venerdì 27 maggio 2011

Strane madrine

[di Massimo Scotti]

Tempo di Prime Comunioni. Per i bambini allevati nella tradizione cattolica, questo è il primo rito da veri protagonisti, dato che il battesimo lo ricordano in pochi. Non deve apparire blasfemo se si parla qui di un sacramento così importante per la Chiesa citando una novella, famosa e meravigliosa, La Maison Tellier di Maupassant, che è dedicata proprio alla Prima Comunione. Avremmo potuto fare di peggio. Per esempio parlare di una poesia di Rimbaud, Les Premières Communions, quella sì veramente terribile. Il racconto di Maupassant non vuole esibire la splendida ferocia satirica di Rimbaud, anche se si tiene sempre su un pericolosissimo crinale fra la sensualità e il misticismo; ma lo salva da ogni accusa (almeno nei nostri tempi) il suo equilibrio magico, che evita sia la deriva boccaccesca, sia la retorica spiritualistica. Perché il racconto inizia con la chiusura – non annunciata – di un bordello, e culmina nella partecipazione di un drappello di signorine allegre alla cerimonia dell’Eucaristia. E possiede una grazia assoluta.
Il bel sabato sera di maggio, in una tranquilla cittadina della Normandia ottocentesca, è turbato da un fatto imprevisto. La casa di Madame Tellier è sbarrata. I gentiluomini del posto vi arrivano, uno per uno, e rimangono smarriti. Perché “ci andavano ogni sera, verso le undici, come si va al caffè, né più né meno”. Così dice Guy de Maupassant, senza specificare niente di quel che è evidente, perché lui, come Edward Lewis, il protagonista di Pretty Woman, è uno che detesta sottolineare l’ovvio. Prossimi alla disperazione, i distinti signori fanno giri concentrici intorno alla casa, stando molto attenti a evitare gruppi di marinai ubriachi che vanno nello stesso posto, lo trovano chiuso e si infuriano. Solo dopo un’attenta perlustrazione scopriranno un piccolo cartello discreto che spiega il mistero. Madame Tellier e le sue ragazze si sono prese una vacanza, per partecipare a una Prima Comunione.



Eccole dunque, ridenti e agghindate, sul trenino che le porta a ottanta chilometri di distanza, a casa del fratello di Madame, dove lei deve fare da madrina alla nipote. Seria e accorta com’è, ha capito che non può lasciare la sua casa con le ragazze sole, in preda a una clientela che non è interamente fatta dai notabili del luogo. Così, d’accordo con il fratello, le ha portate con sé, tutte quante: Fernande, la bella biondona, Rose La Cavalla, Raphaële la tenebrosa, Louise La Cocotte, e Flora, detta Altalena. Sul convoglio, scandalizzano due vecchi provinciali che sembrano galline trascinate fuori dal pollaio e deliziano un commesso viaggiatore che offre in dono giarrettiere alle audaci che mostrano le gambe in pubblico, mancando lì per lì un camerino di prova.

Quando il signor Rivet, onesto falegname, fratello di Madame, va a prenderle alla stazione con un capiente calesse, le ragazze e la loro padrona sfrecciano sotto il sole della campagna, in cui ormai è quasi estate, come un variopinto mazzo di fiori lanciato attraverso la polvere della strada, suscitando l’ammirazione di tutto il villaggio. Perché questo è un racconto fatto di colori e di luci, in cui si festeggia molto e le contraddizioni più stridenti del mondo non sono per niente sfumate, ma anzi appaiono in tutte le loro tinte più sgargianti. Intorno agli adulti che preparano i festeggiamenti, sempre lontani e separati dai grandi, i ragazzi si preparano alla loro iniziazione religiosa, provando i cantici nell’oratorio. La nipote di Madame viene sommersa di baci, dall’inizio alla fine del racconto, perché le ragazze di casa Tellier sono delle gran sentimentali, e sotto i busti e gli scolli che mettono in mostra forme generose, nascondono cuori trepidanti, da bambine.



Una di loro, Rose La Cavalla, costretta a dormir sola, per una volta, e in una stanza che non è la sua, rimane insonne. Si accorge così che anche la nipotina di Madame, per la tensione e per aver cambiato letto (tutte le signorine sono state accolte nella dimora di Rivet, creando un certo trambusto) non riesce proprio ad addormentarsi; in un impeto di tenerezza la porta nel suo letto e la accoglie fra le sue braccia, che forse avrebbero desiderato essere materne: “E fino al mattino la comunicanda poggiò la fronte sul seno nudo della prostituta”, commenta Maupassant.

