mercoledì 2 novembre 2011

I regni dell'immagine/ 3. L'arte non è che un mezzo per vedere

Foto di Henri Cartier-Bresson
Di questo libro ho parlato alcuni post fa. La ragione per cui lo propongo di nuovo, è una riflessione di Gianni Celati sul vedere che riprende alcune illuminanti affermazioni di Alberto Giacometti.

È interessante, a mio avviso, in queste parole, notare come Celati faccia coincidere capacità di vedere con capacità visionaria, mettendo la visione al centro dell'esperienza di incontro con la realtà, con il non conosciuto, come pratica nuda e diretta che espone a una conoscenza che implica precarietà, casualità, alterità, spiazzamento.

Leggere quel che Giacometti spiega del suo rapporto con il disegno, mi ha immediatamente riportato a una frase di Saul Steinberg: “Disegnare è un modo di ragionare”.



Il brano riportato di seguito è tratto dall'intervista di Sarah Hill a Gianni Celati che dà il titolo al volume di cui fa parte, Documentari imprevedibili come i sogni. Il cinema di Gianni Celati, allegato ai tre dvd di Cinema all'aperto.

S. H. Cosa vuoi dire quando dici “capacità visionaria”?
G. C. Nelle vecchie comunità c'era spesso qualcuno di cui si diceva che “avesse visto”, ossia che avesse avuto delle visioni. Sono percezioni che si caricano di forti intensità affettive o perturbanti, e diventano stati cosiddetti allucinatori. Ma non sono fenomeni molto rari, piuttosto sono continuamente rimossi, perché dipendono da stati troppo intensi della sensibilità. Leopardi diceva che agli occhi di un sensitivo dietro ogni paesaggio c'è un altro paesaggio, che si percepisce con la vaghezza o la indefinitezza dei fatti immaginativi. Comunque è la capacità visionaria che caratterizza la ricerca cinematografica e documentaristica, da Rossellini fino a Herzog. Io direi che si tratta di riuscire a servirsi delle immagini filmate come se fossero visioni di qualcun altro, come se venissero da un fondo di visioni anonimo e collettivo in cui si innesta.

Foto di Sabine Weiss
S. H. È questo il tuo modo di lavorare?
G. C. Mah, non so. La mia idea è che bisogna fare dei documentari imprevedibili come i sogni. Imprevedibili non solo per gli spettatori, ma anche e soprattutto per chi li fa. Bisogna restare del tutto spiazzati, e dopo, nel tormento visivo del montaggio viene fuori qualcosa di impensato.

S. H. Qual è il risultato di questi modo di vedere il documentario? A cosa ti portano?
G. C. Nel documentario c'è la possibilità di usare le immagini per compiere una ricerca su quello che vediamo, sulle cose che paralizzano o che trascinano lo sguardo. Un grande artista del XX secolo, Alberto Giacometti, aveva questa idea: “io disegno per capire cosa vedo”. 

Se copio un bicchiere su un tavolo – diceva – non disegno che una visione, cioè qualcosa che scomparirà fra un attimo, sostituita da una visione diversa di quel bicchiere. Dunque quello che si disegna (o si filma) è solo la traccia di un'immagine che arriva alla coscienza, ma appena c'è un po' più di luce, o un colore diverso, potrebbe risultare una cosa del tutto diversa. Tutto quel che riguarda il vedere è sempre sul punto di trasformarsi in qualcos'altro. Giacometti diceva: “L'arte non è che un mezzo per vedere. Qualunque cosa guardo mi sbalordisce, e io non so esattamente cosa vedo. Allora bisogna cercar di copiare semplicemente, per rendersi un po' conto di quel che vediamo”. E un'altra cosa che diceva, in un'intervista: “C'è molta gente che trova la realtà banale e pensa che le opere d'arte siano più belle. Una volta io andavo al Louvre e i quadri mi davano sempre l'impressione del sublime. Adesso vado al Louvre, e non posso fare a meno di guardare la gente che guarda le opere d'arte. Il sublime per me adesso sta nelle facce di quelli che guardano”.

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