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mercoledì 7 ottobre 2015

È l'ombra la vera protagonista

Per quale strana alchimia del famigerato Algoritmo Zuckerberg un bel giorno mi sia comparsa in bella evidenza sullo schermo del computer un'immagine di Andrea Serio non lo so. Ma ho cominciato a seguirlo. Ci sono cose del suo disegnare che sono molto interessanti, che mi appassionano. Altre meno. Ma il punto non è mai il gusto personale. Comunque, lui disegna, io lo seguo, cominciamo a parlarci un po' di disegno e di materiali e a un certo punto gli ho fatto una domanda. Questa è la sua risposta.

Serietà e leggerezza
[di Andrea Serio]

Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo riguardo la mia idea di disegno, per prima cosa mi sono messo a ragionare sui motivi che mi spingono ogni giorno a prendere in mano una matita e a come questi motivi siano cambiati, se lo hanno fatto, nel corso degli anni, da quando ero un bambino che scarabocchiava sui quaderni di scuola fino ad oggi.


Considerato che, in quegli esordi infantili, il disegno è sempre soprattutto un gioco, quanta parte di quella leggerezza sopravvive allo scorrere del tempo, alla pressione che le esigenze lavorative esercitano inevitabilmente su chi ha fatto di questa passione un mestiere? Quanta ne è sopravvissuta in me?


Molte persone pensano che noi illustratori siamo molto fortunati, perché la nostra è una professione bellissima. È vero, è così: siamo dei privilegiati. Di solito, quelle stesse persone pensano anche che fare l'illustratore sia divertente e rilassante, una specie di hobby; la vedono come una occupazione tutto sommato poco impegnativa, per niente faticosa, dalla quale si ricavano continue gratificazioni personali. Un gioco, appunto. Beh, non è proprio così.



Non è così affatto. Illustrare a livello professionale richiede impegno, preparazione, studio, sacrificio e dedizione totali; il rapporto con il mercato è molto spesso conflittuale e deprimente; i tempi di consegna dei lavori sono strettissimi e ci si ritrova a dover eseguire in un pomeriggio commissioni che avrebbero richiesto una settimana di lavoro. Tranne in rari casi, fare l'illustratore è faticoso ai limiti del logorante e a volte, paradossalmente, può essere persino noioso. La verità è che quando disegnare diventa la tua professione, a lungo andare puoi finire per convincerti davvero che il disegno sia solo, e solamente, un lavoro.


Quindi torno a pormi la domanda di partenza: quanta leggerezza sopravvive a tutto questo? Non voglio dire che non sia giusto considerare questa attività seriamente; è certamente giusto sudare, esercitarsi, mettersi costantemente alla prova e tentare di migliorarsi sempre, persino soffrire se necessario, ma credo sia anche indispensabile che rimangano sempre uno spazio e un tempo da dedicare al disegno in quanto momento di pura gioia. Quando manca la gioia il livello scade, prevale la fatica e allora si rischia di "fare fatica nel fare quello che si ama fare", come diceva Andrea Pazienza; e non è una bella cosa. Ecco, io coltivo e proteggo gelosamente questi miei momenti di gioia.


Per questi attimi preziosi non ci sono orari e non esiste un luogo: sono finestre che si aprono inaspettatamente tra una commissione e un appuntamento, tra una partenza e un arrivo, in prossimità di un pasto, in un pomeriggio mezzo vuoto, in una serata tranquilla o in una notte insonne. Possono presentarsi ogni giorno per molti giorni di fila, o più volte nello stesso giorno, o una volta sola in un mese: l'importante è tenersi pronti e attrezzati. Io, allora, prendo i miei pastelli, apro uno dei miei quaderni e mi isolo dal resto dell'universo conosciuto. Posso farlo sia rimanendo nel luogo in cui mi trovo in quel momento, sia andando a caccia di un soggetto da disegnare, come iniziarono a fare i paesaggisti del secolo scorso, in fuga dal buio dei loro studi, purché non si tratti di perdere troppo tempo nella ricerca (l'immediatezza non è fondamentale, ma è preferibile).


Solo disegnando in questo modo così selvaggio e libero riesco a smettere di pensare e di preoccuparmi, dimentico le piccole ansie quotidiane: uno strano senso di calma misto a eccitazione mi avvolge; posso concentrarmi su ciò che osservo e sui miei gesti, sulle traiettorie, sul peso delle mie dita; avverto la pressione dei miei polpastrelli, annuso il profumo della carta, della cera e del legno; il sangue fluisce, il ritmo del mio respiro si regolarizza. Il tempo è bloccato. La gioia primitiva dei miei scarabocchi infantili è evocata, ritorna.


