Questa mostra, al di là del contenuto artistico, è un’eccellente occasione per approfondire l’attività di una casa editrice anomala, Tara Books, che ha ricevuto molta attenzione in Italia e nel mondo per aver saputo valorizzare (e sottolineiamo valorizzare, non sfruttare) la creatività di artisti tribali indiani e le tecniche di produzione artigianali ancora in uso nel paese asiatico.
In occasione della mostra è stato presentato Between Memory and Museum: a dialogue with folk and tribal artists, a cura di Arun e Gita Wolf. Non è il catalogo della mostra e nessuna delle serigrafie in mostra vi è riprodotto. Si tratta, invece, di una lunga e articolata riflessione a più voci sulla funzione del museo come rappresentazione di una cultura, sul rapporto fra memoria e conservazione, fra cultura e comunicazione, fra selezione e potere. Il libro è il risultato di un workshop di cinque giorni a cui hanno partecipato trentadue artisti di diversi villaggi e comunità tribali dell’India, già coinvolti in passato nell’esperienza dell’Indira Gandhi Rashtria Manav Sangrahalaya, noto anche come Museo Nazionale dell’Umanità. È, questo, un museo antropologico che raccoglie un’ampia gamma di opere d’arte e manufatti di culture popolari e tribali del subcontinente indiano.
Per quanto le riflessioni che sono scaturite dal workshop siano intimamente connesse con la realtà dell’India e del Museo, oltre che con la specificità delle culture che rappresenta, riteniamo che possano essere estremamente interessanti anche per noi, che abbiamo un’idea assai diversa dei musei e che spesso abbiamo smarrito il senso della loro necessità. Vi lasciamo quindi alla lettura di alcuni brani del libro.
Perché, secondo noi, leggerli è importante? Per due ragioni: la prima è che l’approccio di molti di questi artisti alla realtà che rappresentano rivela un’esperienza totalizzante nell’atto di guardare e una concezione animista del mondo che, a nostro avviso, assomiglia molto all’atteggiamento dei bambini di fronte agli atti creativi, che siano opere e oggetti in un museo, o i prodotti della loro inesauribile creatività. La seconda che troppo spesso dimentichiamo come alcune popolazioni (segmenti di popolazioni) non siano semplicemente soggetti antropologici; e che se si mettono a repentaglio le condizioni che garantiscono la possibilità di sopravvivere nella loro condizione, quelle culture celebrate nei musei, nei libri e nelle gallerie d'arte proprio per la loro diversità cesseranno di essere vitali.
Immaginate un villaggio con campi fertili, che producono ricchi raccolti, ospitano molti animali e nutrono molti uomini, i topi raccolgono i grani che cadono dalle spighe e li ammassano nelle loro tane. Un museo accumula oggetti culturali come un topo accumula i grani caduti a terra. Gli oggetti, come i grani, sono raccolti e accumulati nell’edificio del museo. Una cultura vitale – il raccolto – deve essere portata al museo. Solo così quella cultura – le messi agitate dal vento e scaldate del sole – può essere ancor più vitale. I suoi grani, raccolti in quelle tane, potranno diventare importanti per il pensiero futuro… se si darà loro luce e acqua, potranno germogliare di nuovo.
Dawat Singh Uikei
Gita e Arun Wolf
Ho pensato al museo come a un alveare. I ricercatori e i conservatori del museo sono come api operaie: raccolgono con grande cura i migliori oggetti e manufatti nei villaggi e li portano al museo, come le api operaie portano all’alveare le gocce del più dolce nettare. [Poi ci sono quelli che visitano il museo. Ciò che queste persone capiscono sugli oggetti esposti dipende da ciò che possono scoprire in proposito. Ogni oggetto ha una storia e il modo in cui la storia comunica dipende da chi la racconta e dalla sua sincerità.
Pradeep Marawe
Bhajju Shyam
Faccio tatuaggi da quando avevo 14 anni e ho insegnato a mia figlia a farli. La nostra comunità è molto povera: noi non possediamo terre. Andiamo di villaggio in villaggio a tatuare le persone. Montiamo la tenda o dormiamo sotto un albero e raccogliamo la legna per cucinare all’aperto. Mio marito è bracciante e cerca di trovare un lavoro, se è possibile. La nostra è sempre stata una vita dura. Il museo ha i nostri disegni su tela, appesi al muro. Ma le nostre vite sono molto di più: il fatto che siamo nomadi, il modo in cui ci muoviamo nella foresta per raggiungere i villaggi. Non si riesce ad avere un’idea di come sono le nostre vite. Non si dice niente di come richiamiamo le ragazze nei villaggi per tatuarle, o le storie che raccontiamo e le canzoni che cantiamo per distrarre i clienti dal dolore del tatuaggio. Loro non ci lasciano entrare nelle loro case: facciamo i tatuaggi all’aperto. Queste sono cose che la gente dovrebbe sapere. Ma non sono sicura di poterle disegnare… sono solo una tatuatrice.
Shanti Bai Marawe
Dilip Shyam
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