La scorsa settimana, foglie; questa, sassi. Ai sassi, appunto, Leo Lionni e Bruno Munari hanno dedicato un libro, a distanza di dieci anni l'uno dall'altro. Entrambi li presentano come oggetti d'elezione dello sguardo. Presenze naturali altre rispetto all'umano, e in quanto tali mute nella loro alterità. Fenomeni in grado di condurre l'osservazione dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande. Misura esatta fra microcosmi e macrocosmi.
Universi estetici su cui esercitare la pratica della lettura fra empirismo e immaginazione, esteriore e interiore.
Da lontano era un'isola (1971) e Sulla spiaggia ci sono molti sassi (1961), entrambi in origine pubblicati da Emme Edizioni, spiegano ai lettori che gli occhi servono per conoscere. E che la conoscenza significa, anzitutto, saper vedere, saper guardare.
Assumere un materiale povero, come un sasso, che si trova ovunque, democraticamente e caoticamente contiguo a milioni di altri sassi, significa fare una scelta di principio. Dichiarare la potenza dello sguardo nell'assunzione e nell'elaborazione di senso, anzitutto.
Quindi, nell'accensione creativa di cui lo sguardo è fautore, quando il fuori, il sasso, diventa spazio dove esercitare i movimenti del dentro, dell'immaginazione, diventando metafora dell'umano e delle sue insopprimibili necessità narrative. Diventando, cioè, voce, disegno, parola.
Serve altro per fare un libro?
In un consigliabile saggio dal titolo Le storie che curano, James Hillman definisce il logos come, sostanzialmente il potere intuitivo della mente di creare un cosmo e di dargli un senso. Guardiamo e riguardiamo i disegni a matita di Lionni, le fotografie in bianco e nero di Munari. Aiutano a capire che quel che chiamiamo stile è prima di tutto una qualità del pensiero.
L'originalità è solo un accidente, una conseguenza. La voluta “povertà” visiva di questi libri, che vanno contro ogni regola di buon senso commerciale, insegna agli editori che cercare di fare libri che “piacciano”, cercare di azzeccare titoli giusti è un'arduo mestiere, non una magica/meccanica pratica di marketing.
Agli autori, che scrivano o disegnino, che l'umiltà è un abito necessario al mestiere poiché è l'unico modo per entrare in relazione con il mondo, e la relazione col mondo è ciò che permette di trovare e mettere a fuoco ciò che abbiamo in noi.
Lo scrittore francese Francis Ponge, in Il partito preso delle cose, (moderno De natura rerum, manuale poetico al metodo di “considerare ogni cosa del tutto sconosciuta, e di passeggiare o di sdraiarsi nel sottobosco o sull'erba e di riprendere tutto dall'inizio”), dedica ai sassi un bel capitolo intitolato, appunto, Il ciottolo, di cui riportiamo un brano:
Se ora voglio esaminare con più attenzione uno dei tipi particolari della pietra, allora la perfezione della sua forma, il fatto che io possa afferrarlo e rigirarlo in mano, mi portano a scegliere il ciottolo.
Il ciottolo è esattamente, d'altra parte, la pietra nell'epoca in cui comincia per essa l'età della persona, dell'individuo, cioè della parola.
Paragonato al banco roccioso da cui deriva direttamente, il ciottolo è la pietra già frammentata e levigata in un grandissimo numero di individui quasi uguali.
Paragonato alla ghiaia, per il posto in cui lo si trova, per il fatto che anche l'uomo non è solito farne un uso pratico, si può dire che esso è la pietra ancora selvaggia, o per lo meno domestica. Dato che per pochi giorni ancora è senza significato in ogni campo pratico del mondo, approfittiamo delle sue virtù.
(Einaudi, 1979; traduzione, Jacqueline Risset)
Un'estate di qualche anno fa, a Milos, quando ancora eravamo editori in erba, sedotti dai sassi incredibili di quest'isola vulcanica, ci siamo dati, pazzi di gioia, a un'orgia minerale che è culminata così:
Universi estetici su cui esercitare la pratica della lettura fra empirismo e immaginazione, esteriore e interiore.
