Marino Sinibaldi credo lo conoscano gran parte delle persone che leggono questo blog: bibliotecario, fondatore di riviste e redattore, inventore e conduttore del programma pomeridiano Fahrenheit dedicato ai libri, in onda da anni su Radio 3 Rai, canale di cui è diventato poi direttore.
Prima di partire mi è stato prestato e caldamente consigliato il libro di cui oggi scrivo: Un millimetro in là. Intervista sulla cultura, a cura di Giorgio Zanchini, edito da poco da Laterza. In questo libro Sinibaldi e il suo intervistatore parlano di una quantità di cose di cui chi si trova a fare cultura (cosa che in fondo ogni lettore fa nel suo piccolo) si trova a ragionare, da solo o con altri, in pubblico e in privato. Perché in effetti il cambiamento epocale che ci troviamo, nostro malgrado, a vivere ci impone una quantità di riflessioni e scelte, direi proprio quotidiane, e più o meno consapevoli, su temi importanti. A cominciare dalla domanda cruciale: che cos'è la cultura e perché le si attribuisce tutta questa importanza. Tema chiave, questo, dell'intera intervista che comincia e finisce da qui e in tutte le sue parti non è che un lungo e articolato pensiero nel tentativo di trovare una risposta. Risposta che risulta, mentre si procede nella lettura, a seconda dei momenti, composita, aperta, appassionata, dubbiosa, contraddittoria, interrogativa, misurata, provocatoria e direi persino allegra.
I punti toccati sono infiniti: che relazione esiste fra libertà e cultura; come le nuove tecnologie ci stanno cambiando in quanto lettori; come il digitale sta mutando libri, giornali, consumi culturali; come i tablet ci fanno percepire i libri rispetto al loro aspetto tradizionale; come la velocità di internet e dei social network muta la nostra corteccia cerebrale, intervenendo sulla nostra capacità di attenzione e concentrazione; cosa è stata la memoria fino a ora e in che modo i processi mnemonici si stanno evolvendo; che relazione passa fra cultura, democrazia, potere e in che modo questa relazione sta trasformandosi; in che modo la televisione, ma anche la radio, hanno influito sulla formazione degli italiani, dagli anni Cinquanta a oggi; cosa è diventata oggi la tv e come è cambiata; in cosa radio, televisione e nuovi media sono diversi; cosa è la radio ai nostri giorni e che spazio ha nelle produzione di cultura; in che modo la radio ha cambiato la relazione fra pubblico e conduttori; che ruolo avranno i grandi mediatori culturali, come editori, giornalisti, critici, nella produzione della cultura, in un contesto mediatico sempre più orientato a relazioni orizzontali e non verticali; in che modo la facilità di accesso alla cultura ne sta cambiando natura e fruzione; come è cambiato il rapporto fra lettura, libri, lettori nelle diverse generazioni; in che termini nell'attuale contesto è possibile realizzare qualità e responsabilità nelle scelte di produzione culturale.
Potrei continuare, ma credo che questo elenco sia sufficiente a dare una idea delle questioni trattate in questo libro (nel discorso, Sinibaldi parla anche del proprio percorso personale e delle proprie esperienze, come lettore, operatore e mediatore culturale). Per quanto mi riguarda, oltre al fatto che non conoscevo molte cose di cui il libro parla (Un millimetro in là è un vero e proprio stumento generatore di idee e una miniera di spunti di lettura), ho apprezzato la chiarezza, la limpidezza, l'eleganza, la competenza, la temperata passione con cui Marino Sinibaldi ragiona in un terreno che è scivolosissimo e in cui il rischio di cadere in ovvietà, conformismi, ribellismi, vittimismi, passatismi, narcisismi, ideologismi etc. è davvero altissimo. Particolarmente apprezzabile poi è anche, e forse soprattutto, il punto di vista sorprendente con cui si guarda ai temi trattati, e la concretezza con cui si aprono porte su possibili modi di azione, e non solo di riflessione.
Credo che Radio 3 Rai sia uno dei miracoli del nostro servizio pubblico. Qualcuno ha scritto, tempo fa, che si tratta di uno dei canali culturali più qualificati d'Europa e del mondo. Non sono abbastanza preparata da sapere cosa ci sia nel mondo, in questo senso, ma so per certo che questo canale è straordinariamente ben fatto e che spesso quando lo ascolto mi chiedo per quale misteriosa serie di ragioni abbia potuto conservarsi uno spazio non solo così qualificato, ma anche in costante miglioramento. Una risposta la offre il libro di cui sto parlando: Marino Sinibaldi ha tutti i meriti possibili e immaginabili, ma sicuramente, io credo, è il risultato di uno luogo condiviso, di uno spazio umano di scambio, relazione e dialogo, di un modo di fare cultura che ha conservato indipendenza, rigore, credibilità, saperi della cui ricchezza abbiamo la grande fortuna di poter disporre, quotidianamente, in molti modi.
