere e il privilegio di intervistarlo, e ho sollevato il problema. Mi ha risposto che per lui vintage è un altro modo per dire 'classico':

Se si crea un classico, sia esso una perfetta canzone pop o un inimitabile rock poster, non si può sbagliare. Il classico resiste alle mode e – attenta osservazione – non ha tempo.
Non si deve avere paura del proprio passato, è ciò che siamo.
L'unica attenzione è quella relativa all'elaborazione – altro tasto dolente – ossia creare effetti piacevolmente d'altri tempi, granulosi e materici, con filtri preimpostati al computer.

Bisogna giocare anche con questo e, sfruttando la macchina, creare pattern e fantasie paradossali, che facciano capire quanto distacco c'è

Copertina per Idea magazine, Paul Rand, 1984.
dagli anni Cinquanta ad oggi, e che noi operiamo nel presente e non nel passato
Il che è vero, naturalmente. Gli ultimi vent'anni di
grafica da concerto hanno girato a loro favore lo smarrimento, elaborando prodotti evergreen e riscoprendo il nobile studio della tipografia.
È una maniera per esprimere gratitudine al passato e per celebrare il presente con altrettanta arguzia di sintesi e stile.
Vista così, la faccenda mi pare meno preoccupante, e la comprendo molto meglio.
Un prodotto classico entra di diritto nell'immaginario universale, e diventa un valido modo per pensare a come eravamo. Grazie, Dan.

venerdì 28 giugno 2013

Walt Disney in salsa grunge

Copertina di Frank Kozik per Houdini dei Melvins.

Quando Frank Kozik si trasferì dalla Spagna al Texas aveva solo 16 anni.
Era incosciente ed entusiasta, ma sapeva bene una cosa: gli piaceva la musica.
Era il 1976, periodo di snodo per il rock poster.
Inizialmente, Kozik prende appunti dai grandi d'Oltreoceano (Jamie Reid su tutti) e inizia a fare punk flyers, manifesti fotocopiati che  promuovono concerti della zona.
La fine degli anni Ottanta arriva presto, e con essa tutta una serie di interessantissimi input musicali: la nascente scena grunge di Seattle è un fiorire di gruppi nuovi ed esaltanti, perchè non promuoverli?
Così Frank prende coraggio, cosa che non gli è certo mai mancata, e dà libero sfogo alle sue fantasie.
Al 1993, risale la pubblicazione di Houdini, lavoro dei Melvins la cui immagine viene affidata al nostro Kozik, catapultato da quel momento in poi nell'Olimpo della grafica musicale. Un disco celeberrimo, come celeberrima è la copertina: due bambini che giocano amorevolmente con un cagnolino. Bicefalo.

Poster di Frank Kozik per concerto dei Nirvana.
Altro grandioso esempio è un poster, sempre datato 1993, realizzato per la data di Houston dei Nirvana: due pargoli in un campo di fiori e farfalle che, mentre il sole splende alle spalle, sono intenti a saltellare con un gatto. Sarebbe adorabile, se non ci accorgessimo della mano robotica della bambina.
Sorge una domanda: da dove viene tutto questo?
Non dobbiamo dimenticare una delle tante sorprese artistiche che l'America ha sfilato dal cilindro, indubbiamente la più importante della nostra epoca: la Walt Disney Company. Sembra incredibile, eppure la connessione c'è.
Da quel fatidico 16 ottobre 1923, data di fondazione dell'Impero Disney, gli Stati Uniti ci hanno educati a un immaginario svincolato da paure e turbamenti, confezionato in una rassicurante pellicola e impacchettato da musiche celestiali.
Buffi animaletti in difficoltà e fanciulle dall'infanzia infelice, rinchiuse in torri o meglio, addormentate per fortuiti incantesimi, non vedono l'ora di essere svegliate e riportare al loro splendido mondo fatto di colori pastello e occhioni grandi.
Il tutto nella 'perfetta' cornice del decennio 1940-1950, vale a dire il momento in cui la Walt Disney Company presta orecchio a ippopotami e funghetti danzanti, senza farsi troppo prendere da quel che intorno sta accadendo.

Fotogramma da Once Upon a Wintertime, episodio
del lungometraggio animato Melody Time, 1948, Walt Disney.

Mai come in quel periodo gli Studios sono attenti ad animazioni spensierate, tralasciando
l'impianto da musical che arriva solo alcuni anni dopo, ossia nel momento esatto in cui il compositore Howard Ashman varca le porte della Company, insegnando al mondo intero cos'è un moderno 'Classico Disney' (basta poco per capire che The King Lion è una trasposizione hollywoodiana dell'Amleto shakespeariano).
Bisogna essere chiari: la spensieratezza è nel segno. Le trame molto spesso sono tutt'altro che felici: Dumbo non ha vita facile, e nemmeno Biancaneve. Più l'argomento è spinoso, più l'immagine è bucolica.
Avviene così che anche per Fantasia, progetto faraonico e impegnativo, sia nella musica –
Debussy, Bach, Beethoven, Tchaikovsky, Stravinsky, Schubert eccetera – che nei soggetti – dagli spiriti oscuri di Night on Bald Mountain, agli inquietanti incantesimi di The Sorcerer's Apprentice, passando attraverso la formazione della terra di The Rite of Spring, e i centauri di The Pastoral Symphony – mediato sapientemente da fondali ad acquarello e creature surreali.