Da lontano era un'isola (1971) e Sulla spiaggia ci sono molti sassi (1961), entrambi in origine pubblicati da Emme Edizioni, spiegano ai lettori che gli occhi servono per conoscere. E che la conoscenza significa, anzitutto, saper vedere, saper guardare.
Assumere un materiale povero, come un sasso, che si trova ovunque, democraticamente e caoticamente contiguo a milioni di altri sassi, significa fare una scelta di principio. Dichiarare la potenza dello sguardo nell'assunzione e nell'elaborazione di senso, anzitutto.
Quindi, nell'accensione creativa di cui lo sguardo è fautore, quando il fuori, il sasso, diventa spazio dove esercitare i movimenti del dentro, dell'immaginazione, diventando metafora dell'umano e delle sue insopprimibili necessità narrative. Diventando, cioè, voce, disegno, parola.
Serve altro per fare un libro?
In un consigliabile saggio dal titolo Le storie che curano, James Hillman definisce il logos come, sostanzialmente il potere intuitivo della mente di creare un cosmo e di dargli un senso. Guardiamo e riguardiamo i disegni a matita di Lionni, le fotografie in bianco e nero di Munari. Aiutano a capire che quel che chiamiamo stile è prima di tutto una qualità del pensiero.
L'originalità è solo un accidente, una conseguenza. La voluta “povertà” visiva di questi libri, che vanno contro ogni regola di buon senso commerciale, insegna agli editori che cercare di fare libri che “piacciano”, cercare di azzeccare titoli giusti è un'arduo mestiere, non una magica/meccanica pratica di marketing.
Agli autori, che scrivano o disegnino, che l'umiltà è un abito necessario al mestiere poiché è l'unico modo per entrare in relazione con il mondo, e la relazione col mondo è ciò che permette di trovare e mettere a fuoco ciò che abbiamo in noi.
Lo scrittore francese Francis Ponge, in Il partito preso delle cose, (moderno De natura rerum, manuale poetico al metodo di “considerare ogni cosa del tutto sconosciuta, e di passeggiare o di sdraiarsi nel sottobosco o sull'erba e di riprendere tutto dall'inizio”), dedica ai sassi un bel capitolo intitolato, appunto, Il ciottolo, di cui riportiamo un brano:
Se ora voglio esaminare con più attenzione uno dei tipi particolari della pietra, allora la perfezione della sua forma, il fatto che io possa afferrarlo e rigirarlo in mano, mi portano a scegliere il ciottolo.
Il ciottolo è esattamente, d'altra parte, la pietra nell'epoca in cui comincia per essa l'età della persona, dell'individuo, cioè della parola.
Paragonato al banco roccioso da cui deriva direttamente, il ciottolo è la pietra già frammentata e levigata in un grandissimo numero di individui quasi uguali.
Paragonato alla ghiaia, per il posto in cui lo si trova, per il fatto che anche l'uomo non è solito farne un uso pratico, si può dire che esso è la pietra ancora selvaggia, o per lo meno domestica. Dato che per pochi giorni ancora è senza significato in ogni campo pratico del mondo, approfittiamo delle sue virtù.
(Einaudi, 1979; traduzione, Jacqueline Risset)
Un'estate di qualche anno fa, a Milos, quando ancora eravamo editori in erba, sedotti dai sassi incredibili di quest'isola vulcanica, ci siamo dati, pazzi di gioia, a un'orgia minerale che è culminata così:
3 commenti:
Cari topi,
per dirvi Grazie,
la conoscete questa poesia?
Il ciottolo
il ciottolo è una creatura
perfetta
uguale a se stesso
attento ai propri confini
esattamente ripieno
di senso pietroso
con un odore che non ricorda nulla
non spaventa nulla non suscita desideri
il suo ardore e la sua freddezza
sono giusti e pieni di dignità
provo un grave rimorso
quando lo tengo nel palmo
e un falso calore
ne pervade il nobile corpo
- I ciottoli non si lasciano addomesticare
fino alla fine ci guarderanno
con un occhio calmo e molto chiaro
Zbigniew Herbert
Magnifica. Grazie, Piero.
Consiglio la lettura di approfondimento de: "I sassi vanno matti per le sasse", di Roberto Tossani, scheda: http://www.zandegu.it/?page_id=7
Mauro
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