mercoledì 17 aprile 2013

Piccolo spirito dei corpi nuovi

[di Susanna Mattiangeli

Premessa

Io sono una che sfrutta i bambini. Li metto a lavorare e non li pago nemmeno. Al massimo preparo la merenda.
Si chiama laboratorio, da noi. Chiunque abbia a che fare con i bambini sa di cosa si tratta, più o meno. È una parola che uso sempre anch’io, per fare prima. Ce ne sono altre: potrei dire bottega, atelier, scuola. Però ogni volta dovrei stare a spiegare. Invece se dico laboratorio tutti fanno la faccia della persona che ha capito, più o meno. Quindi va bene. In fondo mi ci sono abituata e mi piace, anche perché qualche volta diventa labboatoio, con due b, perché siamo a Roma.

Ho cominciato per caso e non è che mi piacesse molto, all’inizio. Erano sempre dei massacri pazzeschi e mi sembrava che non avesse molto senso, oltre al fatto che si buttavano via tonnellate di piatti di plastica e di vernice. Poi pian piano ho cominciato ad avvicinarmi più seriamente alle attività con i bambini e ormai ho fatto in tempo a vederne parecchi diventare grandi. Come si dice in questi casi, ho avuto modo di rifletterci su.
Ho disegnato, ho costruito, ho fatto esperimenti e pasticci, ho fatto filmati con bambini dai 3 ai 12 anni e soprattutto ho parlato con loro.

Non credo di avere una dote innata, né una vocazione particolare. Ora però non ne posso fare a meno. Magari un giorno mi passa, ma per ora è così.
Anzi, a volte mi monto la testa e mi sembra di trovare significati universali in questa cosa di lavorare con le mani insieme a dei bambini. Il problema è che quando mi vengono queste illuminazioni ho le mani occupate e se non scrivo subito le cose io me le dimentico, quindi adesso questi significati non ve li posso dire.


Però posso dire che secondo me un laboratorio comincia ad avere un senso, non so se universale, quando ogni settimana puoi vedere dei cambiamenti nel segno, nella volontà. Ma ha senso anche chiacchierare, raccontarsi le novità. Se si riesce a trovare un tema per far parlare tutti, magari un argomento che non sembra avere niente in comune con quello che intanto stanno facendo le mani e invece poi chissà, un’attinenza c’è e qualcuno se ne accorge anche.
Certi incontri sono meglio di altri. Ci sono stagioni e orari più adatti, perché il corpo reclama il suo movimento quotidiano.

Spesso c’è un grande caos e alcuni proprio non ce la fanno a stare seduti, oppure tutti parlano insieme, o canticchiano.
Io sto lì, ascolto, imparo e metto da parte. Perché si lavora con le immagini ma ci sono di mezzo anche tante parole, così quando tutti vanno via rimangono per terra pezzetti di carta, gomme, matite ma anche mozziconi di storie, virgole e frasi lasciate a metà che magari vale la pena raccogliere. Certe volte metto tutto insieme ed escono fuori dei testi che diventano libri, poi dai libri arrivano altre idee per lavorare ancora insieme.

Una cosa che mi ha sempre appassionato è il modo in cui ci si appropria di una parola, per imitazione, per il suono, per il ricordo di un’esperienza.
Tempo fa ho fatto un piccolo esperimento che è durato solo un mese e raggruppava bambini di età molto diverse: c’era chi sapeva scrivere, c’erano piccoli di tre anni, bambini chiacchieroni e anche molto timidi. Un gioco semplice, un po’ surrealista. Si ritagliano da varie riviste sostantivi, verbi o aggettivi, scelti per la loro grandezza, per il colore, per il carattere. Si mettono insieme termini concreti e astratti, poi si mischia tutto e si chiede di  pescare.
I più grandi sono andati avanti da soli, alcuni corretti come un dizionario, altri più spiritosi. Chi non sapeva ancora scrivere ha dettato; chi non conosceva da prima il significato di una parola ci ha provato, spesso riuscendoci.

