venerdì 28 novembre 2014

I regni dell'immagine/11. Tappeti, armi, destini

Le mille e una notte, Léon Carré.
[di Lisa Topi]

Ero arrivata dai Topipittori da qualche settimana, quando Paolo mi mostrò il catalogo della mostra Calpestare la guerra alla Casa d’Arte Futurista Depero di Rovereto. La mostra riunisce una singolarissima raccolta di tappeti afghani raffiguranti immagini di guerra dal 1979, anno dell’invasione sovietica, a oggi. Il libro mi colpì subito, ma senza darmi una chiara percezione dell’effetto che i tappeti avevano su di me. Lo portai a casa e, solo a distanza di giorni, mi tornò in mente il meraviglioso saggio di Cristina Campo sui racconti de Le mille e una notte.

Nella postfazione al catalogo, i curatori della mostra spiegano che di recente i tappeti di guerra hanno attirato l’interesse di critici e galleristi d’arte contemporanea di fama internazionale. L’esposizione alla Casa Depero, tuttavia, ha scelto di riportare gli artefatti alla loro funzione originaria di ornamento, sul quale il fruitore (visitatore) posa il piede, in barba al magnifico disegno impresso dall’artista. Un atteggiamento anticonvenzionale, se si pensa alle cautele con cui ci avviciniamo agli arazzi abitualmente nelle pareti dei musei.

Le mille e una notte, Léon Carré.

Lungo il percorso espositivo, infatti, i tappeti sono disposti a terra e, come lascia presagire il titolo della mostra, non si tratta di una cifra stilistica quanto di una morale dichiarazione d’intenti. Perché protagonisti di questi tappeti sono pattern di carri armati, kalashnikov e bombe a mano in ossessiva ripetizione, che danno testimonianza di una vera e propria propaganda bellica.

Tappeto Baluchi 1990, Kabul.

Nel suo illuminante saggio Il flauto e il tappeto, Cristina Campo analizza alcuni aspetti della fiaba – difficilmente altrove si può trovare un equilibrio così ben riuscito tra critica e folgorazione poetica – e de Le mille e una notte, in particolare. È evidente che il tappeto ha un ruolo predominante nella cultura mediorientale perché lo si ritrova in quasi tutti i racconti di Shahrazad e per i più disparati uffici. Su di lui si giocano questioni di amore, morte, potere e magia.

Il tappeto magico, Monro S. Orr.

Ma, si chiede ripetutamente Cristina Campo, perché siano proprio i tappeti a volare. In fin dei conti, i cavalli alati e gli unicorni delle fiabe della tradizione occidentale sono creature più inclini al moto, di una stuoia riccamente decorata. Il motivo che arriva a individuare, con maestria da funambola, è che il tappeto è la superficie di contatto con la preghiera, la meditazione e la ricerca di sé. Quindi con l’elevazione mistica, la levitazione, il volo. Nei paesi islamici, esistono tappeti che, in assenza di una moschea, i fedeli utilizzano nei momenti della preghiera. Sineddoche del luogo sacro che riproducono l’arco a sesto acuto e la lampada votiva da orientare verso la Mecca, sono per la Campo delle piccole moschee portatili.

Tappeto per la preghiera.

Tres destinos, Remedios Varo.
Inoltre, l’atto di tessere ricorda l’opera di un creatore che ordisce trame per le sue creature, tanto che nella tradizione orientale il destino dell’uomo è paragonato al rovescio nodoso di un tappeto di meravigliosa complicazione per cui solo attraverso qualche intuizione fugace è possibile intravedere l’altro lato. I disegni dei tappeti orientali, che hanno una tradizione millenaria e ramificata in tutto il Medioriente e l’Asia centrale, prefigurano spesso un paesaggio edenico, dove giunge soltanto colui che si raccoglie in una pratica ascetica.

In un viaggio recente a Istanbul, ho sperimentato io stessa il potere di grande intimità di una stanza interamente ricoperta di tappeti. Entrare in una moschea è spogliarsi delle scarpe, sentirsi vicini al resto delle persone per via della nudità dei piedi e, allo stesso tempo, estraniati dal mistero insondabile dei versi e di una danza sconosciuta. Niente di più distante dalla processione di ori, cappotti e pettinature delle messe domenicali della mia infanzia. Un tappeto è un invito a fermarsi, inginocchiarsi, stendersi. È un mezzo di isolamento e contemplazione estatica, ma è anche condivisione: quando si è bambini, per giocare si preferisce il tappeto al divano e, quando si è adulti, sedersi su un tappeto significa annullare la distanza formale dalla seduta per sentirsi alla pari con gli altri.

Tappeto volante (con qualche supporto!)
Per rispondere alla sua domanda sul tappeto volante, Cristina Campo risale alla tradizione dei tappeti come strumenti di narrazione ed è qui che trovo il motivo della mia iniziale perplessità. I tappeti raccontavano poemi, saghe famigliari, testi sacri, cosmogonie, in un linguaggio mistico, di grande raffinatezza estetica e sapienza artigianale. Esperte nell’arte erano le donne (donne erano anche le ricamatrici afghane dei tappeti di Alighiero Boetti) e persino i bambini, le cui uniche mani erano in grado di intrecciare i diecimila nodi in un decimetro quadrato dei tappeti Senneh.