A questo punto non penso vi sia miglior modo di chiudere questo post che riportando un brano dal libro (a mio avviso, lo avrete capito, imperdibile). Si tratta delle prime due domande e delle conseguenti due risposte che aprono l'intervista. Ringrazio l'editore Laterza per averci permesso la sua pubblicazione.
1.
Diventare Sovrani
D. Definire la cultura, dicono gli antropologi, è come ingabbiare il vento. Nella tua vita ne hai parlato più volte come dello strumento per la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza. Perché?
R. Lo hanno sottolineato in molti, il rapporto che c’è tra cultura e potere. La parola «potere» non mi piace, ma se vuoi avere potere sulla tua vita – cioè non essere in balia di qualcosa o qualcuno che ha deciso per te - devi liberarla dalle costrizioni, dai limiti e dai destini segnati. Nasciamo dentro traiettorie di vita determinate da tante cose che ci sfuggono, che accadono prima di noi e lontano da noi. Quella parte di vita che puoi cambiare, quel pezzo magari piccolo di destino che puoi spostare, dipende dalla tua forza, autorità, libertà. Per me la cultura è la condizione per esercitare queste possibilità. Questa è la mia definizione – o forse solo la mia esperienza di vita. Certo, la cultura può essere altro, può essere anche strumento di esclusione e di oppressione, ed io questa dimensione l’ho conosciuta. Queste conversazioni volevamo intitolarle La cultura rende liberi, ricordi? Poi ci siamo spaventati dell’assertività di questa affermazione e della sua troppo parziale verità.
Non è vero che la cultura rende liberi, o almeno non è sufficiente la cultura. Ma non vedo altre strade per liberarci e «diventare sovrani», per usare la bellissima immagine della Lettera a una professoressa («Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere»). Ho creduto fosse la politica, questo strumento, e non escludo del tutto che lo sia o che possa tornare ad esserlo. Ma intanto ognuno deve sapere che ha una possibilità – che per me è anche una responsabilità. Ognuno di noi, al di là di ogni dimensione collettiva. Credo che vivrò sempre aspettandola, questa trasformazione collettiva. Ma intanto, come diceva Nicola Chiaromonte, dobbiamo sapere che dalla caverna si esce uno per volta. Usava l’immagine di Platone per dire una cosa così precisa che va citata esattamente: «dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno, aiutandosi l’un l’altro».
Conoscere bene la caverna e trovare i modi per uscirne: questa per me è la cultura.
sta affermazione e della sua troppo parziale verità.
D. Oggi l’uscita dalla caverna è più facile o più difficile rispetto al tempo in cui ti sei formato tu?
R. Intanto è enormemente maggiore la possibilità di conoscerla, la caverna. Gli strumenti di conoscenza si sono moltiplicati. Parleremo molto di libri, e sono molti i libri usciti in questi anni che ci spiegano come Internet possa renderci stupidi o viceversa intelligenti. Sicuramente può renderci colti, nel senso della conoscenza, di sapere molto di più. La cultura è una cosa diversa dalla somma delle conoscenze, ma nasce comunque dalla possibilità di sapere: si esce dalla caverna anzitutto co- noscendo la caverna – e i dintorni. Facciamo subito un esempio: un attimo fa ho parlato di Nicola Chiaromonte. È un intellettuale importante, ma quanti lo conoscono? Il giovane lettore che ero forse sarebbe stato colpito dalla citazione che ho fatto, ma sarebbe impazzito per cercare notizie su di lui. Non è mai stato un autore di cui parlano i giornali o che si trova facilmente in libreria.