Fotogramma da The Pastoral Symphony, episodio del lungometraggio
animato Fantasia, 1940, Walt Disney.

Un immaginario per niente trascurabile, specie riguardo alla grafica da concerto degli anni Novanta.
I mass media tutti, dal fumetto al cartone animato, sono fondamentali per il poster americano del momento, che architetta una parodia sarcastica fino al cinismo, ma proprio per questo pura e autentica. Gli animali, tradizionalmente beniamini dei più piccoli, si guadagnano un posto d'onore anche nel mondo dei grandi, con deformazioni impensabili.
Ecco che l'infanzia gioca ruolo fondamentale nella comunicazione, e diventa la chiave di lettura più immediata e semplice con cui decifrare un universo musicale.
Non musica tranquilla, non musica facile. Canzoni di rabbia e foga, canzoni grunge, sporche. Frank Kozik inquadra un preciso modo di raccontarle, sia esso bello o brutto non importa.
Perché o funziona o non funziona. Nel suo caso, si può dire che sia arrivato dritto al punto, con l'intenzione di sdrammatizzare il disagio attraverso un candido visino, e con la voglia di creare una frattura così forte da sconvolgere lo spettatore.

Fotogramma da Peter and the Wolf, episodio del lungometraggio
animato Make Mine Music, 1946, Walt Disney.
Sicuramente, con la precisa intenzione di suggerire che ciò che sembra indifeso, molto spesso racchiude una forza sovrumana.

* Martina Esposito (Napoli, 1988) adora disegnare. Lo fa da quando è nata, lo ha fatto durante l'Istituto d'Arte, e ha continuato a farlo durante il Triennio di Scenografia e il Biennio di Illustrazione all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Disegna perché disegnare la diverte, e perché il disegno è una lingua che le piace parlare. Adora anche la musica, ma le riesce meglio disegnarla che suonarla, così nel 2011 entra a far parte di Italian Poster Rock Art, organizzazione toscana che promuove poster artist italiani che fanno grafica da concerto. Organizza una mostra mercato all'anno, crea loghi e locandine per eventi e parallelamente collabora per alcune scenografie. Tramite Italian Poster Rock Art conosce alcuni degli studi grafici più importanti d'America, dal Methane Studios al Firehouse, autori di artwork per Bob Dylan, U2 e molti altri ancora. Con Topipittori intraprende uno collaborazione tesa a divulgare l'influenza dell'illustrazione e dell'arte in generale, sulla grafica da concerto, dagli anni Cinquanta a oggi.

mercoledì 19 giugno 2013

Un’illustratrice fra i musicisti

Illustrazione di Marcella Brancaforte per Castelli in aria.
[di Marcella Brancaforte]

Quando Silvana Sola, nel 2010, recensì il mio libro illustrato per Sinnos A pescar canzoni, scrisse: “Conoscevo il lavoro di illustratrice di Marcella, mi è sempre piaciuto il suo segno forte e deciso, ma non pensavo di rincontrarla in una band tascabile, non pensavo, ascoltando il cd allegato al libro A pescar canzoni, viaggio per terra e per mare nella canzone popolare, di scoprirla cantante.”
In effetti, le contaminazioni tra le arti mi piacciono. Come illustratrice, il mio percorso a fianco di progetti che narrano la musica non inizia oggi: la musica è sempre stata una mia grande passione, insieme ai libri illustrati, al teatro e al circo (dove, bambina, sognavo sempre di scappare per fare la trapezista: fortuna che, crescendo, mi sono ridimensionata!).

Ho iniziato a camminare cantando, e cantare mi faceva sentire più sicura sulle mie gambine: da sempre la musica è  il mio mondo felice. La musica in tutte le sue forme, ma soprattutto il canto e le voci.
Ho sempre cantato, e ogni volta che ho cambiato città, appena mollate le valigie, prendevo il telefono e cercavo un coro in cui cantare. Se c’era un coro, ero a casa. È sempre stato così.


Molti miei libri illustrano la musica o nascono dopo avere ascoltato un pezzo particolarmente suggestivo; un mio libro è diventato anche uno spettacolo di canzoni e cantare è, ancora oggi, la mia gioia, insieme al disegno.

