giovedì 18 aprile 2013

Ho una fame da lupi

Vi suggerisco, prima di leggere questo post, di guardare questo spot con molta attenzione e, dopo averlo fatto, di concentrarvi sulle impressioni che vi ha suscitato.

Spot NATI PER LEGGERE 45" from CSC Lombardia on Vimeo.

Qualche giorno fa, mi sono imbattuta nello spot che avete appena visto, scritto da Giorgia Missiaggia e Marco Armando Piccinini, allievi del Corso di Cinematografia d'Impresa del Centro Sperimentale di Cinematografia. Scuola Nazionale di Cinema, e realizzato in collaborazione con Nati per leggere Lombardia (associazione di pediatri e bibliotecari che, come tutti sanno, da anni è attivissima sul fronte della promozione della lettura nei primi anni di vita).

Gustave Doré, Le Petit Chaperon rouge, 1864.
Forse, mi sono soffermata particolarmente su questi quarantacinque secondi di filmato, perché una persona da poco mi ha chiesto di intervenire a un suo corso sulla fiaba, e stavo cercando di capire da che parte prendere questo tema, davvero vastissimo. Le parole di questo spot, come avete sentito, sono ispirate alla fiaba forse più celebre del mondo, Cappuccetto rosso. Questo filmato mi ha colpito subito, né positivamente né negativamente. O meglio, suscitando emozioni complesse. Siccome questa reazione mi ha incuriosito, ho cercato di capirne la ragione, che adesso proverò a spiegare.
Nella prima scena vediamo un ambiente di lavoro luminoso, pulito, ordinato, accogliente, sebbene impersonale. Persone, computer, movimento, rumori. Un uomo digita sulla tastiera. All'improvviso si interrompe e guarda un orologio a parete: sono le 17.


Gustave Doré, Le Petit Chaperon rouge, 1864.
L'uomo smette di lavorare, indossa il soprabito ed è a questo punto che pronuncia con grande enfasi una frase strana: Ho una fame da lupi!. Con questo subito si guadagna l'occhiata, fra il sorpreso e divertito, di una collega alla scrivania accanto. La frase, per quanto strana, potrebbe avere un legame con il momento: sono le 17. E alle cinque, prima di cena, si può già aver fame.
La cosa strana è che un uomo come quello che vediamo, ben vestito e dai gesti controllati, pronunci ad alta voce e in quel modo una frase del genere, manifestando un bisogno con quella veemenza. Vale a dire in modo non controllato, cioè infantile. Forse per questo la collega sorride: perché un uomo grande e grosso, con la barba, vestito formalmente, esprime un bisogno come farebbe un bambino. E un comportamento infantile in un adulto che sembra padrone di sé, è un po' ridicolo, imbarazzante.
Ma il legame con l'infanzia stabilito da questa frase, sta anche in altro. Perché questa frase normalissima, comune, che tutti noi pronunciamo e abbiamo pronunciato chissà quante volte nella nostra vita, evoca uno dei temi più tipici, profondi e paurosi delle fiabe. Quello della fame.

Gustave Doré, Le Petit Chaperon rouge, di Charles Perrault, 1864.

Anche senza stare a fare ricerche, quello che, subito, mi viene in mente è un'immagine composita: è Pollicino, ovvero il tema dei bambini abbandonati da genitori affamati, troppo poveri per poter sfamare la nidiata dei figli; sono l'orco, l'orchessa e le orchessine che guardano a Pollicino e ai suoi fratelli come a capretti arrosto; è la fame che prende i bambini persi nel bosco, cioè Hansel e Gretel, che finiscono irretiti dalla casetta di biscotto, e la fame della strega che li fa prigionieri e che chiude Hansel in una gabbietta, all'ingrasso; sono le mense che per magia si imbandiscono da sole nei palazzi incantati,