Affinché tutto ciò avvenga, ogni volta, il disegno necessita di un'unica condizione: la sua assoluta inutilità pratica. Più il disegno è vissuto come sfogo, come gesto fine a se stesso, maggiore è lo stato di benessere che ne ricevo. Non devo inventare nulla, rappresentare nulla;  per evitare di impegnarmi in qualsiasi forma di progettazione, o nello studio di un soggetto nuovo, solitamente vado alla ricerca di forme che ho già disegnato e che conosco e amo: certi angoli verdi, giardini, siepi, alberi di varie specie, strade, piccoli edifici persi nella campagna, scalinate, muri soleggiati, scorci selvatici, costiere, spiagge, panorami. In particolare, il rapporto tra luce e ombra mi interessa moltissimo e mi diverte provare a riprodurlo, a ricostruirlo sul foglio.



L'ombra è la vera protagonista in quasi ogni immagine che realizzo. Quasi sempre ritraggo scene disabitate, se non desolate, in cui la presenza umana è annullata o ridotta al minimo; questo, perché voglio mantenere al centro della composizione l'ambiente, l'atmosfera, e anche perché non mi è mai particolarmente piaciuto disegnare le persone, spesso tendo a vederle come elemento di disturbo all'interno della composizione. Nei rari casi in cui mi decido a farlo, inserisco di solito piccole figure solitarie appena accennate, ritratte in atteggiamenti pensosi o comunque colte in un momento di intimità. Spesso mi identifico in esse, altre volte mi faccio domande sulla loro identità, come se non fosse stata la mia mano a disegnarle, ma loro stesse si fossero intromesse nell'inquadratura, o fossero state ritratte per sbaglio: chi sono e perché sono lì? Da dove vengono? Cosa guardano? A cosa pensano? E allora mi perdo ancora di più nel disegno, che a questo punto smette di appartenermi. Lo percorro, lo indago, mi ci perdo dentro.


Passando, poi, ad analizzare la tecnica di realizzazione, mi accorgo che, anche in questo senso, applico la logica della leggerezza. Dopo aver raccolto e accumulato per anni una quantità insensata di materiale da disegno, con cui potrei tranquillamente tirare avanti per altri quarant'anni, la scorsa estate ho deciso di ridurre al minimo la mia attrezzatura da lavoro e di usare solamente un pastello a cera, nero. Con quest'unico pastello, che sostituisco solo una volta completamente consumato, percorro le pagine dei miei quaderni Moleskine, taccuini leggeri e versatili dalla carta buonissima. Progettavo da tempo di dedicarmi alla linea e cercare una nuova varietà di segni, imponendomi di resistere alla tentazione del colore anche quando, soprattutto all'inizio, era fortissima. Da quando ho imparato ad abbozzare direttamente a pastello, ho smesso di utilizzare le matite di grafite ed è dai tempi dei miei studi di architettura che ho abbandonato il portamine, che ho sempre percepito come freddo e privo di poesia.


Resto sempre molto tentato dalla china, che mi piace molto, ma che non so usare bene e di cui dovrei approfondire lo studio. I pastelli, al contrario, li conosco e utilizzo da anni; ho iniziato con quelli secchi, per poi passare a quelli a cera e successivamente a quelli ad olio: sono strumenti apparentemente poveri, elementari, ma dalle grandi proprietà espressive. Il loro tratto conserva ed esalta la forza del gesto che lo ha generato, può essere più netto o più sgranato, corposo o sottile, può diventare impalpabile, polveroso; puoi cancellarlo, grattarlo, sovrapporlo, diluirlo; il pigmento, a volte duro, a volte morbido e pastoso, dialoga moltissimo con la grana della carta, può assecondarla oppure opporvisi.


Ecco, disegnare così istintivamente mi riavvicina alla visione più poetica ed emozionante di quest'arte e di questo mestiere, alla bellezza dei materiali, alla loro magia, mi riconcilia con la natura, mi ricorda cosa sia quella leggerezza di cui parlavo. E mi tiene allenato.
In conclusione: dopo tanti anni, disegnare mi piace ancora moltissimo, non credo che mi stancherò mai di farlo e non credo che potrei mai rinunciarvi. Spero di poter continuare a vivere di disegno, per sempre. Sicuramente non smetterò di ricercare ed attendere il prossimo dei miei momenti di gioia;
allora prenderò i miei pastelli, aprirò uno dei miei quaderni, e.


lunedì 21 settembre 2015

Disegnare alberi 3 / Il mestiere di guardare e vedere

Carpini.

[di Lorenzo Sartori]

… e poi, un po' come sempre, ma un po' è anche sempre nuovo, lo sguardo e il disegno hanno continuato a cambiare spostandosi di ramo in ramo, di luce in luce in ombra soprattutto, dalla corteccia al muschio e lungo i dettagli differenti di tutto questo – con l'emozione della scoperta e il gusto di lasciarmi portare senza resistenza opporre.