Oggi basta un motore di ricerca: la voce di Wikipedia è piuttosto rudimentale (e bisognerebbe arricchirla), ma in Rete ci sono siti e materiali bellissimi ed esaurienti su Chiaromonte. Dopodiché nasce il problema se l’abbondanza di risultati e la facilità ad accedervi spingeranno a leggere davvero i suoi libri o genereranno la sensazione che alla fine siano, per così dire, superflui. La conoscenza non è un accumulo di competenze e di informazioni, ma a volte ho l’impressione che ci sia una sottovalutazione di quello che, anche solo da questo punto di vista, sta accadendo sotto i nostri occhi. Pensiamo al tema della comunicazione delle notizie e dei saperi. L’umanità ha cercato da sempre strumenti per comunicare più velocemente, più esattamente e più largamente possibile. Tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo conosciuto, fin dai più rudimentali, inseguivano questi tre obiettivi: raggiungere più persone possibili, nel più breve tempo e con il massimo di precisione. Con qualche risultato: secondo Eschilo, quando Agamennone torna da Troia Clitemnestra ha già saputo l’esito della guerra. In poche ore, attraverso una rete di fuochi, cioè di segnali luminosi, la notizia ha preceduto il ritorno dell’eroe. Eschilo descrive meticolosamente la catena di montagne e postazioni che hanno permesso al messaggio di arrivare e un tedesco, all’inizio del Novecento, ha dimostrato che effettivamente era possibile nei tempi descritti dalla tragedia. La storia dell’umanità è dominata dal desiderio di comunicare, è piena di tentativi generosi e ingegnosi di trasmettere qualcosa: in fondo cosa ha fatto Filippide con la sua corsa da Maratona? E cosa hanno fatto per secoli, tra l’ammirazione stupefatta dei presuntuosi europei che ne scoprivano la raffinatezza comunicativa, i tamburi parlanti africani?
Ebbene, oggi quel desiderio è stato esaudito: possiamo diffondere notizie e conoscenze in modo immediato, con una velocità che coincide ormai con l’istantaneità, con un raggio talmente ampio che tendenzialmente non esclude nessuno e con l’esattezza che deriva dal fatto che il messaggio arriva direttamente da chi lo ha emesso. Non credo di semplificare troppo se dico che il sogno di comunicare con la massima precisione, rapidità e ampiezza si è realizzato, ed è un risultato che chiude un’epoca, che pone fine alla storia delle comunicazioni come l’abbiamo conosciuta. E finalmente ci mette davanti alla sfida vera: come riempire questo enorme spazio che si è aperto? Qui siamo renitenti, indolenti. Ci balocchiamo in discussioni vacue o interessanti ma non afferriamo ancora la meravigliosa, epocale occasione che ci è offerta. Non onoriamo il sogno di generazioni.
Questo il video della presentazione del libro all'International Journalism Festival, tenutosi a Perugia, dal 30 aprile al 4 maggio 2014.
Prima di partire mi è stato prestato e caldamente consigliato il libro di cui oggi scrivo: Un millimetro in là. Intervista sulla cultura, a cura di Giorgio Zanchini, edito da poco da Laterza. In questo libro Sinibaldi e il suo intervistatore parlano di una quantità di cose di cui chi si trova a fare cultura (cosa che in fondo ogni lettore fa nel suo piccolo) si trova a ragionare, da solo o con altri, in pubblico e in privato. Perché in effetti il cambiamento epocale che ci troviamo, nostro malgrado, a vivere ci impone una quantità di riflessioni e scelte, direi proprio quotidiane, e più o meno consapevoli, su temi importanti. A cominciare dalla domanda cruciale: che cos'è la cultura e perché le si attribuisce tutta questa importanza. Tema chiave, questo, dell'intera intervista che comincia e finisce da qui e in tutte le sue parti non è che un lungo e articolato pensiero nel tentativo di trovare una risposta. Risposta che risulta, mentre si procede nella lettura, a seconda dei momenti, composita, aperta, appassionata, dubbiosa, contraddittoria, interrogativa, misurata, provocatoria e direi persino allegra.
I punti toccati sono infiniti: che relazione esiste fra libertà e cultura; come le nuove tecnologie ci stanno cambiando in quanto lettori; come il digitale sta mutando libri, giornali, consumi culturali; come i tablet ci fanno percepire i libri rispetto al loro aspetto tradizionale; come la velocità di internet e dei social network muta la nostra corteccia cerebrale, intervenendo sulla nostra capacità di attenzione e concentrazione; cosa è stata la memoria fino a ora e in che modo i processi mnemonici si stanno evolvendo; che relazione passa fra cultura, democrazia, potere e in che modo questa relazione sta trasformandosi; in che modo la televisione, ma anche la radio, hanno influito sulla formazione degli italiani, dagli anni Cinquanta a oggi; cosa è diventata oggi la tv e come è cambiata; in cosa radio, televisione e nuovi media sono diversi; cosa è la radio ai nostri giorni e che spazio ha nelle produzione di cultura; in che modo la radio ha cambiato la relazione fra pubblico e conduttori; che ruolo avranno i grandi mediatori culturali, come editori, giornalisti, critici, nella produzione della cultura, in un contesto mediatico sempre più orientato a relazioni orizzontali e non verticali; in che modo la facilità di accesso alla cultura ne sta cambiando natura e fruzione; come è cambiato il rapporto fra lettura, libri, lettori nelle diverse generazioni; in che termini nell'attuale contesto è possibile realizzare qualità e responsabilità nelle scelte di produzione culturale.