Immagine da A pescar canzoni.
La musica, in tutte le sue forme, è una delle principali ragioni per cui penso valga la pena vivere. Per un ragazzo in crescita è una disciplina e una opportunità formativa importante, ma troppo spesso trascurata in Italia.
Anche per questo, consiglio caldamente a chi ha dei bambini e si dovesse trovare a passare dalle parti di Tuscania, in Alta Tuscia, ai primi di agosto, di pensare a una sosta di un’intera settimana.




Locandina di Marcella Brancaforte
per il teatro San Carlo di Napoli.
 Durerà, infatti, una settimana il nostro  Canto Ascolto e Creo, nell'ambito di Campus delle Arti, pensato come laboratorio per bambini e ragazzi che vogliano sperimentare un avviamento gioioso alla musica, alla comunicazione per immagini e all’illustrazione: una settimana in un mare di musica, lontani dal frastuono delle spiagge agostane. Un'occasione per regalare ai propri figli un’esperienza ricca e vera, di ascolto, partecipazione e ispirazione.  Tuscania è a 10 minuti di auto dal Lago di Bolsena e a 25 minuti dal mare di Tarquinia.

Al laboratorio possono essere iscritti anche ragazzi che non sanno suonare alcuno strumento

Due parole per spiegare meglio, in cosa consiste il laboratorio.


Dal 1 all’8 agosto 2013, Tuscania  diventa per il terzo anno consecutivo, la 'città della musica', ospitando il Campus delle Arti, un progetto dedicato ai giovani, ai giovanissimi e alla musica, sotto la direzione artistica di Angela Chiofalo: per una settimana, dal pomeriggio a tarda sera, i concerti di maestri e allievi si avvicendano, tra le chiese romaniche, piazza del Belvedere e, la sera, nell’Anfiteatro del Parco di Torre Lavello.

Per una settimana, i ragazzi del Campus, e di riflesso tutta la popolazione residente e i turisti di passaggio, vivono una esperienza musicale a 360°, immersi nel contesto di una cittadina a misura d’uomo (e di ragazzo). Il silenzio di Tuscania, le sue chiese e i suoi paesaggi, diventano il contesto ideale per l'ascolto.

Quest’anno sono stata coinvolta per offrire una esperienza laboratoriale rivolta a coloro che non necessariamente suonano uno strumento, ma che desiderino vivere una esperienza che unisca musica e arti figurative.

Durante il Campus, il gruppo di allievi si incontrerà per una settimana, lavorando 'a bottega' con i maestri. Formazione e produzione sono un binomio inscindibile di questo evento, e il lavoro svolto troverà la sua conclusione nella rappresentazione della Geneviéve di Eric Satie, operina che vedrà in scena i giovani artisti del Campus, l’orchestra e i loro maestri.



Campus delle Arti 2011, fotografie di Marco Scataglini.

Il nostro laboratorio si divide in 3 parti:

Canto/Officina Corale
È l’incontro tra un corso e un laboratorio, e ha l'obiettivo di far scoprire la gioia di cantare insieme: uno spazio musicale dedicato alla pratica corale e aperto a studenti e docenti per fare musica con la propria voce. Tutti sono i benvenuti: chi non ha mai cantato in coro, chi studia uno strumento e vuole affinare le proprie capacità ritmiche, melodiche e polifoniche, chi ha competenze musicali. Canto/Officina Corale è condotto da Carla Conti, docente di direzione di coro e repertorio corale al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma.

Locandina di Marcella Brancaforte
per spettacoli di burattini alllestiti dalla
associazione La Metaphora.


Ascolto
È il laboratorio, che io stessa tengo, insieme a Elena Mozzetta. In un percorso fra immagini e musica, lavoreremo con gli allievi per orientarci tra colori ed espressione sonora, per recuperare le analogie tra suono e segno, per imparare a rappresentarle, recuperando la gestualità istintiva.

Elementi base per il lavoro visivo che si intende svolgere con i ragazzi saranno carta, colore, acqua e il segno mosso dai suoni.

In riferimento all’ascolto della Geneviève, i ragazzi saranno invitati a creare una partitura per suoni e segni: disegneremo molto, a orecchie ben aperte.


Fabio Porroni durante lo spettacolo A pescar canzoni.




Elena Mozzetta è musicista, attrice, regista e insegnante, dotata di straordinaria sensibilità per la messa in scena di spettacoli musicali con i ragazzi. Durante la settimana di Campus, il laboratorio di Ascolto impegnerà i ragazzi per due ore al giorno.

Creo
La terza parte del laboratorio è tenuta da Eva Goed e Kurt Pint, scenografi e costumisti viennesi di provata esperienza, che con i ragazzi realizzeranno oggetti scenici e accessori per lamessa in scena dell’operina di Satie: un lavoro che, attraverso un obiettivo concreto, mira a risvegliare la creatività, utilizzando materiali diversi, imparando ad affinare la manualità fine.