Succede sempre una metamorfosi dello sguardo. Progressivamente lo sguardo approfondisce il suo acume grazie al tempo in cui resta posato sull'albero o una sua parte, e arriva a vedere cose che anche contraddicono la 'guardata' precedente, che pure era giusta, non frettolosa. Alla pienezza dello sguardo giovano il tempo e l'attenzione, giova la conoscenza dell'oggetto che si accresce a ogni occhiata e pure a ogni tratto disegnato, perché disegnare amplifica la percezione e non ho dubbi: l'amplifica grazie a una sempre più intima comprensione, che a me piace sentire reciproca: l'albero è in relazione con me, accoglie il mio sguardo che l'onora e mi dischiude il segreto del suo carattere.
Così lo sguardo si carica, coglie complessità di trame e volumi… superiori, più strutturali, vede movimenti interni che contraddicono quelli più superficiali. Quelli superficiali sono corretti sì, ma afferrare una pulsazione di vita vera dell'albero (e io credo di arrivare a penetrare solo il primo di chissà quanti strati) chiede allo sguardo di calarsi molto più in profondità.

Ciliegio.

Ecco: se poi riguardo il disegno senza più l'albero davanti ma con la memoria di lui ancora fresca, spesso mi colpisce l'arbitrarietà delle mie scelte espressive. D'accordo che lo sguardo obiettivo non esiste e nemmeno m'interesserebbe, ma è sbalorditivo accorgermi di avere rappresentato una parte limitatissima dell'essere… una parte che dice assai più di me che di lui. Mi viene questo paragone: come assistere alla recita di un grande poeta che attraverso il suo genio ti fa viaggiare in mondi lontani e ti trasmette un'intuizione sul mistero della vita, e raccontarlo in giro a partire dall'abbigliamento che assomiglia al tuo stile di vestire. Nessuna bugia, per l'amor di Dio… invero un tantino limitato.

Vecchio ciliegio. Tre ritratti.

Mi è successa una cosa.
Disegnandolo, ero diventato amico di un vecchio ciliegio che sta in un posto un po' selvatico del quartiere, uno di quei posti irrisolti, non belli, nemmeno tanto raccomandabili, che mi fanno venire una commozione che la gente non capisce, che mi pompano i sospiri. Questo albero annoso, questo anziano, saggio capo tribù l'ho ritratto più volte, da punti di vista diversi, così vario e ricco e carico di forme com'è. Quando la giovane Elena mi ha chiesto in regalo il disegno di un albero, ho scelto lui. Ho dovuto impegnarmi in parecchie sessioni per venirne a capo. Tanto che il 'ciliegio per Elena' è diventato qualcosa di più di un disegno e di un regalo: è stato un banco di prova, un ostacolo, una sfida difficile, una prova di resistenza, un appuntamento con qualcosa di sfuggente della mia stessa anima.
E una mattina è successa la cosa inaspettata: ho vissuto nel disegnare un crescendo di tensione, sospinto da sbotti di frustrazione, per riuscire una buona volta ad afferrare almeno un lembo dell'anima di quest'albero, che mi ha portato a disegnare con tanta energia da sentire la fatica fisica nella carne. Mi era successo qualcosa di simile in gioventù, alle prese coi miei vezzi da aspirante artista maledettoide, e poi facendo esperimenti di disegno a ritmo obbligato dalla musica… ma erano velleità, scelte come altre. Qui la fatica è arrivata da sé, comandata da una sincera, intima necessità.
Interessante in particolare per me, che ho il senso d'inferiorità dello svolgere un mestiere comodo, intellettuale, senza fatica né, quasi, corpo.

Ciliegio.

Il vecchio ciliegio è difficilissimo perché ha nelle sue fibre tutta una lunga vita.
I bagolari mi sono ostici per essere così lineari e apparentemente semplici, per l'ardua lucentezza della loro pelle d'elefante.
La sensualità delle curve dei platani mi turba e mi entusiasma, ma mette a dura prova il mio segno nervoso e restio all'abbandono. E dentro a ciascuna famiglia, ogni albero è uno, con le sue (mie) specifiche difficoltà che mi porge come occasioni. Con la sua unica inconfondibile bellezza.
Ma si è capito: gli alberi non sono solo un soggetto colmo di bellezza da ritrarre: sono scoprire qualcosa di me stesso in loro, sono forza pura della Vita, evidenza dello Spirito, sfida con la materia del mondo, luogo a parte nella superficie della quotidianità, dono (reciproco)… e chissà quanto altro ancora. Saggezza, ad esempio.
Ogni incontro è un'esperienza nuova, in cui le piccole cose che ho già imparato sono soltanto una cassetta degli attrezzi minima al cospetto del cimento. E, spesso, finisco per adeguare il cimento alla limitatezza dei miei attrezzi. Così è naturale che mi venga da stupirmi, rendendomi conto mentre mi arrabatto a disegnare, che quanto l'albero mi dà nel lasciarsi contemplare riesco a ripagarlo soltanto in minuscola misura. È amaro, ogni volta, accettare di ricorrere al mestiere per camuffare una piccola sconfitta nel ritrarre questo o quel particolare… Ma è anche entusiasmante quanto la Vita permane indisegnabile pure concentrando l'attenzione e l'azione sui piccoli piccoli dettagli.

Carpini.

