[di Giulia Mirandola]
Del maestro Alberto Delpero e dei bambini della scuola elementare di Pejo, questo blog si è occupato alcuni mesi fa. Pluriclasse, montagna, lettura e scrittura erano i termini chiave di una breve intervista al giovane maestro, che in poche incisive frasi trasmetteva il senso di lavorare in pluriclassi e di fare scuola in montagna oggi.
Della scuola “R. Bevilacqua” di Pejo, nell’ultimo mese, hanno parlato ripetutamente i quotidiani locali del Trentino, rendendo pubblica una notizia: la scuola elementare di Pejo dopo giugno chiuderà. Una chiusura annunciata da tempo e non gradita a chi, in questo contesto, opera e vive.
Gli argomenti che questa vicenda solleva vanno ben oltre la politica e la cultura locali. I bambini di Pejo, riuniti in pluriclasse, fanno scuola secondo modalità che è rarissimo ritrovare in altri contesti, specie quelli urbani. La specificità della situazione “pluriclasse” e la straordinarietà della figura di Delpero (maestro elementare, archeologo, direttore di cori, fondatore della Libera Università di Pejo), ha attirato nel corso del 2009-2011 l’attenzione, oltre che di questo blog e dell’associazione culturale Hamelin di Bologna per cui lavoro, di un gruppo di educatori che operano in Emilia-Romagna e in Campania. D’altra parte, da tempo è in corso un fitto scambio epistolare tra i bambini di Pejo e quelli della scuola elementare di Coumboscuro, che speriamo di poter presto documentare meglio proprio sulle pagine di questo blog.
Capire certe dinamiche da lontano è difficile, ma può esserlo meno nel momento in cui qualcuno, dall’esterno, giunge, osserva, documenta, rielabora, trasmette. È nata dal desiderio di raccontare a chi non ne sa nulla o poco di questa singolare vicenda, l’idea di tornare a visitare la scuola di Pejo insieme a Ilaria Tontardini (Hamelin Associazione Culturale) e a Giusi Quarenghi.
Il 3 maggio scorso abbiamo passato una giornata intera con i bambini, il maestro, i genitori. Al mattino a scuola, a fare poesia, nel pomeriggio all’aperto, nei pressi del mulino recentemente ristrutturato da mamme e papà, insieme anche agli anziani del paese, a leggere, a suonare la fisarmonica, a cantare.
Dai quaderni di poesia, mentre sediamo in classe, ciascuno legge un componimento a scelta. Ci sono versi su cui la voce di Giusi si innesta per passare dalla lingua italiana al dialetto del posto o a quello bergamasco, oppure per sottolineare la felicità di certe scelte lessicali o giochi ritmici, come «primavera sai far di meglio», «ma con tutta la sua forza si raddrizza il biancospino», «in una scatola con le ali ieri ho volato sulle nuvole […] sotto di me c’era bianco». Poi, il “gioco” diventa collettivo. Ciascuno sceglie una parola e in essa cerca il “proprio” senso. Il risultato, dopo due ore abbondanti di concentrazione, è una poesia collettiva in cui ciascun bambino è autore di almeno un verso:
Nella parola poesia volo con la mente
e sono avvolta nei pensieri e quasi quasi
mi addormento.
Nella parola morte mi viene voglia di vivere.
Nella parola albero mi rivesto di foglie mature.
La parola sole mette voglia di salire sul trattore.
Nella parola mulino trovo un soffio di grano e un soffio di fame.
Nella parola aria cammino con le ali
e nel cuore mi passa un soffio così gelido che mi riscalda.
Nella parola buio scopro la paura e inciampo nella luce.
Nella parola letto sono come morto e canto.
Prima di lasciare le montagne, il maestro Delpero consegna a Giusi quattro domande scritte, a cui la scrittrice risponde così:
Scuola di montagna, scuola piccola, pluriclassi: modelli scolastici che suscutano opinioni discordanti, a volte antitetiche. Che ne pensi?