Kay Nielsen, Hansel et Gretel, Fratelli Grimm, 1929.
quando vi arriva un ospite, giunto da lontanissimo e ignaro di ciò che lo aspetta; è Riccioli d'oro che, affamata, mangia la zuppa pronta nelle tre scodelle degli orsi; sono i desideri di cibo che prendono certe regine gravide, come la mamma di Prezzemolina o Rapunzel, e spingono incauti mariti a violare gli orti di streghe vendicative; è la lucentezza della mela avvelenata di Biancaneve che costringe la bella a violare i divieti; sono i cibi poverissimi di Pinocchio: le bucce della pera, il cavolfiore, contro i confetti al rosolio della Fata Turchina e le prodigiose imbandigioni del Gatto e della Volpe, all'Osteria del Gambero Rosso; e infine, certo, è la fame nera e senza fondo del lupo di Cappuccetto Rosso, che divora la nonna per poter poi sbranare la nipotina (nel 1994, Mondadori ha pubblicato sul tema di fame e fiabe, Ucci ucci. Piccolo manuale di gastronomia fiabesca, di Giorgio Cusatelli).

Gustave Doré, Le Petit Poucet, 1862.
Tutto ciò è contenuto in questa innocua frase: Ho una fame da lupi!. Il fatto che sia pronunciata non in un consesso di amici, ma fra estranei, in un contesto formale, e in un registro espressivo molto diverso da quello che ci si aspetterebbe, fa sì che questa lasci trapelare tutta la sua carica, la sua minaccia, la sua ricchezza fiabesca. Cosa di cui lo spettatore si accorge subito, perché queste parole incrinano il piano della realtà, rivelandone un'ambiguità che allude ad altro. E qui avviene il primo spostamento, seppur minimo, ma deciso verso la fiaba. Da questo momento in poi, lo scivolamento verso il fiabesco accelera, lasciando spiazzato lo spettatore, ancora in dubbio su come decodificare i comportamenti anomali del protagonista.
Nella scena successiva il signore barbuto è in ascensore. Nella cabina entra un uomo più maturo, serio e formale: forse si tratta di un capo. Nonostante questa presenza autorevole, il protagonista pronuncia, in falsetto, simulando una voce femminile, un'altra frase fuori luogo: Entra, bambina cara!.

Gustave Doré, Le Petit Poucet, di Charles Perrault, 1862.

Il “capo” per un istante lo fissa con evidente riprovazione e preoccupazione. Tutto, in questa scena, fa pensare al parlare “da solo” di uno psicotico: la voce in falsetto mette in luce apertamente il contrasto fra l'età esteriore e quella interiore dell'uomo. L'ascensore, luogo frequentatissimo dai registi, dall'Inferno di cristallo ad Ascensore per il patibolo, è location claustrofobica per antonomasia, che costringe a una prossimità imbarazzante in una situazione di perdita di controllo dell'ambiente. Lo spettatore non sa cosa pensare: ha riconosciuto le frasi pronunciate dal protagonista per quelle della fiaba di Cappuccetto rosso. Ma continua a non capirne la ragione.

Walt Disney, Snow White, 1937.

E c'è un ulteriore risvolto inquietante: la fisionomia dell'uomo, con barba e lineamenti marcati, grazie alle parole della fiaba si avvicina per analogia, per suggestione, a quella di un lupo. E sappiamo bene che in questa fiaba la presenza dell'animale è simbolica e allude alla possibile violenza maschile sulle bambine.
La terza scena si svolge in un parcheggio sotterraneo, qui l'uomo “getta la maschera”: Per mangiarti meglio! ruggisce, camminando a grandi passi verso l'automobile. La sua imponenza fisica è percepita come decisamente minacciosa. Un'esplosiva risata, a conclusione della frase, fa pensare che stia per essere compiuta un'azione efferata (del resto siamo in un parcheggio sotterraneo dove, come affermano centinaia di film e telefilm, efferate violenze si consumano con puntualità svizzera). E va notato che il tema della fame, introdotto fin dalla prima scena, è sottolineato e ripreso dal percorso che l'uomo ha compiuto: dall'alto, attraverso il lungo tubo digerente dell'ascensore, al basso, ai sotterranei, al ventre nascosto dell'edificio, dove l'uomo rivela senza più nascondersi la sua natura ferina.

