venerdì 4 luglio 2014

Vite sciupate


Adele, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.
Adele balla e ride, in un parco acquatico alla periferia di Napoli. Ha quindici anni ma va ancora in prima media. L’hanno bocciata quattro volte, perché a lei la scuola non interessa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, soprattutto dagli insegnanti. Balla e ride e racconta. Le fanno qualche domanda. Lei risponde compunta, precisa. Poi le chiedono: «E il futuro?»
È in quell’istante che cala il velo, che la camera perde il fuoco. Adele sente il presagio, perde il sorriso e la parola. In un silenzio di pochi secondi trascorrono a ritroso le ere e ci rendono consapevoli di milioni di anni di sedimenti vulcanici accumulati, affastellati gli uni sopra gli altri, a nascondere reticoli di vuoto che risucchiano tutto in invisibili voragini.
Napoli è una città antropofaga.

Capita, una bella sera d'estate, che faccia fresco e le incombenze del lavoro e della famiglia ci lascino - inaspettatamente - lo spazio per andare al cinema. E ci si va allegri, in bicicletta, chiacchierando e pensando che dopo si mangerà la pizza. Poi si spengono le luci in sala - una di quelle sale piccole, che sembra di essere in autobus - e bastano pochi istanti per scoprire che quella cosa lì, quella che ti stanno raccontando con tanta grazia, tanto garbo, tanta umanità, senza retorica e senza quella falsa compassione che ti fa sentire migliore solo perché te ne stai seduto lì a guardare, è l'inferno. Lo spreco della vita.

Le cose belle è il sequel, documentario, di un documentario girato da Agostino Ferrente e Giovanni Piperno per Rai Tre, nel 1999, Intervista a mia madre: quattro ragazzini napoletani che si sono raccontati davanti a una telecamera, parlando della propria vita e dei propri sogni. Dodici anni dopo, il tempo è passato, e la sensazione è che sia troppo tardi, per tutti.

Enzo, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.

Dodici anni dopo, nello sguardo di Enzo c'è ancora lo stesso terrore guardingo di animale braccato, di ragazzino che sa che qualsiasi cosa potrà mai avere - fosse anche solo una macchina da presa che lo inquadra - gli verrà sottratta. Parlava, ragazzino, guardandosi intorno, timoroso che gli arrivasse lo sberleffo, lo smacco, l'apostrofo. E parlava del sogno di cantare, di affrancarsi dal "posteggio" e dedicarsi ai classici napoletani, di fare il Conservatorio. Ma in ogni sua frase, c'era sempre un finale in diminuendo: «Faccio il Conservatorio, e quel che esce, esce»; «Vorrei andare a Bravo Bravissimo e al Maurizio Costanzo Show, ma se non va bene, mi trovo un lavoro di strada. Quello che capita.» Enzo non canta più. Fa il piazzista porta a porta per una compagnia telefonica di seconda fila. È solo. Profondamente solo. Apre il film, muto, terrorizzato, davanti a un microfono. Gli hanno chiesto di cantare ma non ci riesce. Una scena analoga chiude il film. Enzo si mette le cuffie, sente il pianoforte e canta Passione. È bravissimo. Ma in una scena del film lo abbiamo sentito dire che non vuole più cantare. E allora, a che scopo tanta, commovente, bravura?

Fabio, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.

Fabio trascina la sua vita, facendo finta che sia normale stare con la mamma e non avere un lavoro, non avere niente. «I soliti ignoti, che non hanno rispetto per la vita degli altri», gli hanno ammazzato il fratello: è uscito una mattina di casa e non è mai tornato. Domani potrebbe capitare a lui. Per questo è sprezzante, indolente, vacuo. Dodici anni prima, Fabio, dodicenne sveglio, che conosce a memoria il prezzo dei pesci che la madre compra ai mercati generali e vende dal pianale dell'Apecar al Vomero, ci racconta la sua vita in un cortile. Mentre parla, dall'alto cadono lazzi e pernacchie di suoi coetanei rabbiosi: e «che ce ne fotte a noi?» La sua vita non gli appartiene, che cosa lo autorizza ad appropriarsene, raccontandola? Stia al suo posto: non pensi di poterci umiliare con il suo riscatto. Infatti Fabio lo sa: «Per me, volere è mezzo potere.» Vengono in mente i racconti di Carla Melazzini in Insegnare al principe di Danimarca, quando, illustrando la sua esperienza di insegnante a Napoli, coinvolta nel Progetto Chance, afferma che spesso sono le famiglie stesse a osteggiare il riscatto dei figli, attraverso lo studio e il lavoro: padri e madri incattiviti per i quali l'idea stessa che i figli si costruiscano un futuro fuori dalla famiglia è una offesa imperdonabile, un progetto da annientare.

Silvana, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.

Di Silvana mi viene da dire che è bella. Bella di una bellezza struggente. Dovrebbe essere la più disperata: padre agli arresti domiciliari; madre malata e padrona; fidanzato assente; fratello a Nisida; niente lavoro; niente di niente. (Le chiede un avvocato: «Ma ce l'hai una vita tua?», «Ogni tanto» risponde). Eppure è l'unica che ancora ride e sorride. L'unica, in tutto il film. La se stessa ragazzina che sognava di fare la modella, invece, non sorrideva mai. Sognava, ma non voleva fare progetti, sapendo che sarebbero comunque andati male. «Invece, parlami delle cose belle?» le avevano domandato. Lei aveva distolto lo sguardo. Senza dire più una parola.

Silvana, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.

Che cosa è stato sottratto a quei ragazzini? Di cosa sono stati espropriati perché le loro vite siano state e siano ancora così sospese, cristallizzate nella mancanza di una prospettiva di miglioramento? Perché pensavano già allora di non potersi neppure permettere di immaginare qualcosa di diverso? Perché, dodici anni dopo, continuano a pensarlo? Chi gli ha insegnato la rassegnazione?
Tornano in mente le parole di donna Mariuccia, uno dei personaggi di Il mare non bagna Napoli, di Anna Maria Ortese, che guardando i bambini del cortile del palazzone popolare dove si svolge la vicenda, osserva: «Io, quando li vedo, e penso che devono diventare tale e quale a noi... mi domando che cosa fa Dio.»

Enzo, Le cose belle di A. Ferrente e G. Piperno.

Quando ero ancora ragazzo, sono scappato da Milano. Non mi sembrava che la città tanto amata avesse più qualcosa per me. Ho preso un aereo per Londra, con l’indirizzo di un amico che mi avrebbe ospitato per due settimane e il numero di telefono di un conoscente, che forse mi avrebbe fatto lavorare come magazziniere. Ho trovato una Londra grigia e rabbiosa, nella quale i miei coetanei gridavano che non c'era un futuro e avevano deciso che bisognava distruggere il presente a calci. A me facevano paura e un po' invidia



In questa Napoli - quella di Le cose belle - nessuno prende a calci niente. Neanche i ragazzini il pallone. Non c'è niente da distruggere perché tutto è già distrutto. Ognuno ha il suo coccio, il suo frammento, la sua tessera del mosaico. Forse si potrebbe rimettere tutto insieme, ricostruendo - come un intarsio - una copia abbastanza fedele della vita. Ma che ce ne fotte, a noi?

Una presentazione del film più articolata, in questo filmato.



Un'intervista con il regista Giovanni Piperno



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