giovedì 4 ottobre 2012

L'antico “buon esempio”

Che differenza c'è fra insegnare ed educare?
Alla domanda fornisce elementi per una risposta Monsieur Lazhar, protagonista del film del regista canadese Philippe Falardeau. Trasposizione cinematografica della pièce Bashir Lazhar di Évelyne de la Chenelière, il film nel 2011, ha meritatamente conquistato al Festival di Locarno il Premio del Pubblico e il premio Variety Piazza Grande Award.
Monsieur Lazhar racconta la storia di un rifugiato politico, in fuga dall’Algeria dopo l'uccisione della sua famiglia, che, giunto in Québec, trova lavoro in una scuola elementare come sostituto di un’insegnante che si è suicidata in classe, all'alba, prima dell'ingresso dei bambini in aula. Gravemente traumatizzati dall'evento, insegnanti, genitori e bambini fanno fronte al lutto che li ha colpiti ciascuno secondo modalità proprie.




Gli adulti, incapaci di accettare l'irrompere della morte nel loro orizzonte quotidiano, e terrorizzati dalle sue ripercussioni sulla scuola e i figli, appaiono congelati in un'applicazione diligente dei protocolli scolastici secondo i quali tutto deve procedere come se nulla fosse successo. Dominati dalla preoccupazione che i piccoli “superino” il trauma, schermandosi dietro asettici saperi psicologici e pedagogici rivelano una fondamentale incapacità di risposta umana, personale ed emotiva, finendo per censurare il bisogno dei bambini di capire e chiedere, e lasciandoli in questo modo, paradossalmente, soli ad affrontare un evento la cui prima caratteristica è di apparire assolutamente imprevedibile e inspiegabile. Segnato da una sciagura personale terribile, e legato una cultura di riferimento più arcaica, dove violenza e morte fanno parte della vita, l'outsider Monsieur Lazhar è, quindi, l'unico adulto in cui i bambini trovano, in questa situazione, un riferimento possibile e solido.



Fermo, tranquillo, onesto e schietto, questo insegnante d'altri tempi, affascinato dalle moderne tecniche di insegnamento delle giovani colleghe (a cui cerca con umiltà di adeguarsi), ha il coraggio di accettare le difficoltà che il rapporto fra allievi ed educatore comporta, assumendosi la responsabilità di fornire risposte adeguate e oneste, accettando un ruolo autorevole, fidandosi dell'intelligenza dei bambini nel saper far fronte sia ai problemi dall'esistenza sia alle difficoltà scolastiche. I risultati infatti non tardano ad arrivare, non solo in termini di resa scolastica.

Tutto ciò dovrebbe essere valutato come positivo, se non che Monsieur Lazhar e il suo metodo trovano fieri oppositori fra gli adulti che hanno a che fare con la scuola, fra gli altri, la psicologa incaricata ufficialmente di far superare il trauma ai bambini, nonché un cospicuo numero di genitori. Quello che si imputa a questo strano maestro è, nientemeno, di fare quel che da sempre i maestri fanno: ovvero, educare. Come viene detto durante un vivace colloquio con due genitori particolarmente determinati: “Vorremmo che lei insegnasse ai nostri figli e non che cercasse di educarli.” Sarà che in questo periodo sto ascoltando e riascoltando le puntate che Radio 3 Rai ha dedicato a Maria Montessori e al suo pensiero di inesauribile ricchezza, ma la sola idea che si possa fare una simile affermazione, e con l'arroganza delle certezze indiscutibili, mi lascia di stucco.


Riporto quel che appare su wikipedia alla voce paideia:

παιδεία, paidèia, nel quinto secolo avanti Cristo significava allevamento e cura dei fanciulli, diventava sinonimo di cultura e di educazione mediante la cultura; era il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo.

Cosa sia successo dal V secolo a oggi, per indurre dei genitori (non solo nel film in questione, non solo nel civilissimo Quebec, ma in tutto l'Occidente e nella realtà), a temere l'influenza dell'educazione sui loro bambini, dovrebbe rappresentare motivo di riflessione.

