venerdì 7 dicembre 2012

Quando arrivano le tate

Il nuovo numero di Hamelin ci è arrivato da qualche giorno. Tema: Nuovi tabù: l'infanzia ovvero “mettere i bambini dappertutto per non metterne nessuno da nessuna parte”. Tante le cose interessanti. Nicola Galli Laforest analizza la perversa e invalsa abitudine degli editori italiani di sbattere in copertina di romanzi, esangui e malinconici visetti di ragazzini, sollecitando il fanciullino mai sopito che dorme in ogni adulto. Sua e di Barbara Servidori anche una interessante intervista alla come sempre angolosissima Anne Fine. Giordana Piccinini riflette su cosa significa raccontare l'infanzia, soffermandosi sul pensiero che “i racconti di infanzia più autentici sono quelli in cui non accade quasi nulla in superficie”, e trattando anche della nostra collana Gli anni in tasca. Poi ci sono belle pagine di Mariangela Gualtieri a proposito di cosa sia la poesia. Altrettanto belle e interessanti quelle di Nicoletta Gramantieri su cosa poi ce ne facciamo di questa benedetta poesia. E una nota speciale meritano le magnifiche illustrazioni di Viola Niccolai, disseminate per tutto il numero per la gioia degli occhi dei lettori.

Il logo della trasmissione italiana, S.O.S Tata.
Ma l'articolo su cui oggi soffermo l'attenzione è S.O.S. Arrivano le tate di Ilaria Tontardini, dedicato alla  celeberrima trasmissione S.O.S Tata (format Usa, Nanny 911). E lo faccio per diverse ragioni. La prima è che, proprio come Ilaria, finché ho avuto la TV ho seguito questo programma. La seconda è che una delle persone di cui nell'articolo Ilaria fa menzione sono io (“Non avevo dato tanto peso alle tate fino a che non ho sentito da più voci – stimate e molto diverse fra loro – apprezzamenti positivi di vario genere.”). La terza è che l'articolo affronta un medium che nel nostro ambiente è poco preso in considerazione, la televisione, in cui i bambini non solo appaiono con frequenza, ma di cui sono avidi consumatori (come dimostrano anche quelli della trasmissione in oggetto). La quarta è che l'articolo di Ilaria è brillante e interessante. La quinta è che il mio punto di vista sulla trasmissione è sensibilmente diverso dal suo. 

Il logo della trasmissione americana, Nanny 911
 L'articolo di Ilaria si sofferma sulla modalità di svolgimento del programma, mette sotto esame il linguaggio e i comportamenti delle tate, in particolare della loro decana, la poderosa Tata Lucia, descrive i comportamenti delle famiglie e, argomentando con competenza su temi pedagogici cruciali del nostro tempo (autonomia, regole, rispetto ecc.), tira le fila del discorso. L'articolo andrebbe letto per intero, dato che è ricchissimo di spunti, purtroppo qui io mi limiterò a riportarne un brano.

S.O.S Tata vuole stimolare la catarsi: i disastri altrui ci sollevano dai nostri. Se la famiglia Cerrato è sopravvissuta alle grida di Rachele che non vuole riordinare la stanza (che poi risistemerà), possiamo farcela tutti. Si tratta di uno specchio molto inquietante della nostra realtà. Perché è chiarissimo che in questo programma tutto è finzione e per questo reale come non mai. Cela un desiderio di perfezione di cui siamo tutti vittime: quello che va dal corpo scolpito di una ventenne che può essere riguadagnato con una crema anche a sessant'anni, ai figli impeccabili, belli, buoni e sedati. A suon di puntate. Bastano poche – ci si accorge presto di una assenza: non ci sono i bambini.  

 Tata Lucia.
A essere precisi il bambino è l'ingombrante presente, il fulcro della trasmissione che senza di lui non esisterebbe: il movente delle chiamate è sempre una prole problematica, descritta con abilità da montaggi televisivi serrati e sicuramente efficaci. […] Ma di queste creature cosa resta? L'immagine di una performance atletica che ha per movente il capriccio, la forza di una presenza attoriale. 

