martedì 8 maggio 2012

I regni dell'immagine/ 7. Dentro un quadro

La sera successiva a The cave of forgotten dreams (di cui abbiamo scritto qualche tempo fa), ancora cinema: questa volta siamo andati a vedere I colori della passione il film che il regista polacco Lech Majewski ha dedicato al celebre quadro La salita al Calvario (1564), di Pieter Bruegel il Vecchio. Due film diversissimi, ma che trattano entrambi della necessità umana di trasfigurare l'esperienza della realtà in racconto e visione. Due film che potrebbero tranquillamente bastare per i prossimi sei mesi, se frequentare le sale cinematografiche non ci piacesse come ci piace.

Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio, 1564. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.

I colori della passione è un film bello e complicato: per i temi che affronta (il rapporto fra realtà e rappresentazione, fra destino collettivo e individuale, fra Storia e storie, fra arte e potere), e per i riferimenti storici e culturali che implica (uno dei periodi più tragici e violenti della storia d'Europa, straziata dall'intolleranza e dalle guerre di religione).




Durante la conferenza stampa di presentazione del film, il regista ha spiegato che quando era adolescente trascorreva le vacanze estive a Venezia. Compiendo il viaggio in treno, tappa obbligatoria era Vienna, dove il Kunsthistorisches Museum rappresentava un appuntamento imprescindibile. Il quadro di Bruegel era esposto nella sala 10 del museo. Fu allora che si instaurò un particolare rapporto fra il regista e il dipinto che rivisita la passione di Cristo. Osservandolo, Majewski avvertiva un irresistibile invito a entrare nella tela, a osservare le storie inerenti a tutti quei protagonisti inconsapevoli. I colori della passione nasce da qui (ascoltate le parole di Majewski sulla pittura di Bruegel perché sono strepitose).



Ho avuto la fortuna di vivere, da bambina, in una casa dove c'erano molti libri d'arte, posizionati, fra l'altro, su un comodo scaffale dove io e mia sorella arrivavamo senza difficoltà. Il nostro preferito era un librone, L'evoluzione dell'arte (curato da Germain Bazin, conservatore capo del museo del Louvre, ed edito da Garzanti)  che partiva dalle pitture rupestri per arrivare ai grandi maestri del Novecento, da Picasso a Pollock.

Un corridoio di immagini che frequentavamo con assiduità e gusto, perdendoci nell'osservazione delle epoche e degli stili che a seconda dell'umore prediligevamo, fra paraventi giapponesi, teschi aztechi incastonati di turchesi, saliere del Cellini, tappeti persiani, affreschi rinascimentali, gioielli sciti, vedute ottocentesche, legature bizantine, cammei greci, turneriani mari in tempesta. La nostra educazione artistica aveva anche un giorno della settimana dedicato: la domenica, quando, nostro padre ci portava, e fin da piccolissime, nei grandi musei milanesi - Brera, il Castello e l'Ambrosiana - a vedere la pittura.

L'evoluzione dell'arte, Germain Bazin, Garzanti, 1962.
A me piacevano le nature morte coi fiori, la frutta, i pesci, gli strumenti musicali, e i ritratti, con quei visi forti e malinconici che sembravano di persone vive, ma invece erano vissute centinaia di anni prima. Anche i quadri con le storie della Bibbia o del Vangelo erano interessanti con le scene spesso drammatiche e misteriose rappresentate, oppure i dipinti d'oro, con parate di santi e sante, angeli, re e regine, dame e cavalieri con in mano fiori  o oggetti strani (alcuni tenevano intere città in un palmo), drappeggiati in tessuti ricamati e colorati splendidamente. O i quadri con le battaglie, le cacce, pieni di cavalli, cani, corazze, lance. Poi c'era anche un'altra categoria di quadri che mi piaceva: quella delle pitture brulicanti di personaggi indaffarati nelle più diverse attività. Categoria di cui, appunto, fa parte il dipinto di Bruguel che è il perno della narrazione, nel film.

L'evoluzione dell'arte, Germain Bazin, Garzanti, 1962.
Mio padre ci spiegava che di quel genere di quadri erano maestri i fiamminghi, pittori insuperabili nella rappresentazione della luce e della realtà, nei suoi minimi dettagli. A me, oltre a sembrare bellissima quella parola, fiamminghi, che immaginavo volesse dire qualcosa come “cavalieri di fuoco”, pareva insuperabile il piacere di guardare una per una le scene che gremivano la tela ed erano inesauribili. Affacciandomi oltre la cornice del quadro, sporgendomi sul tempo inattingibile che vi era rappresentato, mi chiedevo molte cose. Chi erano quegli uomini e quelle donne? Come vivevano? Cosa stavano facendo? Come mai vestivano in quel modo? Cosa stavano pensando? Cosa era successo dopo l'istante in cui il pittore aveva fermato la scena, quando la vita aveva ripreso a scorrere? Che paesaggi si aprivano, oltre la cornice del quadro?
Apprendere che il film di Majewski sia nato da questo tipo di riflessioni e interrogativi, e affondi le radici nella giovinezza del regista, mi ha colpito, confermandomi che la pittura è uno strumento pedagogico imprescindile, capace di offrire punti di vista e suscitare spontaneamente domande profonde e importanti in chi la osservi, anche senza una specifica preparazione, ma solo con l'attenzione e la curiosità di un bambino, di un ragazzo.