Sono emozionato di portare a compimento il mio primo taccuino d'alberi. Sento gratitudine per ognuno degli alberi che mi si sono disvelati generosamente nella loro bellezza e in quel po' della loro anima che sono stato capace di cogliere. E per quel po' che mi hanno rispecchiato di me stesso. Per tutte le ore che ho passato in così piacevole compagnia.
Sono loro grato anche per le nuove cose che mi hanno mostrato del mio mestiere, che sto imparando a maneggiare un poco meglio… anche grazie alla consapevolezza acquisita dei miei voraginosi limiti, con cui ho preso contatto impegnandomi nei ritratti di queste pagine. E loro grato anche per i piccoli progressi che mi accorgo di fare nel mestiere, tutt'altro che semplice, di guardare e di vedere.

Ora, che è di nuovo estate, ho ricominciato a disegnare gli alberi.

Pioppo grigio, 2015.

lunedì 14 settembre 2015

Disegnare alberi 2 / Uno sguardo nuovo


Ciliegio morto.
[di Lorenzo Sartori]

Tutto nasce (ma era un pretesto, come succede vivendo) da uno sguardo nuovo, chiamato dal tronco di un ciliegio morto. Immagine dalla forza intensa, ha catturato la mia attenzione e non l'ha mollata finché non ho accettato di ritrarlo.

Disegnando, le forme che mi avevano colpito insieme all'insieme perché evocative di altre forme, hanno preso sempre più forza, fino a esigere d'essere disegnate a parte come forme autonome, figure dello spirito: un felino selvaggio che si arrampica o che attacca, il tronco e le gambe di un uomo aggredito da un drago, un uomo o l'Uomo in croce che invoca nel dolore…



Ecco una finestrella, una sola delle mille, e minima pure: un pertugio su tutto il mistero visibile qui e ora, che resta invisibile alla mia quotidianità distratta, abitudinaria, meccanica. Ancora, ne voglio ancora.

Parti del ciliegio morto.
Così, il nuovo sguardo mi accompagna la mattina appresso, nella passeggiata verso l'orto paterno per la via dei boschi, con la voglia di vedere meglio e di più. Con in cuore l'esempio del guardare di Antonella che tutto (tutto, sì) coglieva disinvoltamente sempre, per vocazione, io cammino posando lo sguardo con intenzione su porzioni di paesaggio che nel mio consueto camminare per quelle stradine e sentieri trascuro – e mi accorgo che ciò che di solito trascuro è quasi ogni cosa.
Uno sguardo più vivo e attento cambia tutto, nel mio modo di passeggiare. Intanto sono costretto a rallentare, e molto. A fermarmi spesso. Sono costretto a fare i conti su dove e come appoggio i piedi – così tutti i movimenti dello sguardo devono comprendere frequenti occhiate al terreno subito avanti a me. E rallento ancora l'andatura.

Frassini.

Poi, vedendo di più, ho anche più stimoli a divagare non solo con gli occhi, ma anche coi piedi, percorrendo e andando a calpestare parti di territorio attigui al solito sentiero, divergenti, così scoprendo cose nuove in generale e non solo nuove visioni.
Ciò che potremmo chiamare 'essere qui', e non già alla meta col pensiero, oppure nei pensieri: qui.
Ci sono tanti trucchi per essere qui, camminando e no. Ma ora devo dire del disegnare gli alberi, l'esperienza che è iniziata per me dal nuovo sguardo.

Bagolaro.

All'inizio c'è la chiamata. Ogni albero va bene, sono convinto. Ma a me piace ascoltare la chiamata dell'albero di quel momento lì. Camminare, anziché pedalare, dà tutto il tempo per sentire la chiamata, o la sottile resistenza a una decisione preconcetta. Ascoltare la chiamata è già un principio di relazione, come la scintilla di un'intesa fra umani: poi ci si studia un poco, si fa un respiro d'incoraggiamento perché il compito non si presenta facile quasi mai. Ci si accomoda e si comincia, guardando. Cercando con gli occhi il motivo forte d'interesse, cogliendo l'innesco della fascinazione, forse già trovando un intento di come disegnare.
Preliminari nove volte su dieci disattesi ai primi segni tracciati sulla carta, ma va tutto bene, da qualche parte bisogna partire e disattendere non è peccato.

Carpino.

Quasi sempre c'è un conflitto che, per essere così frequente, ha ormai perso ogni drammaticità di toni e prende il suo spazio come un cappello annunciato nel programma di sala, come una recita cerimoniosa fra due macchiette a cui assisto pacifico quasi che non mi riguardasse: il conflitto fra lo sforzo di fedeltà 'oggettiva' alle forme visibili dell'albero e la ricerca delle sue qualità ed energie nascoste (la risonanza fra i miei visceri e i suoi).
Seguendo ora una strada, ora l'altra, o le molte varianti improvvisabili, ciò che credo di aver compreso è che:

1) di una costruzione preliminare accurata ho bisogno. Forse è un modo di mettere in primo piano la verità, e l'albero: rinvio a dopo l'auspicato lasciarmi prendere dalla forza dei tratti, per lavorare su proporzioni fedeli. In concreto diventa anche un modo per dare una scaldatina allo sguardo prima di cominciare davvero – e avere una panoramica non superficiale dell'albero.