Per le illustrazioni, visto che avevamo tutti quei ritagli, abbiamo mischiato collage, matite e pennarelli e oltre a tanti libretti quadrati pieni di parole liberate sono venuti fuori quintali di idee per nuovi incontri.
I momenti più belli sono quei silenzi di un attimo di fronte a una parola familiare.
Ehm… vuol dire… è quando… E allora si mima, o si ride e basta.
Come se i pensieri si ingorgassero e non riuscissero a uscire. Succede anche ai grandi.


Ci sono parole che a certe età percorrono una strada sempre uguale o quasi. Ad esempio, a sei anni: amore = baciarsi sulla bocca = che schifo.
Altre volte arrivano sintesi profonde, o soluzioni di fronte a parole sconosciute. Come quando ho chiesto a quella bambina di tre anni e mezzo che cos’era la fedeltà, parola che aveva appena pescato e che teneva tra le mani: un foglietto, naturalmente. E mi guardava con una faccia come a dire: non ti sei letta Roland Barthes? Ok, sì, scusa... Per forza poi dopo ti viene voglia di scrivere poesie.















Le Piccole Parole (ovvero quando resti sola, spazzi per terra e ci pensi su)


Cercando poco ne ho trovate tante,

c'era la Mamma, il Mondo, l'Elefante,

il Potere, la Felicità.

Poi c'era il Piede,

la Diagonale, il Letto,

la Gabbia, il Ponte, la Genialità.


Le ho ritagliate, messe in un sacchetto,

e ho detto - Adesso pesca,

e spiegami

qualunque cosa esca.

Volevo sedermi ad ascoltare

il racconto delle piccole parole,

vedere se le parole grandi

dispiegate decollano lontano,

o se restano mute

accartocciate in mano.


E così l'Oggetto è qualcosa per davvero,

la Pazienza è quando tutto è calmo.

Nel dubbio, la Fedeltà è un foglietto

zitto, scritto in nero

incollato al quaderno per l'eternità.


La Diagonale è una striscia in per così,

(A volte il corpo

dice a modo suo,

e un disegno aiuta.)

Il Bello si spiega con l'esempio,

la Bontà col suo contrario.

Non è il tempio del metodo,

questo vocabolario.

L'ordine, come al cinema,

è quello di apparizione;

dove c'è spazio libero,

si fa un'illustrazione.


Ho riempito pagine di ore

e ho sentito

che avrei continuato all'infinito,

con questo gioco di parlare di parole.


Piccolo spirito dei corpi nuovi

che ti muovi

come un demone minimo mai stanco,

insegnami tutto dal principio,

dimmi di nuovo l'Amore,

la Maestra, il Tempo.

Ricominciamo

da questo foglio bianco.


4 commenti:

Benedetta ha detto...

Ecco. Ci pensavo proprio in questi giorni, nei miei pensieri globali e dal significato sempre ultimo. Avere a che fare coi bambini impone relazione ascolto socialità. l'unico modo per scoprire il mondo è facendosi coraggio a vicenda e sbirciare dietro tende misteriose. Per questo non va molto di moda, ora che si fa tutto da soli.Ciascuno ascolta la sua musica,riceve le sue telefonate, vede i suoi film fa le sue foto legge i suoi giornali ... Invece la poesia richiede questa meravigliosa curiosità e pazienza che i bambini impongono e insegnano. Bello. Proprio bello. e poi la fedeltà: quale migliore definizione!

susanna ha detto...

Grazie! Si, davvero il contatto con i bambini riporta alla dimensione collettiva, come succede con tutti quelli che hanno bisogno di protezione, del resto.
Ma in più c'è questa cosa di esserlo stati tutti e di riconoscersi ogni volta e sapere che continuerà sempre. E' qualcosa che ti guarda e ti chiede di muoverti, perché niente è fermo. E' un contatto che riempie sul serio di poesia, oltre che, certo, anche di pidocchi.

pamatt ha detto...

Ma che bel racconto! Ti ammiro per quello che fai e per come lo fai.

alessandro riccioni ha detto...

potenza delle parole, potenza di chi le parole le sa scovare tra le fughe del pavimento, assieme alle briciole del pane più prezioso, quello che si impasta con intelligenza, amore, passione, arte e un pizzico di follia. Brava, ale