Un pagina di Marcello Bernardi, tratta da Sessualità, educazione et alia, aiuta a capire quali ombre, a dir poco inquietanti, covino dietro a queste paure:

Educare deriva dal latino ex-ducere. Che significa  condurre fuori, ovvero far venire fuori. Educare qualcuno vuol dire perciò far venire fuori da lui ciò che è dentro di lui. In altri termini, vuol dire aiutare qualcuno a esprimere se stesso, a essere quello che è, a comportarsi in modo conforme alla sua personalità. Posto che si voglia accettare l'etimo di una parola e il senso che ne consegue. In pratica l'educazione sarebbe esattamente il contrario di ciò che comunemente si intende con questa parola, sarebbe un far uscire e non un mettere dentro, sarebbe un rafforzare la personalità dell' educando e non un formarla (forgiarla addirittura, dicevano i fascisti), sarebbe un rispettarne l' originalità e non il costringerla in un modello. Ne conseguirebbe che le norme valide per ogni individuo possono essere soltanto quelle che l'individuo stesso si dà, quelle che l'individuo stesso elabora e che decide, in modo autonomo, di adottare come guida dei suoi propri comportamenti. Le altre, quelle imposte dall'esterno, non hanno validità alcuna. Alle volte vengono accettate, anche seguite, ma per paura o per convenienza. Sicuramente non perché hanno in qualche modo cambiato una persona. “La legge” diceva un magistrato, “non ha mai fatto diventare onesto nessuno”. Aiutare qualcuno a essere e a esprimere se stesso, dicevamo. Ma come? Pare che ci siano due strade sole. La prima sarebbe quella di permettere all' individuo di arricchirsi, di sviluppare le proprie doti, di imparare, dunque di accumulare, esperienze. La seconda sarebbe quella di essere noi medesimi, noi educatori, quello che in effetti siamo, con lealtà, senza recitare una parte, in maniera tale da fornire all'altro, all' educando, una entità umana cui fare riferimento, con cui misurarsi ed eventualmente confrontarsi.
 L'antico “buon esempio”, non obbligatorio da seguire, ma obbligatorio da dare. Una componente ambientale umana che mostri all' individuo il rispetto per tutti, la comprensione, la solidarietà, la giustizia, è educativa. Un ambiente che imponga le stesse virtù mediante la legge non lo è. Una educazione così concepita sarebbe una gran bella cosa, a parer mio, per educandi ed educatori. Gli uni e gli altri scomparirebbero dal vocabolario, perché se è vero che l'adulto può aiutare il bambino a evolvere e a dare il meglio di sé, parimenti è vero che il bambino può aiutare l'adulto. Tutti saremmo educatori ed educandi insieme, nessuno starebbe sopra e nessuno sotto, e forse una qualche possibilità di miglioramento della condizione umana spunterebbe al nostro, per ora desolato, orizzonte. Una educazione così concepita non si porrebbe il fine di far diventare tutti eguali fra loro e ai loro predecessori, tutti servi e padroni allo tempo stesso, tutti soggiogati ad un unico potere sovra-umano e disumano, ma si porrebbe il fine della distruzione del potere. Condizione imprescindibile per la nostra sopravvivenza come persone.
 Una educazione così concepita sarebbe un atto d' amore, e solo questo.




Monsieur Lazhar
è una storia molto bella, che drammatizza questi temi e aiuta a pensarli.
 Nell'intervista che trovate qui sotto, il regista, Philippe Falardeau, spiega: “Nonostante in questo film il sistema scolastico sia criticato, questo film è un omaggio agli insegnanti.” E anche su questo vale la pena di riflettere.


2 commenti:

Anna ha detto...

Ho visto il film qualche mese fa. Mi era piaciuto.
Io ho avuto il privilegio di avere un maestro che ci ha "educati".

Cristina Sestilli ha detto...

Ho visto il film e mi è piaciuto molto.
L’esasperazione del comportamento dei genitori, non so per quale motivo, mi ha ricordato la maestra a cui voglio un mondo di bene.
In situazioni particolari ed estreme, agiva con lo scapaccione, non ti toccava la nuca, era una sorta di volata d’aria che smuoveva i capelli.
I maschi erano i più colpiti da queste volate d’aria improvvise.
Uno in particolare aveva l'abitudine di spiluccare la pizza al pomodoro da sotto il banco durante la lezione e con le mani unte e bisunte creava una sorta di patina impermeabile al fiocco e delle grandiose macchie sul quaderno profumate alla pizza.
Quando ungeva il foglio del compagno di banco, partiva l’avvertimento.
Ne presi uno anche io.
La mia compagna di banco mi disse una cosa, io cominciai a ridere talmente tanto che mi ribaltai con la sedia all'indietro cadendo fragorosamente sul pavimento. La maestra prima si avvicinò preoccupata, dopo aver controllato che stavo bene mi diede lo scapaccione. Non rimasi male, anche se era il primo che ricevetti, mio padre e mia madre spiegavano le cose con le parole non con le mani e ricordo di non essermi lamentata con loro di questo, sapevo di averlo meritato.