venerdì 28 ottobre 2011

Che cos'è un uomo? Che cos'è un bambino?

Due domeniche fa, in auto verso sera, tornando dal fine settimana in campagna, ci siamo sintonizzati, come da tradizione, sulla bellissima trasmissione di Radio3 Rai, Hollywoodparty - Il cinema alla radio. La puntata era dedicata a un film che ha fatto epoca, influenzando in modo determinante l'immaginario del nostro tempo, cambiando il modo di pensare, scrivere, vedere rappresentare la fantascienza e, in generale, le visioni del futuro della razza umana. Sto parlando di Blade Runner di Ridley Scott, un film che immagino a tutti sarà capitato di vedere. E che devo, dire, riascoltare senza immagini, con la sola suggestione dei dialoghi e della musica, col buio, in autostrada, con le luci balenanti delle auto e quelle lontane di case e fabbriche, non ha mancato di provocare grande emozione. 



Ma il mio post non è dedicato a questo film, lo tocca tangenzialmente. Il fatto è che, mentre alla radio ascoltavo spezzoni di Blade Runner, e le interviste, i commenti di chi lo presentava, il pensiero è andato a un altro film, appena visto, Tomboy, della regista francese, Céline Sciamma, film che tratta di bambini e di identità sessuale con grande intelligenza.



A proposito di Blade Runner, il conduttore della trasmissione spiegava che Philip Dick, autore del racconto da cui il film è tratto, scrisse Do Androids Dream of Electric Sheep?, nel 1968, indotto dagli orrori della guerra del Vietnam a porsi ossessivamente la domanda di cosa fosse un essere umano e cosa no. Il tema dei replicanti, esseri imperfetti creati dall'uomo per essere copie perfette dell'imperfetto umano, e paradossalmente da loro poi considerati sottospecie di uomini, da eliminare senza remore, addirittura creati con una data di scadenza, viene da qui. E questo è, precisamente, il cuore del film, quello che tiene gli spettatori in uno stato di disagio e tensione costanti per tutta la durata del racconto, inchiodati a sperimentare un dissidio morale senza scampo. Quello fra dato di fatto (sappiamo che quegli esseri umani non sono umani) e dato emotivo (sentiamo che quei replicanti sono più umani degli umani). Ridley Scott impone allo spettatore l'esperienza paralizzante di questo conflitto, inducendolo a porsi in prima persona una questione etica di fondamentale importanza, e domande essenziali su cosa sia l'identità, e su cosa questa si fondi.

 È la medesima esperienza a cui la regista di Tomboy (traduzione inglese del termine maschiaccio) sottopone lo spettatore, mettendolo nella condizione di sperimentare il conflitto fra dato emotivo e dato di realtà.
È Laure, la protagonista di questo film, o non sarà invece Mickaël? sembra chiederci la regista. Sappiamo, incontrovertibilmente, che Mickaël è una bambina, ma sentiamo, altrettanto incontrovertibilmente, che Laure è un maschio. Siamo dalla parte della madre che di Laure afferma con forza il dato biologico? O dalla parte di Jeanne, la sorellina, che di Mickaël afferma l'esistenza, orgogliosa di un fratello che la ama e la difende? Anche qui siamo chiamati a rispondere a domande importanti. Cosa determina l'identità sessuale di un individuo? Quello che sente o quello che è? In questo sta, a mio avviso, la forza di Tomboy. Ci sarebbero tante altre cose da dire su questo film, ma credo che, raccontandole, si toglierebbe molto alla sua visione, che merita di essere affrontata senza saperne troppo, tanto il racconto è scarno, essenziale, diretto. Insomma, quello che consiglio è: andatelo a vedere. Ecco, un'altra cosa effettivamente c'è da dire: come al solito, colpisce la bravura dei bambini, che per l'ennesima volta si dimostrano attori senza rivali, a cominciare dalla strepitosa protagonista, Zoé Héran.




4 commenti:

isabel archer ha detto...

lo sapevate che il monologo finale del replicante (...ho visto cose che voi umani...) non l'ha scritto P.K.Dick? ho letto il libro da cui è tratto blade runner e non vedevo l'ora di arrivarci...e delusione non c'era!

carla ghisalberti ha detto...

LA GRAZIA
ho visto tomboy la settimana scorsa perché fofi lo ha citato incidentalmente, parlando di infanzie. Strano film che continua a girarmi nella testa e si sta scavando un posto nel mio cuore.
A parte una straordinaria somiglianza tra la protagonista e un'amica di mia figlia a quell'età che me lo ha reso subito familiare, l'altra ragione che non me lo fa dimenticare è il senso di partecipazione che ho avuto per tutto il film. a tal punto ero vicina a Laure che son entrata nel suo gioco e ho creduto con lei di essere qualcun altro. E mi sono ribellata al suo fianco, quando qualcuno le ha detto che la realtà era un'altra.
Tre caratteri dell'infanzia, semplicità, naturalezza e grazia, in questa storia nascondono il quarto elemento che contraddistingue un bambino: la profondità e complessità di pensiero. Non la si può e non la si deve lasciar andare. Cito: i bambini vanno ascoltati con occhi spalancati.
L'impercettibile sorriso della piccola lisa nell'ultima sequenza racchiude in sé la bellezza dell'essere bambini e dell'intero film.

Topipittori ha detto...

Esatto, Carla. E' così: profondità e complessità di pensiero.
Quando riusciremo a considerarlo un dato acquisito?

carla ghisalberti ha detto...

intendete 'dato acquisito', come è acquisito che tutti gli esseri umani sulla terra hanno pari dignità, o come è acquisito - per rimanere in tema - che l'omosessualità è una variante naturale del comportamento sessuale dell'uomo oppure come è acquisito che i miei biscotti allo zenzero sono i migliori in Occidente...
beh, non lo so, ma la strada è lunga perché i dati siano acquisiti... più lunga di quella che si fa per trasformare un papa in santo...