Sono di parte, lo dichiaro subito. Vengo da una pluriclasse di montagna, anni ’50, nella quale credo di aver imparato, in cinque anni, a leggere, scrivere, far di conto, rileggere e correggere, fare e rifare, provare e riprovare, cantare, disegnare, stare insieme e da sola, arrivare prima e arrivare dopo, portare pazienza e farla portare, aguzzare l’ingegno e provare a farla franca, copiare e no, capire la differenza tra le parole, come cambia la lingua, a parlarla, a scriverla, a leggerla… L’esperienza che ne ho avuto alimenta in me uno sguardo amichevole e fiducioso. Così considero questi modi di fare scuola non relitti del passato da lasciare indietro quanto prima, ma piuttosto esperienze pioniere, vocazionalmente pioniere, capaci di stare e essere in situazioni particolari ed eccezionali. Si dice che l’eccezione confermi la regola. Vale anche in questo campo, a mio parere. Situazioni ambientali, climatiche, sociali oggettivamente eccezionali sfidano la scuola a inventarsi e a essere scuola nonostante e grazie a queste condizioni eccezionali. Rendere praticabile l’eccezionalità è la loro forza e la loro legittimità. E dove c’è consapevolezza, la scuola diventa presidio di un territorio, in senso lato, di una comunità allargata, che sperimenta e genera conoscenza, saperi e più solidarietà che conflitto tra le generazioni. La scuola fa corpo con la comunità, insieme crescono, conservandosi e trasformandosi. E il gruppo può trarre giovamento dalla disomogeneità, anche anagrafica; c’è più posto per i tempi di ognuno e nell’arco lungo dei cinque anni (meno frantumato nella miriade delle verifiche sui tempi brevi) c’è una buona probabilità che arrivino tutti e si consolidino quei fondamentali sui quali costruire tanti saperi, compresi il saper imparare, il saper vivere, il saper fare.
Giusi a Pejo, perché?
Per un incontro tra colleghi. Sono venuta a incontrare un gruppo di colleghi, tra i 6 e gli 11 anni, che hanno una bella e confidente consuetudine con il leggere e con lo scrivere, da soli e insieme, per compito e per gioco, per fare esercizio e per il bisogno e il desiderio di esprimersi, nella lingua nazionale e in quella locale, per amor di poesia.
Il tutto è cominciato da Giulia, ragazza che muove e fa muovere i libri e con le storie di parole e immagini costruisce ponti e demolisce muri… Giulia ha incontrato il maestro Alberto in val di Rabbi, a casa di Cheyenne, la ragazza pastora, e hanno parlato di libri, di scuole di montagna… i fili hanno incominciato a essere tessuti e sono arrivati fino a me e mi hanno portato qui.
Come sei stata in questa scuola?
Posso dire che qui non sono stata solamente in una ‘scuola’, e anche che sono stata veramente in una scuola nel senso più vivo della parola. Perché sono stata anche in una comunità, in un paese, in un paesaggio non in uno spazio separato con la scritta ‘scuola’ per identificarlo. Qui la scuola è anche all’aperto, dentro e fuori il mulino, in come ci si saluta tra grandi e bambini.
Non mi ero preparata, ero semplicemente bendisposta, anche a lasciarmi un po’ sorprendere. Del resto, mi piace la montagna e mi piacciono le scuole di montagna, perché vi incontro, più frequentemente che altrove, insegnanti e bambini graziati dall’aria fina, dal trattare con i vari problemi che derivano sia da quello che manca sia da quello che c’è, dall’aver accettato che ogni cosa e ognuno ha il suo tempo, e che l’abitudine alla pazienza e alla fatica è necessaria come l’aria.
Ma la sorpresa reale ha superato la sorpresa immaginata. Qui ho trovato ben di più: una comunità e una scuola in relazione, a darsi reciprocamente vita, attenzione e cura. I bambini, figli di una mamma e di un papà, ma anche del paese e della comunità di Pejo; e gli adulti, tutti, impegnati e propositivi nel passare conoscenze, condividere esperienze, costruire appartenenza (che non vuol dire chiusura e immobilità, ma qualcosa che ha insieme la forza flessibile delle radici e delle ali). Una realtà di educazione permanente, come si diceva anni fa, di comunità educante, che si educa mentre educa e cresce con chi cresce e non lascia indietro e fuori nessuno.
Che bello sentire come due donne belle di vecchiaia mi rivelano dove sta il segreto: Siamo un paese fortunato, abbiamo qui delle mamme brave, ma così brave…
In questa scuola non chiusa in classe, ma che allarga la classe all’intero paese fino al mulino, alla malga e ai boschi su su fino dove i boschi spariscono; in questa scuola dove ho visto i bambini lavorare e ascoltare e stare attenti senza mai il bisogno di un richiamo da parte del maestro o mia, capaci di autonomia e di autodisciplina, di fare gruppo camminando con il proprio passo, mi sono trovata benissimo. E ho visto i semi di una foresta immortale, per quanto i taglialegna possano provare a darsi da fare.
La scuola che vedi oggi?