Il giorno dopo, in chiesa, tutto il villaggio assiste a una specie di miracolo. E sempre lei, Rose La Cavalla, ne è protagonista: sopraffatta dai ricordi infantili, di una casa lontana, di una lontana Prima Comunione, rompe in singhiozzi, imitata dall’intera guarnigione Tellier e da tutta la cittadinanza. La chiesetta di campagna è invasa da una sorta di commozione estatica, che il vecchio parroco rileva con entusiasmo, alla fine della funzione: “Grazie soprattutto a voi, mie care sorelle, venute da tanto lontano. La vostra presenza fra noi, la vostra fede così evidente, la vostra pietà così viva sono state per tutti noi un esempio salutare. Voi siete il modello della mia parrocchia. Senza di voi, forse, questo grande giorno non avrebbe avuto un carattere veramente divino”. E giù, di nuovo, lacrime. Le Bocche di Rosa trasformate in mistiche Maddalene non potevano sperare in un’accoglienza migliore, e certo non avrebbero immaginato di farsi portatrici della Luce celeste.



Ci si aspetterebbe a questo punto una conversione collettiva, con le ragazze redente che magari prendono anche i voti: ma no, Maupassant è un magistrale conoscitore della vita, e sa che le signorine di Madame Tellier torneranno a casa, la sera, dopo una giornata non solo distensiva, ma anche edificante, pronte a riprendere la loro occupazione abituale. E lei, la tenutaria della Maison, concederà perfino quattro franchi di sconto sulle bottiglie di champagne, perché “via, non tutti giorni è festa”.

La squisita innocenza di questo racconto è testimoniata da un piccolo aneddoto autobiografico, che vi devo proprio raccontare; a casa nostra non giravano molti libri, io ne ero sempre affamato, e in occasione della Festa del Papà, la Vecchia Romagna pensò bene di ideare confezioni regalo che contenevano il prezioso brandy, e un libro. Ne approfittai subito per fare il dovuto regalo a mio padre, e tenni per me il libro, intitolato appunto La casa di Madame Tellier. Lessi con gusto quello e tutti gli altri racconti del volume, sempre di Maupassant. All’esame di terza media, l’insegnante di francese, che ricordo con affetto, Sandra Buzolich, disse che potevamo fare una Ricerca o portare una Lettura, naturalmente di autore francese.

Avreste dovuto vedere la faccia della professoressa quando, il giorno dell’esame, mi presentai con La Maison Tellier sotto il braccio.
Strabuzzò gli occhi, divenne paonazza, e mi ricordò un poco i due provinciali del racconto; ma per fortuna il professore di italiano, Feliciantonio Del Vecchio, era un fantastico gaudente e fu lietissimo di ascoltare, per filo e per segno, il mio riassunto di Maupassant. Dove stava l’equivoco? Io non avevo idea di cosa fosse una “casa di tolleranza”, e tanto meno una “prostituta”. Se qualcuno mi avesse parlato di “puttane” e “casini”, la faccenda sarebbe stata chiarissima anche a me, che invece, grazie a una traduzione reticente e forbita, avevo potuto apprezzare a modo mio lo stile di un incantevole racconto, senza magari capirne il senso fino in fondo, ma dando, inconsapevolmente, il mio minimo contributo alla grande rivoluzione dei costumi che era ormai in atto: sarà stato, infatti, il 1974, o il ’75. Ispirato a La maison tellier (oltre che ai due racconti di Maupassant, La Modèle e La Masque),  è il film di Max Ophuls del 1951 Le plaisir, da cui sono tratti gli spezzoni qui presentati e a cui si riferiscono i due manifesti.

2 commenti:

isabellalabate ha detto...

Grazie, quanti ricordi hai scatenato con questo delizioso racconto... io al contrario avevo moltissimi libri in casa, e molti erano proibiti, mio papà li teneva sugli ultimi scaffali in alto della libreria. Anche solo per guardare i titoli avrei dovuto usare la scala con le ruote, e anche quella era proibita. Quando avevo 13 anni chiudevano un occhio se curiosavo nello scaffale in alto e uno dei primi libri che lessi fu Nanà, di Zola. Anche mio padre strabuzzò gli occhi quando vide cosa leggevo, e mi disse che se c'era qualcosa che non capivo, avrei dovuto chiedere a lui. Naturalmente, per pudore, non chiesi nulla...

isabel archer ha detto...

perchè questa recensione mi è sembrata terribilmente finta? possibile che sia sempre necessario raccontare un aneddoto di vita vissuta? o inventata... non so...io l'ho trovata very banale...sorry!