Carlo Chiostri, Pinocchio. Le avventure di un burattino, 1901
La narrazione è, insomma, davvero inquietante: inquietante come lo può essere la favola di Cappuccetto rosso per un bambino piccolo che la ascolti per la prima volta. E viene il sospetto che lo spot sia costruito sulla falsariga di una fiaba classica (lo segnala per esempio, il comportamento anomalo dell'uomo, ripetuto tre volte, dove la ripetizione ternaria è un classico topos  fiabesco) , per far provare e ricordare all'adulto che lo sta guardando, e che ne è il destinatario, l'esperienza emotiva di una narrazione fiabesca, sebbene ricorrendo, nel farlo, a elementi dell'immaginario contemporaneo.
Ma le fiabe, lo sappiamo, hanno un lieto fine. Ad annunciarlo, qui, è una voce femminile: quella di una giovane madre che legge la fiaba di Cappuccetto rosso a un bambina di pochi anni. Cappuccetto rosso dalla pancia del lupo! esclama, sollevata. A questo punto, vediamo il nostro uomo entrare nella bella casa dove sono la madre e la bambina, e togliersi un auricolare. Lo spettatore intuisce, allora, finalmente, che quello strano uomo, è semplicemente un padre che sta, rodarianamente, raccontando al telefono una storia a sua figlia, che infatti, al suo ingresso, e terminata felicemente la storia, depone la cornetta.

Giambattista Galizzi, Pinocchio. Le avventure di un burattino, 1942.
Per nulla spaventata, la bimba tiene fra le mani l'innocua figurina sagomata di un lupo di carta. Sul divano accogliente, madre e figlia condividono la lettura sotto una coperta di pelliccia grigia che ammicca allo spettatore, alludendo alla fine che i lupi fanno nelle fiabe, diventando un innocuo involucro di pelo (quantomeno, nella versione dei fratelli Grimm). Per la prima volta vediamo l'uomo sorridere: il suo volto, di pari passo con lo scioglimento positivo della storia, riacquista una fisionomia pienamente umana, probabilmente la più tranquillizzante che ci sia: quella, protettiva, di un padre. L'uomo si va a sdraiare accanto alla bambina per rileggere la storia appena finita (soddisfando una tipica richiesta infantile). Indosso ha ancora il soprabito, ma l'auricolare ora è spento, a sottolineare che il tempo da questo momento dedicato alla figlia e alla lettura è prezioso, non procrastinabile, importante, difeso, coltivato. Lo spot è ai suoi ultimi istanti: una voce femminile fuori campo pronuncia lo slogan della campagna: La sua storia comincia dalle tue parole. Leggere insieme, crescere insieme.

Arthur Rackham, Goldilocks and the Three Bears, 1918.
Una bella head line, a mio avviso, soprattutto in relazione alla microfiaba che lo spot ci ha appena raccontato. Le parole che diciamo tutti i giorni appartengono non solo alla dimensione del quotidiano (fame, lupo, bambina), ma anche a quella, importantissima, delle storie che abitano nei libri, che ci appartengono da tempi immemorabili e che, al contrario di quelle pronunciate per la comunicazione ordinaria dell'organizzazione quotidiana, ci raccontano aspetti profondi ed emozionanti della realtà, di noi stessi e della vita. I genitori, ci dice questo messaggio, devono essere consapevoli che le parole hanno un'importanza fondamentale nella crescita dei loro figli. Parole che devono essere, per questo, scelte con attenzione.
Le parole dei libri fanno parte della vita, proprio come quelle che pronunciamo tutti i giorni, e costituiscono uno strumento fondamentale di sviluppo e conoscenza per i bambini. Trovo interessante, e corretto, che lo spot sia stato costruito non genericamente su un “libro per bambini” o sulla pratica della lettura, ma a partire da una storia ben definita, anzi: dalla fiaba per eccellenza, quella universalmente conosciuta di Cappuccetto rosso.