Faccio fatica a vederla, la scuola, spesso, oggi. È come avvolta nella nebbia. Una nebbia mortificata e mortificante. Ho come l’impressione che molta scuola si sia come adattata a essere una grande agenzia di ‘badanza’: l’importante è che nessuno si faccia male, che non si verifichino incidenti tali da finire sui giornali oppure sì, si vada sul giornale e anche in televisione, grazie a un ‘evento’ che ha il potere di rompere la routine!
Contro questo rischio, io mi ritrovo invece a confermare amore e fiducia proprio nella routine della scuola, in una scuola forte proprio di come è giorno per giorno, della quotidianità che propone e vive, consapevole di essere, volere e poter essere, tempo e luogo a misura di infanzie vivibili, dove bambini e bambine possono essere quello che sono, e crescere, a partire da quello che sono.
Viviamo tempi tanto balordi, che ho fin letto di un illustre studioso che ha indicato in don Milani e Gianni Rodari i responsabili del progressivo degrado della scuola; vorrei passasse di qui, l’illustre studioso. Proprio qui, dove a me viene da dire, con la poetessa Marina Cvetaeva
I bambini della scuola di Pejo lo stanno già facendo.
Del maestro Alberto Delpero e dei bambini della scuola elementare di Pejo, questo blog si è occupato alcuni mesi fa. Pluriclasse, montagna, lettura e scrittura erano i termini chiave di una breve intervista al giovane maestro, che in poche incisive frasi trasmetteva il senso di lavorare in pluriclassi e di fare scuola in montagna oggi.
Della scuola “R. Bevilacqua” di Pejo, nell’ultimo mese, hanno parlato ripetutamente i quotidiani locali del Trentino, rendendo pubblica una notizia: la scuola elementare di Pejo dopo giugno chiuderà. Una chiusura annunciata da tempo e non gradita a chi, in questo contesto, opera e vive.
Gli argomenti che questa vicenda solleva vanno ben oltre la politica e la cultura locali. I bambini di Pejo, riuniti in pluriclasse, fanno scuola secondo modalità che è rarissimo ritrovare in altri contesti, specie quelli urbani. La specificità della situazione “pluriclasse” e la straordinarietà della figura di Delpero (maestro elementare, archeologo, direttore di cori, fondatore della Libera Università di Pejo), ha attirato nel corso del 2009-2011 l’attenzione, oltre che di questo blog e dell’associazione culturale Hamelin di Bologna per cui lavoro, di un gruppo di educatori che operano in Emilia-Romagna e in Campania. D’altra parte, da tempo è in corso un fitto scambio epistolare tra i bambini di Pejo e quelli della scuola elementare di Coumboscuro, che speriamo di poter presto documentare meglio proprio sulle pagine di questo blog.
Capire certe dinamiche da lontano è difficile, ma può esserlo meno nel momento in cui qualcuno, dall’esterno, giunge, osserva, documenta, rielabora, trasmette. È nata dal desiderio di raccontare a chi non ne sa nulla o poco di questa singolare vicenda, l’idea di tornare a visitare la scuola di Pejo insieme a Ilaria Tontardini (Hamelin Associazione Culturale) e a Giusi Quarenghi.
Il 3 maggio scorso abbiamo passato una giornata intera con i bambini, il maestro, i genitori. Al mattino a scuola, a fare poesia, nel pomeriggio all’aperto, nei pressi del mulino recentemente ristrutturato da mamme e papà, insieme anche agli anziani del paese, a leggere, a suonare la fisarmonica, a cantare.
Dai quaderni di poesia, mentre sediamo in classe, ciascuno legge un componimento a scelta. Ci sono versi su cui la voce di Giusi si innesta per passare dalla lingua italiana al dialetto del posto o a quello bergamasco, oppure per sottolineare la felicità di certe scelte lessicali o giochi ritmici, come «primavera sai far di meglio», «ma con tutta la sua forza si raddrizza il biancospino», «in una scatola con le ali ieri ho volato sulle nuvole […] sotto di me c’era bianco». Poi, il “gioco” diventa collettivo. Ciascuno sceglie una parola e in essa cerca il “proprio” senso. Il risultato, dopo due ore abbondanti di concentrazione, è una poesia collettiva in cui ciascun bambino è autore di almeno un verso:
Nella parola poesia volo con la mente
e sono avvolta nei pensieri e quasi quasi
mi addormento.
Nella parola morte mi viene voglia di vivere.
Nella parola albero mi rivesto di foglie mature.
La parola sole mette voglia di salire sul trattore.