Potrei continuare, ma credo che questo elenco sia sufficiente a dare una idea delle questioni trattate in questo libro (nel discorso, Sinibaldi parla anche del proprio percorso personale e delle proprie esperienze, come lettore, operatore e mediatore culturale). Per quanto mi riguarda, oltre al fatto che non conoscevo molte cose di cui il libro parla (Un millimetro in là è un vero e proprio stumento generatore di idee e una miniera di spunti di lettura), ho apprezzato la chiarezza, la limpidezza, l'eleganza, la competenza, la temperata passione con cui Marino Sinibaldi ragiona in un terreno che è scivolosissimo e in cui il rischio di cadere in ovvietà, conformismi, ribellismi, vittimismi, passatismi, narcisismi, ideologismi etc. è davvero altissimo. Particolarmente apprezzabile poi è anche, e forse soprattutto, il punto di vista sorprendente con cui si guarda ai temi trattati, e la concretezza con cui si aprono porte su possibili modi di azione, e non solo di riflessione.
Credo che Radio 3 Rai sia uno dei miracoli del nostro servizio pubblico. Qualcuno ha scritto, tempo fa, che si tratta di uno dei canali culturali più qualificati d'Europa e del mondo. Non sono abbastanza preparata da sapere cosa ci sia nel mondo, in questo senso, ma so per certo che questo canale è straordinariamente ben fatto e che spesso quando lo ascolto mi chiedo per quale misteriosa serie di ragioni abbia potuto conservarsi uno spazio non solo così qualificato, ma anche in costante miglioramento. Una risposta la offre il libro di cui sto parlando: Marino Sinibaldi ha tutti i meriti possibili e immaginabili, ma sicuramente, io credo, è il risultato di uno luogo condiviso, di uno spazio umano di scambio, relazione e dialogo, di un modo di fare cultura che ha conservato indipendenza, rigore, credibilità, saperi della cui ricchezza abbiamo la grande fortuna di poter disporre, quotidianamente, in molti modi.
A questo punto non penso vi sia miglior modo di chiudere questo post che riportando un brano dal libro (a mio avviso, lo avrete capito, imperdibile). Si tratta delle prime due domande e delle conseguenti due risposte che aprono l'intervista. Ringrazio l'editore Laterza per averci permesso la sua pubblicazione.
1.
Diventare Sovrani
D. Definire la cultura, dicono gli antropologi, è come ingabbiare il vento. Nella tua vita ne hai parlato più volte come dello strumento per la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza. Perché?
R. Lo hanno sottolineato in molti, il rapporto che c’è tra cultura e potere. La parola «potere» non mi piace, ma se vuoi avere potere sulla tua vita – cioè non essere in balia di qualcosa o qualcuno che ha deciso per te - devi liberarla dalle costrizioni, dai limiti e dai destini segnati. Nasciamo dentro traiettorie di vita determinate da tante cose che ci sfuggono, che accadono prima di noi e lontano da noi. Quella parte di vita che puoi cambiare, quel pezzo magari piccolo di destino che puoi spostare, dipende dalla tua forza, autorità, libertà. Per me la cultura è la condizione per esercitare queste possibilità. Questa è la mia definizione – o forse solo la mia esperienza di vita. Certo, la cultura può essere altro, può essere anche strumento di esclusione e di oppressione, ed io questa dimensione l’ho conosciuta. Queste conversazioni volevamo intitolarle La cultura rende liberi, ricordi? Poi ci siamo spaventati dell’assertività di questa affermazione e della sua troppo parziale verità.
Non è vero che la cultura rende liberi, o almeno non è sufficiente la cultura. Ma non vedo altre strade per liberarci e «diventare sovrani», per usare la bellissima immagine della Lettera a una professoressa («Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere»). Ho creduto fosse la politica, questo strumento, e non escludo del tutto che lo sia o che possa tornare ad esserlo. Ma intanto ognuno deve sapere che ha una possibilità – che per me è anche una responsabilità. Ognuno di noi, al di là di ogni dimensione collettiva. Credo che vivrò sempre aspettandola, questa trasformazione collettiva. Ma intanto, come diceva Nicola Chiaromonte, dobbiamo sapere che dalla caverna si esce uno per volta. Usava l’immagine di Platone per dire una cosa così precisa che va citata esattamente: «dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno, aiutandosi l’un l’altro».