Simone di Cirene, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.
Compiendo un passo entro e oltre la cornice, Majewski conduce l'osservatore nello spazio vivo della rappresentazione, portandolo, passo passo, istante dopo istante, nello spazio e nel tempo della finzione. Insieme allo spettatore, nel quadro affollato di una moltitudine di personaggi passeggia e discorre anche il suo creatore, Bruegel in carne e ossa, insieme, di tanto in tanto, al committente dell'opera stessa.

Il carro dei ladroni, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.

La prima impressione che ho provato, una volta nel quadro, è stata di paura: una angosciata inquietudine, percependo quel paesaggio sempre identico a se stesso, nelle differenti vedute, come un labirinto senza uscita dove i personaggi erano destinati a rimanere chiusi, in tragica attesa del compiersi dell'evento cruciale che il pittore era stato chiamato a rappresentare.

Le croci, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.

Per accumulo, e in un elenco puntuale, momento dopo momento, il regista porta in scena tutti i personaggi che faranno parte della scena finale, o quelli che non ne faranno parte, ma le cui azioni la determineranno o che, semplicemente, il caso ha portato a sfiorare l'evento, per mancarlo e perdersi un attimo dopo nel nulla del vuoto oltre la cornice. Tutto si svolge in un clima di attesa, in una sospensione e in una luce surreali, come al prepararsi di un imprevedibile, inspiegabile evento meteorologico o astronomico.

La vergine e le pie donne, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.

Finché piano della Storia e narrazione evangelica si incrociano, fondendosi inestricabilmente sotto lo sguardo attento dell'artista, testimone delle feroci e silenziose atrocità compiute davanti i suoi occhi dai soldati spagnoli sulla inerme popolazione. C'è un momento, nel film, in cui la presenza dell'artista e il suo sguardo chiariscono la propria funzione. È quando il committente chiede a Bruegel se sarà in grado di rappresentare l'efferata violenza di cui le Fiandre sono vittima, per darne la necessaria testimonianza.
L'artista risponde affermativamente e, proprio in quel momento, a un suo gesto (e a un gesto parallelo di Dio, rappresentato come Grande Mugnaio che osserva tutto dall'alto di un metafisico mulino del Tempo) ogni cosa si ferma, ogni movimento cessa, ogni personaggio si blocca nella posizione e nei gesti rappresentati dalla Salita al Calvario.

Il mulino, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Fotogramma dal film, I colori della passione di Lech Majewski, 2011.

Bruegel spiega: il soggetto del quadro è la caduta di Cristo che sale al Calvario. Ma è l'osservatore esterno al quadro, colui che guarda, ad avere coscienza di questo. I personaggi che vivono entro la cornice, non lo sanno. La caduta di Cristo è solo uno dei molti episodi che accadono in quel momento, in quella porzione di spazio, confusi nel caos della Storia, delle storie, della vita, del Tempo. Per questo i personaggi non sono in grado di rendersi conto di quel che accade intorno e della sua gravità.
Spiega Majewski, durante la conferenza stampa: “Ti possono accadere davanti agli occhi anche le cose più importanti, però tu non le vedi, non le noti, non riesci ad andare oltre la punta del tuo naso. Se Icaro (soggetto di un altro quadro di Bruegel, ndr) ti cadesse al fianco, non te ne accorgeresti perché sei preso dalla routine quotidiana.”

Non solo. Credo che, nella scelta di questa modalità di rappresentazione, vi sia anche un altro aspetto fondamentale: la storia di Cristo, in questo modo, diventa davvero, letteralmente, visivamemente, quella di uno dei tanti uomini che si muovono nel dipinto, fra l'indifferenza della folla. Un destino tragico, perché silenzioso e inascoltato, e comune perché sullo stesso piano di tutte le altre vicende umane, nel flusso della Storia.

La caduta di Cristo, dettaglio della Salita al Calvario, Pieter Bruegel il Vecchio.
Solo per questa riflessione mi è parso che vedere questo film, - bello, difficile, duro - sia stato importante. Ha risposto con esattezza ad alcune domande che mi ponevo da che ho cominciato a osservare le immagini, dei quadri e non.

5 commenti:

isabellalabate ha detto...

Grazie, bellissimo post. Mi è venuto in mente un episodio di molti anni fa. Ero nella claque di un giovane autore e regista teatrale di Savona, Pippo Delbono, allora emergente.
Assistivo alle prove di un suo spettacolo, "La rabbia". In una scena, arrivava uno strepitoso Gustavo Giacosa vestito come la Carrà, a cantare in playback una sua canzone degli anni 70. Presa dall'interpretazione di Gustavo, mi sono accorta solo dopo qualche minuto che in fondo al palco, un militare stava torturando un prigioniero. Ho iniziato a tremare. Pippo aveva raccontato che in Argentina, negli anni 70, la gente non sapeva nulla dei desaparecidos dai media, dove invece spopolava la Carrà…

isabel archer ha detto...

il film (perchè non ne sapevo nulla?) mi affascina molto. appena esce qui vado di certo.

Arianna Favaro ha detto...

Segnalo, nella bella cornice di Villa Olmo a Como, la mostra 'La dinastia Brueghel', aperta fino al 29 luglio.

http://www.grandimostrecomo.it/la-mostra-in-corso

Arianna

Studio Fludd ha detto...

WoW.

Studio Fludd ha detto...
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