Nella parola mulino trovo un soffio di grano e un soffio di fame.
Nella parola aria cammino con le ali
e nel cuore mi passa un soffio così gelido che mi riscalda.
Nella parola buio scopro la paura e inciampo nella luce.
Nella parola letto sono come morto e canto.
Prima di lasciare le montagne, il maestro Delpero consegna a Giusi quattro domande scritte, a cui la scrittrice risponde così:
Scuola di montagna, scuola piccola, pluriclassi: modelli scolastici che suscutano opinioni discordanti, a volte antitetiche. Che ne pensi?
Sono di parte, lo dichiaro subito. Vengo da una pluriclasse di montagna, anni ’50, nella quale credo di aver imparato, in cinque anni, a leggere, scrivere, far di conto, rileggere e correggere, fare e rifare, provare e riprovare, cantare, disegnare, stare insieme e da sola, arrivare prima e arrivare dopo, portare pazienza e farla portare, aguzzare l’ingegno e provare a farla franca, copiare e no, capire la differenza tra le parole, come cambia la lingua, a parlarla, a scriverla, a leggerla… L’esperienza che ne ho avuto alimenta in me uno sguardo amichevole e fiducioso. Così considero questi modi di fare scuola non relitti del passato da lasciare indietro quanto prima, ma piuttosto esperienze pioniere, vocazionalmente pioniere, capaci di stare e essere in situazioni particolari ed eccezionali. Si dice che l’eccezione confermi la regola. Vale anche in questo campo, a mio parere. Situazioni ambientali, climatiche, sociali oggettivamente eccezionali sfidano la scuola a inventarsi e a essere scuola nonostante e grazie a queste condizioni eccezionali. Rendere praticabile l’eccezionalità è la loro forza e la loro legittimità. E dove c’è consapevolezza, la scuola diventa presidio di un territorio, in senso lato, di una comunità allargata, che sperimenta e genera conoscenza, saperi e più solidarietà che conflitto tra le generazioni. La scuola fa corpo con la comunità, insieme crescono, conservandosi e trasformandosi. E il gruppo può trarre giovamento dalla disomogeneità, anche anagrafica; c’è più posto per i tempi di ognuno e nell’arco lungo dei cinque anni (meno frantumato nella miriade delle verifiche sui tempi brevi) c’è una buona probabilità che arrivino tutti e si consolidino quei fondamentali sui quali costruire tanti saperi, compresi il saper imparare, il saper vivere, il saper fare.
Giusi a Pejo, perché?
Per un incontro tra colleghi. Sono venuta a incontrare un gruppo di colleghi, tra i 6 e gli 11 anni, che hanno una bella e confidente consuetudine con il leggere e con lo scrivere, da soli e insieme, per compito e per gioco, per fare esercizio e per il bisogno e il desiderio di esprimersi, nella lingua nazionale e in quella locale, per amor di poesia.
Il tutto è cominciato da Giulia, ragazza che muove e fa muovere i libri e con le storie di parole e immagini costruisce ponti e demolisce muri… Giulia ha incontrato il maestro Alberto in val di Rabbi, a casa di Cheyenne, la ragazza pastora, e hanno parlato di libri, di scuole di montagna… i fili hanno incominciato a essere tessuti e sono arrivati fino a me e mi hanno portato qui.
Come sei stata in questa scuola?
Posso dire che qui non sono stata solamente in una ‘scuola’, e anche che sono stata veramente in una scuola nel senso più vivo della parola. Perché sono stata anche in una comunità, in un paese, in un paesaggio non in uno spazio separato con la scritta ‘scuola’ per identificarlo. Qui la scuola è anche all’aperto, dentro e fuori il mulino, in come ci si saluta tra grandi e bambini.
Non mi ero preparata, ero semplicemente bendisposta, anche a lasciarmi un po’ sorprendere. Del resto, mi piace la montagna e mi piacciono le scuole di montagna, perché vi incontro, più frequentemente che altrove, insegnanti e bambini graziati dall’aria fina, dal trattare con i vari problemi che derivano sia da quello che manca sia da quello che c’è, dall’aver accettato che ogni cosa e ognuno ha il suo tempo, e che l’abitudine alla pazienza e alla fatica è necessaria come l’aria.