I mille fiumi più lunghi del mondo, Alighiero Boetti.
Questo codice fatto di segni, schemi e grovigli, veniva tramandato ai tessitori locali dai maestri del telaio in viaggio per i villaggi del Medioriente. E il grado elevatissimo di laboriosità e sofisticazione è così espresso dalla Campo:

Tejiendo el manto terrestre, Remedios Varo.
Parlare per il tappeto di simbolismo non è meno infantile che parlarne della fiaba e la parabola, sensi e oltresensi vi sono annodati insieme altrettanto strettamente quanto l’ordito allo stame e in essi ciascun uomo – come nelle storie di quell’antico maestro, delle quali ciascun uditore non udiva che una sola parte, ma completa e perfetta – leggerà il messaggio destinato a lui e a nessun altro.
Su questa soggettiva oggettività la mente che contempla un tappeto può riposare soavemente, come in un bosco animato da una sorgente nascosta. Le sapienti misure, il disegno concentrico, il ristoro balsamico di colori puri, distillati dalla natura e rinfrescati in acque correnti convertono il tappeto in un fulcro di contemplazione, non indegno qualche volta di una delicata parentela col sacro mandala.

Segue, da questa osservatrice di suprema eleganza, una lunga serie di interpretazioni possibili dei messaggi di un tappeto attraverso gli occhi delle diverse culture orientali che lo guardano. Ciò che mi dà da pensare è, da un lato, l’aspetto fortemente rituale della fabbricazione e dell’utilizzazione del tappeto. Ho sempre notato questo tipo di cura nei gesti di mia nonna, ai quali da bambina non sapevo dare un significato. Lei attribuiva una diversa destinazione d’uso a ogni tappeto, ognuno era il prescelto per una determinata stanza, una determinata stagione e persino una determinata ora del giorno e della notte, in una geometria scandita dai cicli temporali e da una rincuorante abitudine. Quando ci penso, ho ancora sotto il naso l’odore muschiato del lunghissimo tappeto azzurro che ci obbligava a stendere in terra e poi a riporre, piegato a ventaglio, sul davanzale della finestra una volta finito il bagno. Non erano gesti vuoti ma una rete magica di obblighi e doveri di grande delicatezza, da osservare come la metrica del poeta e il breviario del monaco, direbbe forse Cristina Campo.

Tappeto di Pazyryk, il più antico al mondo.
Ed è sempre a mia nonna che collego la seconda riflessione sui tappeti di guerra, al suo insegnamento a dare a ogni cosa il suo nome con precisione di sfumatura. Da piccola, pensavo che solo noi a casa avessimo la credenza, la cassapanca, il comò, l’abat-jour, che fossero nomi usciti dalla sua fantasia perché nessun’altro li usava. Si trattava, invece, di un’accuratezza e una varietà lessicale non troppo comuni. Ed eccomi arrivare al confronto tra i tappeti di guerra e i tappeti orientali di cui parla la Campo: manca totalmente, nei primi, la ricchezza, l’enigma, la polisemia. La capacità di evocare significati plurimi, figure e astrazioni. Danno un’unica lettura possibile, che ognuno di noi classifica secondo i propri filtri culturali, ma senza grandi sforzi d’immaginazione.

Tappeto Baluchi 1980, Herat.
I contorni frastagliati delle armi, dei motori e delle munizioni di questi tappeti, sullo sfondo piatto monocolore ricordano quasi la grafica 8 bit dei videogiochi degli anni ’80.

Il videogioco Space invaders.

A farla da padrone, in alcuni di essi, è la cronaca. L’immagine dell’attacco alle torri gemelle è particolarmente inquietante, non tanto per il clamore delle esplosioni e l’iperbole apocalittica (anche qui da videogioco: ci sono persino un missile e una portaerei ai piedi delle torri), ma per le silhouettes, in evidente sproporzione, che si lanciano dai grattacieli. In altri ancora, la celebrazione di figure politiche contravviene al divieto della rappresentazione figurativa della cultura islamica, inaugurando forse una nuova forma di comunicazione. In fin dei conti, se il tappeto è una delle più antiche forme di narrazione, probabilmente è inevitabile che il linguaggio si adegui alle forme del contemporaneo.

Tappeto Karghay 2001, Herat.
Tappeto Baluchi 1995, Herat.
E a chi proprio non riuscisse a rassegnarsi alla perdita del potere immaginifico dell’arte, consiglierei di andare a visitare i dipinti fiamminghi del Rijksmuseum di Amsterdam, soffermandosi sui pittori minori che riservano ispirazioni inattese, portandosi in testa le minuziose descrizioni della luce di Cristina Campo. Provare per credere.

Tutte le puntate precedenti de I regni dell'immagine le trovate qui.

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