La risposta del programma è un senso fortissimo di medicalizzazione dell'essere piccoli: l'infanzia è problematica e se c'è un problema questo va sciolto. Con un diktat, un gioco a punti, una cameretta nuova, il bambino va ricondotto a uno schema che consenta agli adulti di saperlo contenere. Di capirlo o ascoltarlo non se ne parla. “Ascoltare o ubbidire” dice Tata Lucia alle due sorelle Guerra: una affermazione che ha sicuramente una sola direzione, che nega a priori l'idea di un dialogo. L'infanzia viene estromessa come soggetto dal ragionamento, ne è l'oggetto, non ha diritto di parola.

Francesca Valla, Renata Scola, Lucia Rizzi
Come ho accennato poco fa, non guardo S.O.S Tata da alcuni anni. Pertanto le mie impressioni si fondano sulle prime serie: non so se vi siano stati dei cambiamenti e in che direzione eventualmente  siano andati. Ma prima di parlare del programma, mi voglio soffermare sulle figure di alcune famose tate.
Dopo il clamoroso ingresso della Mary Poppins di Pamela Travers nella letteratura per ragazzi, la tata, infatti, si può dire abiti stabilmente il nostro immaginario.
Lo ha fatto e lo fa attraverso numerose incarnazioni, e si può dire sia diventata una vera e propria star del piccolo e grande schermo.

Mary Poppins, dal romanzo di P.L.Travers, 1964,
con Julie Andrews, regia di Robert Stevenson.
Il film prodotto da Walt Disney tratto dal romanzo della scrittrice australiana ha fissato alcune delle fondamentali caratteristiche di questa creatura che si muove negli interni domestici a metà fra la fiaba e la pedagogia avanzata. Perché se i genitori sono pronti a dare fiducia solo a curriculum consolidati e a personalità energiche, i bambini si fidano sempre, e solo, di chi sa entrare in relazione rispettosamente con il loro mondo di sogni e pensieri, in cui la fantasticheria e l'impossibile sono di casa. Come Mary Poppins, appunto.
La governante della famiglia von Trapp di Tutti insieme appassionatamente, girato l'anno dopo Mary Poppins, e intrepretata guarda caso ancora da Julie Andrews, non fa che asseverare il concetto.
Oltre a ricostituire l'unità di una famiglia depressa da un grave lutto, guadagnandosi la fiducia di tutti i figlioli di casa, impalma anche il seducente e inconsolabile papà vedovo, ex comandante della Marina Imperiale Austriaca, amante dei monti e delle stelle alpine.

Tutti insieme appassionatamente, 1965,
tratto dal musical The sound of Music
di Richrads Rodgers e Oscar Hammerstein II,
regia di Robert Wise, con Julie Andrews.
È quel che accade anche nella sitcom anni Novanta La tata, dove la procace e mattissima Fran (Francesca Cacace from Frosinone) oltre a risolvere, con spiccio buon senso e creativa eccentricità i più spinosi problemi di una famiglia di abbientissimi del mondo dello spettacolo, gli Sheffield, finisce per convolare a giuste nozze con il papà della prole, fascinoso produttore di Broadway. In altre produzioni, l'avvenenza della tata si volge nel suo esatto opposto: la tata è brutta, bruttissima. Ma dentro è bella, bellissima e questa bellezza interiore fa sì che nessuno la veda più come tale e la insignisce del titolo di più amata, cosa che finisce per cambiarne persino i connotati.