2) spesso ho anche bisogno di concedermi il torpore della precisione e dei dettagli superflui, prima che arrivi l'esigenza, o l'ispirazione (o semplicemente l'esasperazione del perfezionismo) a smollarmi nel flusso di disegno buono, quello in cui sento che i segni che traccio sul foglio e i movimenti con cui li traccio sono in sintonia col temperamento dell'albero per come posso percepirlo.

… nel ritrarre l'albero facevo fatica a risentire il senso di ragionamenti e intenti che mi ero dato nei giorni scorsi: l'obiettivo del piacere di disegnare momento per momento, ad esempio. Disegnavo, semplicemente. E anche se per certi versi mi pareva un passo indietro, non me ne importava granché né delle scoperte né del modo di disegnare… mi pareva tutto un giochino irrilevante dell'ego e invece io ero lì col mio albero davanti e il disegnare era solo un modo che mi viene più facile di altri di essere davanti a lui, di osservarlo ed essere in contatto.

(2 - continua)
Per leggere la prima puntata, Disegnare alberi 1 / La distanza dei miei occhi, qui.


Bagolari.

lunedì 7 settembre 2015

Disegnare alberi 1 / La distanza dei miei occhi

Platano.
[di Lorenzo Sartori]

Poi arrivò l'inverno e questa attività, così appagante e profonda, che ero convinto che non sarebbe mai più andata via dalla mia vita, da un giorno all'altro cessò. Non per la stagione, tutt'altro che rigida: banalmente per lasciar posto a impegni e progetti che richiedevano tutta la mia attenzione e il mio tempo.
L'estate prima, assieme all'attività di ritrarre gli alberi avevo scoperto, grazie al ladro di biciclette che mi aveva appiedato, il bello del camminare. Semplicemente: non ai monti dentro paesaggi incantevoli, questo lo conoscevo già: intendo sui marciapiedi della mia città, per fare la spesa o andare in centro o…
Questo non ho potuto lasciarlo: ho camminato tutte le mattine al sorgere del giorno e anche prima, nei campi che ho vicino a casa. Così facendo gli alberi ho continuato a tenerli con me, parte della mia quotidianità estetica e spirituale, e per la prima volta ho davvero osservato gli alberi spogli, sorprendendomi di trovarli belli – perché son brutti, e non certo per colpa loro, tanti alberi di Milano mutilati da potature orrende e ignoranti, che offendono il cuore assieme alla vista, e di cui hanno da render conto alla loro coscienza condomini e giardinieri dal portafogli pingue e l'anima scheletrica.
Non solo li ho trovati belli, ma li ho visti: nella loro interezza, nel disegno compiuto della loro interezza grazie all'essenzialità delle linee nude del legno. Tanto che credevo, nel tornare a disegnarli, che non mi sarebbe stato più possibile sceglierne la porzione che più o meno sempre avevo disegnato l'estate e l'autunno scorsi nel comodo, ma limitato formato del mio quaderno, ossia il tronco e una parte dei rami bassi e quel tanto di fogliame che compare in campo. Credevo che li avrei disegnati tutti quanti, o per meglio ancora dire, la metà visibile ed emersa all'aria di loro.
Ma neanche questo, è stato. L'ostacolo ora non è la dimensione del foglio. È proprio la distanza dei miei occhi dall'albero: ho la sensazione di non arrivare a conoscerlo davvero, se la distanza m'impedisce lo sguardo 'tattile', sulla corteccia anzitutto.
Perché disegnare gli alberi è fare conoscenza con esseri vivi, entrare in relazione non solo con una superba manifestazione della Vita, ma con individui, vivi. Che sono, peraltro, per l'artista, modelli ideali: pazientissimi nel posare, sempre disponibili, pressoché immobili!

Fico di Besagno.

Quando ho dato inizio al primo taccuino degli alberi, non sapevo che sarebbe stato un taccuino degli alberi. Attaccavo uno dei tanti taccuini dal vero, generici. Ho dedicato, senza essere proprio fiscale, una pagina al disegno e una ad annotazioni che si riferiscono al disegno o che nascono dal disegnare.
Nella primissima pagina di annotazioni, scrivevo un intento che più smentito di così, a posteriori, non poteva essere:

… Però avevo, come pare, bisogno di ripercorrere qualche errore, riprendere le misure del disegno dal vero in natura e anche di una spinta a prendere una decisione: d'ora in avanti non più di venti minuti per copia, misurati con l'orologio se il piglio che ho in quel momento è eccessivamente meticoloso. E se occorrono ritocchi, si faranno poi.

