mercoledì 16 aprile 2014

I regni dell'immagine/11. Vivian Maier

Alla fine del film Alla ricerca di Vivian Maier in sala, due sere fa, c'è stato un applauso. Non è cosa frequente che si applauda al termine di una normale proiezione cinematografica. Però può capitare. È un applauso senza destinatari, perché nessuno degli autori e dei protagonisti è li per raccoglierlo, se non il pubblico stesso. Insomma è un applauso strano, impellente, ma pieno di assenze. Così gratuito che suona un po' surreale.
Nel caso di questo film, una conseguenza adeguata alla storia raccontata: una vicenda pazzesca, al limite della credibilità, improbabile, eppure vera e per questo entusiasmante, spiazzante, struggente, inquietante, fiabesca, miracolosa. La storia della donna più riservata del mondo e del ragazzo più curioso del mondo, riuniti dal destino, per un caso, a un'asta di vecchie fotografie. La storia parte da qui: in quella scatola ci sono negativi di meravigliose fotografie in bianco e nero di un fotografo senza nome.



Il ragazzo che ne entra in possesso, John Maloof, che poi è anche l'autore e il regista del film (insieme a Charlie Siskel), spiega di avere acquisito a colpo d'occhio la capacità di vedere da lontano il valore di una cosa grazie a una lunga frequentazione dei mercatini delle pulci. Che quei negativi valgano, perciò, lo capisce subito e li compra in blocco. Qualche tempo dopo, si mette a indagare e scopre che appartengono a una donna, Vivian Maier.


Charlie Siskel
Charlie Siskel
e Charlie Siskel,, spiega di avere acquisito a colpo d'occhio la capacità di vedere da lontano il valore di una cosa grazie alla sua lunga frequentazione dei mercatini delle pulci. Che quei negativi valgano, perciò, lo capisce subito e li compra in blocco. Qualche tempo dopo, si mette a indagare e scopre che appartengono a una donna, Vivian Maier
Chi è Vivian? La prima traccia di lei trovata da John è un necrologio uscito su un giornale qualche giorno prima. Ed è significativo che la scoperta di questo essere enigmatico avvenga, in modo romanzesco, nel momento della sua scomparsa al mondo. Continuando le sue ricerche, sempre più coinvolto dalla personalità che lasciano intravedere le migliaia di immagini scattate (alla fine risultano essere 150 mila), John scopre, stupefatto, che Vivian non ha svolto la professione di street photographer, come le sue immagini perfette farebbero pensare. Per tutta la vita è stata una bambinaia, prima a New York e poi a Chicago. E questo è solo il primo dei tanti, continui misteri di un'esistenza trascorsa in mezzo agli altri nel segno del nascondimento, della dissimulazione, del silenzio e della solitudine.


Mentre John ricostruisce la vita di Vivian, a cui finisce per consacrare la propria, saltano fuori oltre che scatoloni su scatoloni di negativi, scatole su scatole piene delle cose più varie: biglietti di autobus, ricevute, comunicazioni dell'erario, lettere, bigiotterie, vestiti, camicie, giornali... Perché Vivian Maier, che di sé, delle proprie origini e della propria storia riuscì sempre a non far trapelare nulla, oltre che fotografa in incognito (lei si definì una sorta di spia), fu, secondo le parole di Maloof, una 'collezionista di cose inutili'.


Perché Vivian, che proteggeva se stessa dietro una reticenza maniacale (anche con le poche persone che le furono amiche, nonostante le stranezze, il carattere spigoloso, a tratti minaccioso), ebbe una vocazione, un genio assoluto per il ruolo che si era scelta e che perseguì con fedeltà: quello di testimone. Testimone di cose, persone, istanti, stati d'animo, caratteri, drammi, occasioni, conflitti; in una parola, testimone di tutto quello che incrociava il suo sguardo vorace. Una capacità di visione e di attenzione penetrante, infallibile, la sua, alla quale, osservando le sue foto si direbbe non sfuggisse alcuna angolatura di quel che osservava.