The Nanny, sitcom anni Novanta che racconta,
le avventure di Fran Fine (Fran Drescher).
Letteralmente è quel che accade nel film Nanny McPhee, dove nel corso del film bitorzoli e gobbe della tata si smaterializzano via via restituendoci una Emma Tomphson da strega a cinquantenne da copertina. Va detto che la bruttezza della tata qui sta anche ad alludere alla natura e al potere stregonesco femminile, capaci di fare l'incantesimo di riportare in seno alla famiglia un ordine ormai creduto impossibile.
Anche Robin Williams in Mrs Doubtfire compie lo stesso prodigio, ma da avvenenza in bruttezza, e con salto transgender (perché, si sa, in presenza di legittime mogli, la donna più adatta a entrare in famiglia, la più affidabile, è quella meno seducente). E dà da pensare che nell'ultima serie di S.O.S. Tata abbia fatto il suo ingresso un Tato, come già è accaduto nella serie americana Nanny 911 (e d'altra parte la serie telesiva Tre nipoti e un maggiordomo metteva in luce la vocazione educativa maschile).

Nanny McPhee, (in it. Tata Matilda) 2005,
tratto dai romanzi di Christianna Brand,
con Emma Thompson, regia di Kirk Jones.
La corpulenta Mrs Doubtfire, che costa ore di trucco al suo inventore, è l'unica a saper leggere nel cuore dei bambini e a portare l'ordine necessario nelle loro vite che hanno bisogno, sì, di trasgressioni e mondi fantastici, ma anche di essere contenute da certezze, regole e affetti a prova di bomba, per scongiurare patologie di ogni sorta e tetre infelicità. Mary Poppins docet.
Annie, della commedia sofisticata Nanny Diaries, sottolinea un carattere fondamentale del codice gentico della tata: la distanza. Quella distanza che in Mary Poppins è dichiarata dal suo arrivo e dalla sua partenza appesa a un ombrello nel più vuoto degli spazi: il cielo. A simboleggiare una origine sconosciuta e inconoscibile, una vita senza legami. La tata piove, letteralmente, da un altro pianeta, da una dimensione altra: non ha famiglia e se ce l'ha è poco importante e non interessa a nessuno.



Mrs. Doubtfire, dal romanzo di Anne Fine, 1993
con Robin Williams, regia di Chris Columbus.
La tata, in fondo, ha una caratteristica imprescindibile per chi si deve occupare degli altri: l'impersonalità. La sua autorità, il suo carisma, la sua credibilità si fondano sul suo mistero, che la fa essere super partes, come un analista, uno psicoterapeuta, un medico, che sono tanto più empatici e risolutori, quanto meno coinvolti. Annie, nel film, è una ragazza di provincia chiamata per puro caso a osservare le  dinamiche familiari di una coppia di ricchi newyorkesi. Sono i suoi occhi alieni a restituire allo spettatore le abitudini e le patologie di un milieu sociale in cui esiste solo l'apparenza (o almeno il suo stereotipo).
Tutto questo per dire come S.O.S Tata non sia estraneo alle tappe che hanno contrassegnato il percorso mediatico del personaggio tata, interessante quanti altri mai, nell'ambito delle dinamiche familiari. Se è vero perciò che questo programma è un reality, ciò che lo rende estraneo all'abiezione che caratterizza questo tipo di show, è proprio la qualità del personaggio che ne è protagonista: la tata appunto.

The Nanny Diaries, dal romanzo di Emma McLaughlin
e Nicola Kraus,  2007, con Scarlett Johansson,
regia di Shari Springer Berman e Robert Pulcin
Che per definizione è giusta, corretta, empatica, preparata, misteriosa e autorevole. E che soprattutto, che sia bella o brutta, è intelligente e capace, in quanto tale, di osservare e di vedere lucidamente quel che accade nelle famiglie: lei che famiglia non ha e che viene da un mondo dove la famiglia non solo non è tutto, ma in cui quel che conta davvero sono l'autonomia, la responsabilità, il rispetto di sé e degli altri. Lei che è sola e indipendente e possiede i titoli di studio necessari per dire ai genitori quel che pensa e a guidarli per il meglio, considerato che sono loro i responsabili di quel che non va e di tutto quello di cui si lamentano a proposito dei loro figli, vissuti come alieni persecutori  e incomprensibili. Lei che è dotata dell'immaginazione e delle sensibilità necessarie per entrare in relazione con i bambini i quali, invariabilmente, infatti, sembrano salutare il suo arrivo e trarre dalla sua presenza un visibile sollievo, incontrando finalmente un adulto che è capace di impartire regole senza essere un tiranno e capace di comprensione senza essere un amico invisibile.