Beh, una delle cose fondamentali che ho imparato è che, per disegnare un albero (anzi quella porzione di albero che dicevo), occorre almeno un quarto d'ora di disegno iniziale 'a tentoni', grazie al quale raggiungo uno stato di presenza in cui finalmente vedo l'albero che ho davanti. E questo succede nei periodi in cui sono in forma, allenato dalla pratica quotidiana. Se no può volerci anche mezz'ora. Il disegno completo mi ha spesso richiesto due, tre ore e più, quasi sempre in sessioni successive.
Che cosa succede nella fase iniziale in cui il disegno non ingrana e neanche me ne rendo davvero conto? La sensazione è sfuggente, ma la descriverei come un brancolare. Disegnare a tentoni, come dicevo. Uno smarrirsi progressivo degli intenti iniziali. Il dissolversi o moltiplicarsi o rimescolarsi dei punti magnetici d'attenzione di partenza. Un vagare, lasciarsi portare… dalle ramificazioni delle linee, dall'intersecarsi delle forme, dalla messa a fuoco delle superfici che dà tatto all'occhio… È una resa progressiva. Poco a poco mi arrendo alla forza della visione che però io non so scindere dalla forza stessa vitale dell'albero: della sua anima, con cui provo, con le mie modeste capacità, a entrare in risonanza.

Carpino.

Ippocastano.

A volte questa resa progressiva e quasi impercettibile sbocca all'improvviso in un impeto della mano che prende sicurezza nella guida del disegno, che cioè a un certo punto sa come selezionare, cosa seguire dei tanti, troppi stimoli e tentazioni d'interesse, e cosa è possibile, per il momento, tralasciare. Lo fa con sicurezza perché si è creata una sintonia (con la visione o con l'albero) e così a guidare non è l'arroganza della scelta formale, dello stile, un partito preso d'artista. Non è, alla buon'ora, l'ego a tracciar linee sul foglio, è una più discreta testimonianza, l'omaggio umile alla sontuosa bellezza della vita vegetale. Il risultato non è più importante, non molto più che l'appunto di poche frasi su un taccuino dinnanzi alla gloria del Creato, di un tramonto nella natura selvaggia… ossia un mero appiglio per non smarrire il ricordo di sensazioni vissute. Perché è così. Alla fine anche il disegno meglio riuscito è niente a confronto della bellezza toccata con lo sguardo e assorbita attraverso il disegnare. Disegnare gli alberi diventa in primo luogo una forma di meditazione, una tecnica di presenza profonda a ciò che mi sta attorno, o sotto gli occhi (o sopra, per dirla più giusta ancora).

(1 - continua)

Carpino.
Melo.

mercoledì 11 marzo 2015

Incontrare il mondo a metà strada

Da alcune settimane mi interrogo su cosa scrivere di Six drawing lessons di William Kentridge, il libro scaturito dalle Charles Eliot Norton Lectures che ha tenuto a Harvard nel 2012 e pubblicato dalla Harvard University Press lo scorso anno. (Per intendersi bene, le Norton Lectures sono quelle delle Lezioni americane di Italo Calvino e delle Sei passeggiate nei boschi narrativi di Umberto Eco; se volete approfondire, leggete qui).

È un libro che mi ha affascinato e, a tratti, entusiasmato. Sotto molti aspetti lo potrei definire un libro rivelatore o, almeno, lo è stato per me che sono decisamente digiuno di arte, disegno e teoria degli stessi. La conclusione a cui sono giunto è affidarmi ad alcuni brani che ho trovato particolarmente illuminanti, legati a una breve frase incontrata quasi all'inizio del libro


Questa frase chiave del libro si trova a pagina 4, scritta in lettere maiuscole in Gotham color granata:

MEETING THE WORLD HALFWAY

Cioè, incontrare il mondo a metà strada.
È questo, secondo la mia interpretazione, il concetto della sua attività di disegnatore che Kentridge ha inteso promuovere nelle sei lezioni di Harvard. E dico disegnatore non a caso, perché è Kentridge stesso ad affermare di essere sempre disegnatore, anche quando usa le parole, la cinepresa, o mezzi diversi da carta e carboncino, suoi utensili d’elezione.



Che cosa significa incontrare il mondo a metà strada ce lo spiega lui stesso nella prima lezione, riferendosi ai suoi collage di cartoncino nero rozzamente strappato.
Domandate a qualcuno di disegnare un cavallo e (se non è Delacroix) la cosa non gli sarà facile. Che distanza c’è fra la schiena e gli zoccoli? Qual è la distanza fra la mandibola e l'ala dell’atlante? Quale il rapporto fra il garrese, la cresta e la punta della spalla? […] Ma basta muovere dei pezzi di carta nera e il cavallo compare davanti ai nostri occhi. Qualcosa che non sappiamo di sapere. Qualcosa che possiamo riconoscere senza conoscere.
Questa tensione verso il senso – prendere i frammenti e comporre l’immagine - è presente non solo in questo nostro guardare ombre, ma in tutto ciò che vediamo. Il vedere è diventato metafora di tutte le immagini e di tutti i modi in cui ci appropriamo del mondo.
Anche se le forme sono sintetiche e l’immagine semplificata, abbiamo il cavallo sotto gli occhi. Anche se fosse un singolo glifo, vedremmo il cavallo nei frammenti e riconosceremmo Ronzinante.



