giovedì 25 ottobre 2012

Fra peluche e cinismo

Della bella rivista bimestrale Gli asini. Educazione e intervento sociale abbiamo già parlato qui. Allora, questo intrepido giornale era al suo secondo numero. Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto dal direttore, Luigi Monti, la notizia dell'uscita del numero di settembre, l'undicesimo. In quarta di copertina, parole lucidissime che non si possono non sottoscrivere. Sono tratte da un articolo dal titolo Fra peluche e cinismo, di Giuseppe Montesano, scrittore, insegnante e filosofo napoletano, di cui vi riportiamo, in accordo con Gli asini, che ringraziamo, un lungo brano:  vi consigliamo caldamente di leggerlo. Se siete interessati ad abbonarvi a Gli asini, andate qui. In fondo all'articolo, l'indice di questo numero, con tutti i contributi presenti.


Da Fra peluche e cinismo di Giuseppe Montesano


Io sono un privilegiato: insegnando al liceo la mia platea è diversa da quella delle scuole medie, degli istituti tecnici e professionali. Piccola e media borghesia. È più facile lavorare. Ma la vera realtà delle scuole tra Napoli e Caserta è quella dell’obbligo: lì la catastrofe è già avvenuta, nel senso che tutte le tecniche pedagogiche non hanno senso quando intorno non funziona niente e la scuola non ha un ruolo centrale nella società, ma ne è soltanto un’appendice; quindi il suo malessere è solo sintomatico di un male più vasto ed enfatizzare le responsabilità della scuola è una fissazione da politici, per scaricare le responsabilità. Bisognerebbe stare più zitti, fare quel che si può fare nel piccolo, nel quotidiano, far circolare idee, far leggere, far vedere cose, sia ai piccoli che ai grandi: i ragazzi sono avidi di sapere, di conoscere, però non lo sanno finché non lo vedono, non lo vivono, non sanno quello che desiderano davvero. L’adolescenza è un’età in cui si può ancora cambiare, è forse l’ultima possibilità, ma quando si vede quello che viene offerto a chi potrebbe cambiare, si capisce che il risultato non può che essere sconfortante.


Loro, i ragazzi, continuano beatamente e tristemente e in modo depresso a essere ignoranti, non sulle cose scolastiche soltanto ma sul mondo, e qui si apre la questione se sia la scuola a dover fare la parte della società, se debba sopperire alle sue mancanze, se debba raddrizzarne le storture: io sinceramente credo di no. La scuola deve dire per esempio chi è Platone, non può non dirlo, e non solo perché sta scritto nel misero programma ministeriale, ma perché è il suo unico compito, la sua unica chance, deve spiegare la geografia astronomica, i terremoti, i pianeti, le cose elementari e importanti della cultura. Però si tratta di un punto di partenza, quando invece è considerato il punto di arrivo, diventando così una stupida gabbia, e non un grimaldello per aprire la gabbia. Questo non succede solo perché molti insegnanti sono pigri, ripetitivi, figli di questa società e quindi uguali agli alunni, ma anche perché gli alunni adolescenti hanno sì una grande potenzialità, che gli insegnanti, adulti, in genere non hanno più, ma questa energia spesso non sanno nemmeno di averla e non sanno che possono usarla per sapere e capire il mondo: tutto gli insegna, dalla scuola alla famiglia alla società, che il mondo devono solo accettarlo senza capirlo. Poi tra gli insegnanti ci sono i soliti “incomprensibili”, come li chiamo io, persone che spontaneamente hanno voglia di resistere, di mettersi in gioco, di usare la propria vita per fare qualcosa, perché avvertono la sensazione di essere altrimenti dei vigliacchi. Credo che questo valga per tutti, non solo per studenti e insegnanti, e se qualsiasi persona che vive qua in Campania avvertisse profondamente questo turbamento, si comporterebbe diversamente già con i figli a casa, con le altre persone: non va dimenticato che i ragazzi vengono educati per strada, in discoteca, in mille altri modi, ma soprattutto a casa, in famiglia, dove per famiglia io però intendo una cosa malefica, che qui è ancora molto più forte di quanto si immagina: la famiglia allargata, l’ambiente. Non a caso i grandi gruppi criminali si chiamano “famiglie”, quella cosa che tende a risucchiarli nel già fatto, già visto, già vissuto, già pensato.