Ma la sorpresa reale ha superato la sorpresa immaginata. Qui ho trovato ben di più: una comunità e una scuola in relazione, a darsi reciprocamente vita, attenzione e cura. I bambini, figli di una mamma e di un papà, ma anche del paese e della comunità di Pejo; e gli adulti, tutti, impegnati e propositivi nel passare conoscenze, condividere esperienze, costruire appartenenza (che non vuol dire chiusura e immobilità, ma qualcosa che ha insieme la forza flessibile delle radici e delle ali). Una realtà di educazione permanente, come si diceva anni fa, di comunità educante, che si educa mentre educa e cresce con chi cresce e non lascia indietro e fuori nessuno.
Che bello sentire come due donne belle di vecchiaia mi rivelano dove sta il segreto: Siamo un paese fortunato, abbiamo qui delle mamme brave, ma così brave…
In questa scuola non chiusa in classe, ma che allarga la classe all’intero paese fino al mulino, alla malga e ai boschi su su fino dove i boschi spariscono; in questa scuola dove ho visto i bambini lavorare e ascoltare e stare attenti senza mai il bisogno di un richiamo da parte del maestro o mia, capaci di autonomia e di autodisciplina, di fare gruppo camminando con il proprio passo, mi sono trovata benissimo. E ho visto i semi di una foresta immortale, per quanto i taglialegna possano provare a darsi da fare.
La scuola che vedi oggi?
Faccio fatica a vederla, la scuola, spesso, oggi. È come avvolta nella nebbia. Una nebbia mortificata e mortificante. Ho come l’impressione che molta scuola si sia come adattata a essere una grande agenzia di ‘badanza’: l’importante è che nessuno si faccia male, che non si verifichino incidenti tali da finire sui giornali oppure sì, si vada sul giornale e anche in televisione, grazie a un ‘evento’ che ha il potere di rompere la routine!
Contro questo rischio, io mi ritrovo invece a confermare amore e fiducia proprio nella routine della scuola, in una scuola forte proprio di come è giorno per giorno, della quotidianità che propone e vive, consapevole di essere, volere e poter essere, tempo e luogo a misura di infanzie vivibili, dove bambini e bambine possono essere quello che sono, e crescere, a partire da quello che sono.
Viviamo tempi tanto balordi, che ho fin letto di un illustre studioso che ha indicato in don Milani e Gianni Rodari i responsabili del progressivo degrado della scuola; vorrei passasse di qui, l’illustre studioso. Proprio qui, dove a me viene da dire, con la poetessa Marina Cvetaeva
Evviva i bambini nelle scuole,
che cresceranno più di noi!
I bambini della scuola di Pejo lo stanno già facendo.
4 commenti:
Emozionante questa testimonianza. Sentire parlare Giusi Quarenghi di questa scuola, mi ha fatto venire in mente quell'atmosfera da fucina scientifica del bellissimo libro di Lodi, Il Paese Sbagliato, dove il maestro e i bambini, il loro vissuto e l'esperienza quotidiana, divenivano punto di partenza per la crescita della comunità intera. Esseri pensanti, indipendenti, liberi di esprimersi senza vergogna né timori. Ma siamo sicuri che questa scuola debba chiudere???
«Ma siamo sicuri che questa scuola debba chiudere»???
Temo di sì. Credo valga la pena conoscere il perché:
Nello «schema di piano programmatico» relativo all’art. 64 del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) la soppressione delle scuole primarie con meno di 50 alunni è ritenuta necessaria perché «la polverizzazione sul territorio di piccole scuole non risulta funzionale al conseguimento degli obiettivi didattico-pedagogici, in quanto non consente l’inserimento dei giovani in comunità educative culturalmente adeguate a stimolarne le capacità di apprendimento e di socializzazione».
Al comma 6 dello stesso art. 64 è inoltre decretato che «dall'attuazione dei commi 1, 2, 3, e 4 del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l'anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l'anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l'anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall'anno 2012».
Grazie Cristiana e grazie Piero per la puntualizzazione.
Mi piacerebbe conoscere l'argomentazione dell'affermazione che le piccole scuole non risultano funzionali al conseguimento degli obiettivi didattico-pedagogici, in quanto non consentono l’inserimento dei giovani in comunità educative culturalmente adeguate a stimolarne le capacità di apprendimento e di socializzazione.
È andata sicuramente così: prima di tutto il ministero (dopo approfonditi studi e sentito il parere degli operatori) ha inconfutabilmente constatato che le piccole scuole non risultano funzionali al conseguimento degli obiettivi didattico-pedagogici; dopo (ma solo dopo) si è accorto (toh..!) che la loro soppressione (insieme ad altre misure) procurava al bilancio dello Stato economie lorde di spesa non inferiori a 456 milioni di euro per l'anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l'anno 2010, ecc.
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