Dentro c’è il senso del CAVALLO, dell’essere cavallo, che aspetta di essere innescato. Ronzinante, Bucefalo, il cavallo di Troia, Stubbs, il fotofinish di una corsa: è tutto lì dentro. E un processo duplice: il foglio di carta viene verso di noi e  il nostro senso del cavallo gli va incontro. Incontriamo il mondo a mezza via. Il foglio di carta, con le sue forme nere, diventa la membrana attraverso la quale incontriamo il mondo. Una cosa allo stesso tempo ovvia e sorprendente. Il disegno diventa il punto d’incontro, ma anche la soglia sulla quale il mondo incontra noi: dove incontra lo Stubbs, il Ronzinante, le voci dell’enciclopedia, i ricordi delle galoppate e quelli di una caduta da cavallo, trascinati, con il piede impigliato nella staffa, trascinati sul percorso della buca 9 del campo di golf del Sani Pass Holiday Resort, all’età di dieci anni.
In qualche silenzioso, invisibile vestibolo del cervello, le immagini sono accolte, prese in custodia, interrogate e inviate – rinfrescate -  al luogo di destinazione, in forma di cavallo. Il foglio di carta è semplicemente un’estensione visibile della retina, una dimostrazione emblematica di ciò che non possiamo fare a meno di vedere. Le nostre proiezioni, il nostro muoverci verso l’immagine è una parte essenziale di ciò che è visibile, dell’essere nel mondo con gli occhi aperti. [pp. 16-18]



Questa idea del foglio come membrana tra noi e il mondo è stato probabilmente mutuato da una pratica divinatoria africana nella quale un lenzuolo bianco viene steso in una stanza scarsamente illuminata e,  con l’aiuto del divinatore, il soggetto guarda il lenzuolo e vede immagini del futuro, degli amici, dei nemici: tutte proiezioni del suo occhio verso l’esterno.

Un momento della prima lezione.
Ma se è apparentemente semplice, con l’aiuto del divinatore, proiettare le immagini da noi al mondo su un lenzuolo bianco, ben più difficile pare sia risolvere l’urgenza del fare, il concentrarsi dell’energia intorno al foglio bianco, al foglio vuoto.
Un’energia concentrata, ma che non sa cosa debba fare; l’impulso a fare qualcosa – un disegno, una pittura – in attesa di istruzioni chiare. Che cosa bisogna fare? Quali sono le immagini che devono essere create? Come se queste istruzioni mi potessero dire: stiamo aspettando di fare la rivoluzione proletaria; stiamo aspettando di uscire dalla caverna e vedere il sole [qui il riferimento è alla caverna platonica, che è stata elemento portante della prima lezione]. Invece, la sola cosa in cui ho fiducia è il procedere in cerchio, l’indovinello che non ha una chiara risposta.


Un momento della prima lezione
Nello studio, questo si manifesta nella distanza fra l’energia del muscolo che si tende e la spossatezza, l’incapacità, che a volte mi prende, di stare sveglio. È un sonno difensivo: l’incapacità di sapere che cosa debba essere fatto, come farlo e perché debba essere fatto che si maschera da stanchezza. Una vera stanchezza che si maschera da finta stanchezza. Il bisogno e il non-bisogno di fare qualcosa. Questa non è un’immagine che arda dal desiderio di mostrare, o raccontare se è una storia o un’esperienza: questo è non-bisogno. Ma la pressione di qualcosa che c’è è bisogno.



Rilke ha scritto la poesia La pantera quando era segretario dello scultore Auguste Rodin. Era bloccato dal CHE COSA scrivere, dal sapere di essere poeta e non sapere che cosa le parole avrebbero dovuto descrivere. Rodin lo spedì allo zoo con l’ordine di non tornare finché non avesse scritto qualcosa su quel che aveva visto: una delle grandi poesie del Novecento è nata come compito, come esercizio. […] A volte guardo ciò che ho speso una mattina a disegnare, mi siedo su una sedia nel retro dello studio per avere una visione più ampia; poi chiudo un occhio e lo riguardo, poi l’altro occhio, cercando con un atto volitivo di migliorare quel che vedo. Poi chiudo gli occhi e mi abbandono al mantra «Lascia che questo tempo passi. Lascia che questo tempo passi.» […] La pantera di Parigi, lo studio di Johannesburg si incontrano sulla pagina. La pantera, mutata in parole, raggiunge la proiezione del mondo esterno che la aspetta. Che aspetta la sua particolare miscela di energia, la certezza del suo desiderio e il vuoto radicale nel suo centro. [pp. 154-156]


Le cose che vorrei aggiungere sono abbastanza imprecise. Ma preciso è il desiderio che qualcuno (magari gli amici di Quodlibet?) legga questo post e si faccia venire in mente di pubblicare questo libro in Italia. Lo meriterebbe. Sarei disposto anche a tradurlo.