T. Nelson, Goldilocks and the Three Bears, 1867.
E non per affermarne genericamente, e didascalicamente, il valore, ma per suscitare nello spettatore quelle emozioni infantili, così preziose, che la lettura ad alta voce di una fiaba suscita: attesa, meraviglia, suspence, paura, inquietudine, sollievo, gioia. Oggi, per un costume mentale invalso e sciagurato e, ahimé, molto diffuso, si ritiene che i bambini debbano essere tenuti lontani da esperienze ed emozioni ritenute “troppo” forti, negative, temendo che ne siano turbati, traumatizzati.

Affermare la legittimità delle fiabe, e il valore di letture autentiche e non edulcorate o piattamente didascaliche, di puro intrattenimento, è un messaggio importante, coraggioso, forte e pienamente condivisibile.

Unico dubbio: forse l'intelligenza di questo spot meritava un ritratto di famiglia meno classicamente pubblicitario e, invece, più vicino alla realtà. Non per altro: la lettura non è un consumo. E un messaggio che la veicola dovrebbe comunicarlo, nella forma, insieme ai contenuti. Altrimenti potrebbe dare l'impressione che libri, deodoranti, biscotti e carne in scatola siano un po' la stessa cosa. (gz)

Backstage Nati per Leggere from CSC Lombardia on Vimeo.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Condivido questo bellissimo post in ogni sua parte. Credo proprio che sarà più volte citato in un mio prossimo scritto sul cibo e le fiabe.
Bello, bello!

Unknown ha detto...

Complimenti, bellissimo post, una analisi molto attenta. Per deformazione professionale (grafica pubblicitaria) e personale (attenzione al femminile, chiamiamola così...), il primo pensiero che ho avuto è la considerazione finale che hai fatto: ovvero che la famiglia è troppo classica nei suoi stereotipi.
La mamma con la bambina che legge e il padre che lavora. Mi sarebbe piaciuta di più una lettura di una fiaba che prendesse in considerazione anche della figura femminile della mamma sotto altre prospettive (le mamme oggi lavorano, o sbaglio?).

Anna ha detto...

Lo spot mi ha divertita molto. Molto ben girato.
Mi piace l'idea che la fiaba sia uno squarcio nella superficie troppo liscia della realtà. Questo squarcio sarebbe bene producesse famiglie meno da Mulino Bianco. Se no a cosa serve crescere con dei libri invece che senza?
Concordo con tutto quanto hai detto.

Nelle mie ultime riflessioni sulla cultura sono arrivata alla conclusione che non sono i libri che fanno crescere, ma il fatto di considerare i libri come esperienze. Cioè sedi di contenuti reali, anche quando i contenuti sono fantastici o immaginari. Una frase un po' paradossale che ho trovato su una cartolina a Bologna lo spiega meglio:
Esistono persone colte persino tra i professori.

Questo ci si dimentica sempre di specificarlo quando si pubblicizza la cultura.

Topipittori ha detto...

@atlantide e @Lisa: vi ringrazio davvero per la considerazione che avete riservato a questo post.

@Anna: sui libri come esperienze centri un punto fondamentale. E la cartolina che con ironia indica cosa sia "cultura" merita un applauso. E segna la fondamentale differenza fra erudizione, intrattenimento, e cultura

Mi viene in mente che Giusi Quarenghi in "E sulle case il cielo" ha messo questa citazione, in epigrafe, da Rainer Maria Rilke, "I quaderni di Malte Laurids Brigge": "Perché i versi non sono, come si crede,sentimenti,sono esperienze."