“Aveva una comprensione esatta della natura umana, della fotografia e della strada” osserva uno dei fotografi intervistati sulla sua opera che, a pochi anni dalla scoperta, è entrata fra le più importanti della storia della fotografia (nonostante le istituzioni ufficiali tuttora fatichino a riconoscerne il genio).
Questa persona così schiva e difficile era capace di avvicinarsi agli altri e grazie alla Rolleiflex che non abbandonava mai (e in compagnia della quale si avventurava ovunque senza timore), di entrare in contatto con quel che erano, creando un spazio e un tempo in cui potevano essere a loro agio con se stessi, meglio in cui potevano essere se stessi.


Fra le molte persone intervistate che ebbero la ventura di conoscere e frequentare Vivian Maier, numerosi furono i bambini, oggi adulti, di cui lei si occupò, e molti i loro genitori o parenti. Anche in questo caso, i pareri su di lei appaiono singolarmente discordanti: per alcuni, i bambini furono la grande passione di Vivian (ne fotografò a migliaia, restituendo una visione dell'infanzia forte e profonda). Con lei, osserva la madre di uno di loro, la vita era sempre avventurosa, imprevedibile. Ma questa donna sapeva anche essere terribile, aveva ossessioni, durezze, tratti di vera e propria crudeltà, un lato oscuro percepito da tutti coloro che la conobbero e la amarono.
Alcune di queste persone si chiedono, nel corso del film, come facesse una persona così creativa, dotata di  intelligenza e capacità superiori a quelle di coloro per cui lavorava, a non sentirsi frustrata, facendo una vita da bambinaia.


Una giovane donna, una delle ultime bambine accudite dalla Maier, riflette invece che quella vita Vivian l'aveva scelta e organizzata accuratamente: era il modo in cui voleva vivere, quello che le permetteva di non scendere a compromessi. Ciò che le consentiva di proteggere se stessa dietro un anonimato che era la condizione prima della sua missione di testimone, prima ancora che di fotografa. Facendo la bambinaia, come spiega Maloof, poteva disporre di tempo e della possibilità di “stare fuori”. Di attraversare il quotidiano senza distrazioni, come una persona qualunque, che era la condizione imprescindibile per la sua creatività, l'unica cosa, cioè, che, probabilmente, la interessava.


Vivian Maier era assolutamente consapevole del valore del proprio lavoro, non era ingenua o naif: sapeva di essere molto più che brava. In una lettera definisce le sue foto, senza falsa modestia, 'capolavori'. E quanto fosse profondo, acuto, il suo sguardo lo si capisce dagli autoritratti, bellissimi, che si fece, a centinaia. Così toccanti nella loro onestà e verità, da lasciare senza parole.
Insomma, se ci riuscite, non perdete questo film. Oltre che raccontare, benissimo, una storia di rara bellezza, ha il merito di mettere le immagini all'altezza che dovrebbero sempre avere e che dovrebbe essere sempre ben chiara, nella testa di chi, qualunque tecnica abbia scelto, ne sia artefice.

4 commenti:

Bruna Gherner ha detto...

Fantastico articolo, grazie. Andrò subito a vedere questo film.

Shaula ha detto...

quella di Vivian Maier è una delle storie più affascinanti che mi siano mai capitate sotto agli occhi.
io credo che il suo essere bambinaia sia un po' anche il filtro con cui ha fotografato il mondo: come se passeggiare per strada con i bambini le permettesse di guardarsi attorno da un po' più giù, da un punto di vista piccolo, decentrato, che fa apparire tutto grande, imperdibile, quotidiano eppure unico ed irripetibile. come se vedesse ogni sguardo, volto, angolo incrociato per la strada per la prima volta.

non sapevo invece che fosse uscito questo film, grazie per la segnalazione.

Ila ha detto...

Grazie. Splendido.

Topipittori ha detto...

Grazie Bruna, Shaula e Ila.
Il punto di vista dal basso verso l'alto deriva anche dalla posizione a cui costringevano le vecchie Rolleiflex: nel film a un certo punto si parla di questo tipo di inquadratura. E comunque sì, Shaula, hai proprio ragione: l'impressione è quella di vedere le cose per la prima volta, perciò probabilmente la Maier vedeva in questo modo.