Il libro è disponibile anche in formato eBook, qui. Ma suggerisco di non perdersi il piacere di un manufatto impeccabile sotto ogni aspetto e acquistare l'edizione cartacea.
In rete si trovano i filmati delle Norton Lectures di William Kentridge in questo sito. Abbiate pazienza e scorrete fino in fondo la pagina: Kentridge è l'ultimo della fila. È un po' farraginoso accedervi e scaricare, ma penso ne valga davvero la pena.

Di William Kentridge avevamo già parlato qui.

[Le traduzioni sono mie e me ne assumo la responsabilità. Le enfasi nel testo sono dell'autore.]

lunedì 12 gennaio 2015

Guardare non basta

«e postasi una mano sulla fronte
così… 
s'è messo a scrutarmi la faccia 
come uno che volesse disegnarla.»
Ofelia, in Amleto, atto 2, scena 1

La mia passione per Alberto Giacometti è nota. È una di quelle passioni così travolgenti che mi impedisce anche solo di pensare di scriverne. Giacometti deve diventare un pretesto [pre-testo] per far sì che ne scriva.


Alla fine di gennaio dell'anno scorso, quindi ormai un anno fa, avevo organizzato con alcuni amici romani una visita alla mostra delle sculture di Giacometti presso la Galleria Borghese (che ho, invece, visitato, in assenza di Giacometti, la sera di San Silvestro). Non ho potuto, per ragioni che non è il caso spiegare, partecipare a quella visita e ne ho avuto resoconti contraddittori.


Sono passati mesi e, per il mio compleanno, una persona che aveva partecipato alla visita mi ha fatto un regalo straordinario: un quadernino realizzato a mano che contiene i disegni a matita di molte delle sculture esposte, e un acquerello di un busto di Annette al centro. Un regalo che mi commuove, segno di un affetto profondissimo. E che mi è ancor più caro per circostanze che, ancora una volta, non è il caso spiegare qui.



Ma questo quadernino è un regalo prezioso anche in molti altri sensi. Per esempio, per le riflessioni e le letture che ha stimolato sul disegnare. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore, del quale abbiamo già parlato qui nel nostro blog e che contiamo di sviluppare ulteriormente.




Quando guardo le sculture o i disegni di Giacometti, spesso mi pongo questa domanda: «Come ha fatto a vedere le cose in questo modo?» Sono certo che questa stessa domanda se la sia posta l'amica disegnatrice giacomettiana. Nella visione dell'artista (in genere, non solo di Giacometti) c'è sempre qualcosa di sorprendente. E Giacometti in particolare sembra essere sempre in un luogo diverso da quello abitato dalla nostra idea della figura umana. Eppure, nella sua opera, riusciamo a percepirla, la figura umana, esattamente per quello che è.



La mia amica si è presa la cura di guardare, per me assente, le sculture di Giacometti. Ma consapevole del fatto che guardarle non basta, ha usato l'atto del disegnare per rallentare ed espandere, amplificare l'atto del guardare. Nel farlo, ha illuminato se stessa e, per conseguenza del suo dono, me.


Guardando questi disegni, queste che, accademicamente, si chiamano "copie dal vero", mi è sembrato di capire che la tecnica dell'arte consiste nel rendere le forme insolite, difficili; nell'aumentare la difficoltà della percezione e, quindi, il tempo della percezione. I critici formalisti sovietici affermavano che è arte ciò che rende il percepire un fine estetico in sé.



Il disegno, inteso qui come copia dal vero, costringendo l'occhio alla velocità assai più lenta della mano, prolunga e affina il processo di percezione e rivela i modi della visione dell'artista. Una visione che non è mai semplicemente ottica, ma olistica: il disegno diventa mediatore fra occhio e mano, ma anche fra sé e il mondo.



Un'altra amica, qualche tempo fa, mi ha detto: «Quando disegno, io non voglio essere io.» Un'affermazione che avevo stentato a capire. Adesso, grazie a questo quadernino, il senso della frase mi è più chiaro.



Queste riflessioni consolidano, se possibile, la convinzione con la quale abbiamo affrontato la didattica dell'arte nella nostra collana PiPPo - Piccola Pinacoteca portatile: la necessità di creare uno strumento  attraverso il quale i bambini (ma, perché no, anche gli adulti) si potessero accostare all'arte appropriandosene, facendola propria, accedendovi grazie all'osservare e al fare. Uno strumento grazie al quale insegnanti, genitori e adulti in genere potessero avviare figli, allievi, bambini in genere a a quella concentrata attenzione che sola permettere di conoscere quel che percepiamo e non quel che è già conosciuto.

Come diceva Munari, da cosa nasce cosa. E forse proprio per  da questo quadernino potrebbe nascerne uno più grande e pubblico. Ma di questo parleremo più avanti.

Intanto vi segnaliamo che il 31 gennaio, al Mart di Rovereto, in occasione di un corso di formazione sulla didattica dell'arte intitolato "Pinacoteche portatili. Libri con le figure, opere d'arte e una collana di nome PiPPo" presenteremo il nuovo volume della collana: Fortunato Depero e la casa del mago, di Marta Sironi e Lucia Pescador, realizzato in collaborazione con Mart e Casa d'arte futurista Depero.