Conoscere bene la caverna e trovare i modi per uscirne: questa per me è la cultura.
sta affermazione e della sua troppo parziale verità.
D. Oggi l’uscita dalla caverna è più facile o più difficile rispetto al tempo in cui ti sei formato tu?
R. Intanto è enormemente maggiore la possibilità di conoscerla, la caverna. Gli strumenti di conoscenza si sono moltiplicati. Parleremo molto di libri, e sono molti i libri usciti in questi anni che ci spiegano come Internet possa renderci stupidi o viceversa intelligenti. Sicuramente può renderci colti, nel senso della conoscenza, di sapere molto di più. La cultura è una cosa diversa dalla somma delle conoscenze, ma nasce comunque dalla possibilità di sapere: si esce dalla caverna anzitutto co- noscendo la caverna – e i dintorni. Facciamo subito un esempio: un attimo fa ho parlato di Nicola Chiaromonte. È un intellettuale importante, ma quanti lo conoscono? Il giovane lettore che ero forse sarebbe stato colpito dalla citazione che ho fatto, ma sarebbe impazzito per cercare notizie su di lui. Non è mai stato un autore di cui parlano i giornali o che si trova facilmente in libreria.
Oggi basta un motore di ricerca: la voce di Wikipedia è piuttosto rudimentale (e bisognerebbe arricchirla), ma in Rete ci sono siti e materiali bellissimi ed esaurienti su Chiaromonte. Dopodiché nasce il problema se l’abbondanza di risultati e la facilità ad accedervi spingeranno a leggere davvero i suoi libri o genereranno la sensazione che alla fine siano, per così dire, superflui. La conoscenza non è un accumulo di competenze e di informazioni, ma a volte ho l’impressione che ci sia una sottovalutazione di quello che, anche solo da questo punto di vista, sta accadendo sotto i nostri occhi. Pensiamo al tema della comunicazione delle notizie e dei saperi. L’umanità ha cercato da sempre strumenti per comunicare più velocemente, più esattamente e più largamente possibile. Tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo conosciuto, fin dai più rudimentali, inseguivano questi tre obiettivi: raggiungere più persone possibili, nel più breve tempo e con il massimo di precisione. Con qualche risultato: secondo Eschilo, quando Agamennone torna da Troia Clitemnestra ha già saputo l’esito della guerra. In poche ore, attraverso una rete di fuochi, cioè di segnali luminosi, la notizia ha preceduto il ritorno dell’eroe. Eschilo descrive meticolosamente la catena di montagne e postazioni che hanno permesso al messaggio di arrivare e un tedesco, all’inizio del Novecento, ha dimostrato che effettivamente era possibile nei tempi descritti dalla tragedia. La storia dell’umanità è dominata dal desiderio di comunicare, è piena di tentativi generosi e ingegnosi di trasmettere qualcosa: in fondo cosa ha fatto Filippide con la sua corsa da Maratona? E cosa hanno fatto per secoli, tra l’ammirazione stupefatta dei presuntuosi europei che ne scoprivano la raffinatezza comunicativa, i tamburi parlanti africani?
Ebbene, oggi quel desiderio è stato esaudito: possiamo diffondere notizie e conoscenze in modo immediato, con una velocità che coincide ormai con l’istantaneità, con un raggio talmente ampio che tendenzialmente non esclude nessuno e con l’esattezza che deriva dal fatto che il messaggio arriva direttamente da chi lo ha emesso. Non credo di semplificare troppo se dico che il sogno di comunicare con la massima precisione, rapidità e ampiezza si è realizzato, ed è un risultato che chiude un’epoca, che pone fine alla storia delle comunicazioni come l’abbiamo conosciuta. E finalmente ci mette davanti alla sfida vera: come riempire questo enorme spazio che si è aperto? Qui siamo renitenti, indolenti. Ci balocchiamo in discussioni vacue o interessanti ma non afferriamo ancora la meravigliosa, epocale occasione che ci è offerta. Non onoriamo il sogno di generazioni.
Questo il video della presentazione del libro all'International Journalism Festival, tenutosi a Perugia, dal 30 aprile al 4 maggio 2014.
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