Tre nipoti e un maggiordomo o Family Affair, sitcom del 1966.
Protagonista French alias Sebastian Cabot.
Sollievo per essere liberati dalla schiavitù di comportamenti compulsivi messi in atto per attirare l'attenzione di adulti incapaci di pensare ad altro che a se stessi, anche quando mossi da sincero affetto e buone intenzioni (e di cui i Simpson incarnano impareggiabilmente l'archetipo). E regole che imponendo agli adulti di comportarsi decentemente, permettono loro di tornare a essere piccoli, con tutte le sacrosante difficoltà che questo comporta.
Insomma, altro che medicalizzazione: nella patria indiscussa della Mamma e del Family Day, le tate del programma in questione mi sono sempre sembrate, fa ridere dirlo, delle innovatrici, capaci di mettere in discussione la sacralità della Famiglia. Innovatrici soprattutto a fronte di programmi TV in cui i bambini appaiono nei panni di piccole, deformi star gorgheggianti o danzanti davanti a scriteriate platee di parenti e vip in lacrime per la commozione.

The Nanny, dal romanzo di Evelyn Piper,
1965, con Bette Davis, regia di Seth Holt.
Del resto, va detto, le donne che “interpretano” le tate sono, nella vita e nella realtà, competentissime signore munite di svariate lauree nei più diversi ambiti della scienze educative, con curriculum da far impallidire, e che svolgono e hanno svolto attività in tribunali dei minori, scuole, asili, consultori di assistenza e via discorrendo. Insomma, per tirare le fila: S.O.S Tata mi è parso un reality del tutto anomalo che, pur attraverso il linguaggio televisivo che, sono d'accordo con Ilaria, genera sempre fastidio e diffidenza, fa passare contenuti per niente scontati e per niente banali. Certo, nessuna famiglia è mai cambiata in una settimana. I problemi restano, perché hanno profonde radici sia nella storia personale sia in una società e in una cultura in cui la mancata assunzione di responsabilità individuali e comportamenti corretti e rispettosi è il problema, e non solo in ambito famigliare. Tuttavia l'idea stessa che un occhio estraneo abbia licenza di entrare fra le quattro sacre mura della famiglia, mi sembra già di per sé un fatto positivo (e quanto questo sia vissuto come minaccioso lo suggerisce Nanny, film del 1965, con una satanica Bette Davis che mette in scena l'alter ego, il lato oscuro della figura della tata, questa volta "brutta" dentro e fuori, che minaccia la stessa integrità fisica della famiglia). Occhio quanto mai necessario, a indicare, fra le altre cose, che i problemi non sono panni sporchi da lavare fra membri dello stesso clan. E che a volte i membri del clan sono i primi responsabili di quello che non funziona, e che l'inconsapevolezza non è una giustificazione accettabile, soprattutto quando di mezzo ci sono dei bambini. Come scrive Donald Sassoon, nel suo articolo “Bravo chi legge”, su una delle ultime Domeniche del Sole 24 ore: “La separazione dall'ambiente familiare sia per poche ore al giorno sia per intere parti dell'anno, è infatti un fattore che contribuisce al dinamismo culturale, in particolare se il contrasto fra i valori della famiglia e quelli del sistema di istruzione è elevato.” Insomma, viva le tate!

Julie Andrews in Mary Poppins, Walt Disney, 1964.

2 commenti:

elillisa ha detto...

Considero questo post di buon auspicio
Tra un'oretta farò in biblioteca una lettura ad alta voce: "La famiglia Sappington" di Lois Lowry.
Anche qui c'è una tata niente male!

illustrAutori ha detto...

be' ieri sera c'era Mary Poppins sulla Rai e il post per sant'Ambreous era perfetto ;-)