Isole a Gomorra
Il familismo è ossessivo, una specie di sistema, di meccanismo, fatto per riassorbire qualsiasi cosa metta in crisi questa catastrofe organizzata che va avanti sulla base di un equilibrio folle, delirante se visto dall’esterno, ma normale per chi ci vive dentro; è una forma di normalizzazione dell’assurdo che tende anche ad “aiutare” perversamente le persone, purché non mettano in discussione questo modello culturale. Per esempio, la scuola in certe zone del casertano dice all’alunno di non preoccuparsi, spiega che in cambio del fatto di non dare fastidio la vita sarà comoda, è semplicemente un meccanismo quotidiano della società che si è completamente impadronito di un’isola, perché la scuola è un’isola, e dal mio punto di vista farebbe meglio a restare un’isola: visto che non possiamo avere la “scuola che vogliamo”, allora meglio isolata piuttosto che ingoiata da questo tipo di società locale e forse ormai globale.
È meglio l’isolamento da questa società dell’illegalità legalizzata che toglie ai ragazzi il respiro, gli toglie qualsiasi forma di diversità possibile; i grandi titoli dei giornali parlano sempre del folclore criminale, non parlano mai della cosa più interessante, cioè l’illegalità diventata legale sia tecnicamente, nella società, ma soprattutto nella testa delle persone.


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È una mutazione profonda e grave, che rende difficile ogni discorso, ogni ragionamento, perciò da queste parti diventa difficile arrivare al piano etico: ed è per questo che da queste parti «etica» è una parola ipocrita, utilizzata da coloro che ne sono la negazione; una parola che più viene detta, ripetuta, utilizzata dal gruppo familista – che va dal politico all’ultimo dei custodi di edifici pubblici – e meno diventa reale nei comportamenti, nei gesti, nella vita quotidiana delle persone. Ma anche nella dimensione privata, nelle relazioni affettive tra i ragazzi, con le famiglie, che spesso sono o disastrosamente assenti o iperaffettive in senso falso: “Faccio finta di darti tutto perché in realtà non ti sto dando niente di essenziale”, oppure conflittuali in maniera aperta, totale: “la giungla è fuori casa e io la porto anche dentro”, anche se questo è più raro.
Quello che una volta si chiamava proletariato o sottoproletariato ha gli stessi comportamenti della borghesia caramellosa e fasulla: comportamenti tipici di ceti sociali falsificati e falsi per natura e storia, quelli della borghesia culturalmente intesa (“fatti i fatti tuoi e arraffa quel che puoi tramite parenti e politici”) si spostano dentro la giungla dell’ex proletariato o “popolo”, il che non ammorbidisce la giungla, né la coltiva, né funziona da lenitivo, ma aumenta soltanto la scissione dentro le persone e tra le persone. 

Andate, ma davvero, per esempio come insegnanti, a Scampia o al Parco Verde o al Villaggio Coppola: i ragazzini che nella criminalità ci vivono da sempre anche se non sono tecnicamente “criminali” sono completamente spaccati a metà, tra l’orsetto di peluche comprato all’ipermercato e lo spaccio pomeridiano nei luoghi delle periferie coatte, tra bisogno di affetto morboso, infantile, con un’età mentale e affettiva di tre anni, e un’età reale, fisica, di quaranta, e quaranta vissuti nella totale alienazione da bello e bene. Un ragazzino di tredici anni di certe scuole medie di Scampia oscilla tra un bambino affettivamente disastrato e un adulto disastrato, per cui ha un cinismo da adulto, il peggiore possibile, e nello stesso tempo una fragilità morbosa dal punto di vista affettivo: veramente un miscuglio tragico. Il ragazzino che vorrebbe essere cullato e amato è lo stesso che dice al compagno “devi morire, ti uccido”, che utilizza la legge del più forte, l’unica filosofia nuova che si sta spandendo dal basso, il che è terrificante, perché questa era la filosofia predatoria e semi-segreta delle classi alte del liberismo ideologico, mentre adesso è filosofia di massa. Di fronte a questo forse valgono sempre le stesse cose, cioè le isole, le minoranze, i singoli, che però non devono restare soli. “Là dove sarete in tre, io ci sarò”, recita un passo degli Apocrifi; non troppi, perché presto diventano massa, ma non uno solo, e nemmeno due, cioè la coppia: il Cristo avventuroso e tagliente degli Apocrifi sa che la coppia può diventare l’inizio di ogni trappola familista, l’origine di ogni egoismo cieco. Nello stesso tempo il Cristo straccione non chiede mai astratti e impossibili sacrifici, e dice di amare il prossimo “come se stessi”, non ipocritamente più di se stessi: chiede un lavoro psicologico su di sé, non chiede la menzogna untuosa e politica della religione.  E qui, senza alcuna coltivazione delle persone e dell’io, la violenza divenuta filosofia inconscia e incosciente (ma ormai attraverso il liberismo ideologizzato e vincente anche apertamente propagandata) disgrega le regole non per farne altre, ma per sopravvivere in mezzo alle macerie. Altrove forse la violenza è più attutita, ma le dinamiche e le mentalità sono identiche, da almeno trenta quarant’anni questo posto è diventato come tutti gli altri.