martedì 29 novembre 2011

I regni dell'immagine/5. Indizi di umanità

Vi ricordate? Nello scorso post su Alan Bennett avevamo terminato con due parole: confidenza e occhi. La confidenza, la familiarità con cui si può praticare l'arte. Gli occhi che, dotati di provvidenziale coda, consentono alla mente di essere toccata dalla pittura e dalle visioni che apre. Da qui riprendiamo per parlare di Una visita guidata, iter attraverso le sale della National Gallery in compagnia del più brillante scrittore inglese contemporaneo. Uno che, quando lo leggi, sembra di averlo al fianco a infilare osservazioni intelligenti e che, in più, spesso ti fanno piangere dal ridere. Un'occasione non da poco. Ci sarebbe un milione di cose da dire, su questo libro. Diremo il minimo indispensabile, lasciando campo libero alle parole di Bennett stesso, che meglio di altre spiegano che saper guardare è un'arte che si apprende con disincanto (sì, disincanto, parrà strano, ma è questo il termine giusto: prima di leggere Bennett non sapevo quanto potesse essere proficuo non abbandonarsi all'estasi di prammatica davanti ai capolavori), attenzione e senso dell'umorismo. Le tre cose non vanno disgiunte, a mio avviso. In Lettere ad Aldo Buzzi. 1945-1999, Saul Steinberg scrive:

Io ammiro sempre di più le qualità letterarie della gente, cioè la possibilità di raccontare un fatto o fare un'osservazione giusta e vera. La maggior parte della gente trasforma cose successe a loro in cose lette sul giornale. Chi non sa raccontare fa paura. 

Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini. National Gallery.
Alan Bennett è un narratore sopraffino capace di percorrere le sale di uno dei musei più importanti al mondo con onesta ammirazione e spavalda curiosità, facendo di ogni cosa – custodi, visitatori, pensieri, quadri, ricordi – racconto. Difficilmente si possono leggere scritti più piacevoli sull'arte. E non fate l'errore di prendere sottogamba questa piacevolezza, che rivela un autore gentile, direi quasi caritatevole, verso i suoi lettori (ho in mente certi tromboni da far tremare i polsi), ma che solo apparentemente è semplice. Il primo passo che riporto tratta di iconografia e del perché questa disciplina può essere di grande utilità nell'approccio all'arte anche per i non addetti ai lavori, e a mio avviso molto anche nella didattica dell'arte. 

Per lo sviluppo della storia dell'arte, in questo paese, fu cruciale, negli anni Trenta, l'arrivo di molti storici dell'arte in fuga dalla Germania nazista. Molti di loro erano anche esperti iconografi. Berenson invece aveva poco tempo per l'iconografia, essendo molto più interessato all'estetica di un quadro che non al suo significato. Può sembrare un atteggiamento incredibilmente miope, dato che uno dei pregi dell'iconografia – che consiste nel dischiudere i significati di un'immagine – è che ci trattiene più a lungo davanti a un dipinto. Come i dossi di rallentamento sulla strada, l'iconografia ci costringe a frenare e quindi a rimanere sul dipinto con una certa attenzione, e allora, come effetto collaterale (e si tratta di un effetto collaterale in senso stretto perché è qualcosa che avviene a lato e si vede con la coda dell'occhio), la bellezza del quadro, difficile da affrontare direttamente, comincia a farsi strada in noi. Come dice E. M. Forster: «Solo quello che vedi con la coda dell'occhio ti tocca nel profondo.» Scoprire, insomma, che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell'iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo.

Quentin Massys, Vecchia grottesca. National Gallery
Il secondo brano riprende il tema della confidenza. In questo passo mi ha colpito un'espressione usata da Bennett, quella di indizi di umanità, che mi è parsa illuminante. A proposito di questo tema, ricordo un noto letterato italiano che tuonava indignato contro il fatto che i ragazzi di oggi (di oggi?) leggessero i romanzi identificandosi con i personaggi, approccio da lui considerato primitivo e superficiale. Intimidita quanto infastidita, mi chiesi in che altro modo un ragazzo, ma anche un adulto, potesse avvicinare un'opera letteraria, e più in generale d'arte.

Oggi per molti ragazzi capire i quadri della National Gallery dev'essere più difficile di trent'anni fa: la conoscenza del cristianesimo è molto più lacunosa di allora, per non parlare dei miti classici. Eppure, anche essere informati ha i suoi svantaggi, perché moltiplica le occasioni di errore. Verso la fine dell'Ottocento, il romanziere Samuel Butler descrisse sul suo taccuino una visita alla National Gallery con sua zia Worsley:
 

Leonardo da Vinci, Caricatura
 «Ci trovammo davanti al dipinto di van Eyck che rappresenta Giovanni Arnolfini con la moglie. Mia zia scambiò il quadro per un'Annunciazione ed esclamò: “Ma che idea bizzarra... mettere il cappello allo Spirito Santo!”»
In realtà  qualsiasi reazione davanti a un quadro è meglio che niente. Di fronte alla
Vecchia grottesca attribuita a Quintin Massys, una signora che dica: «Hmm... sembra una po' la nostra vicina» potrà sembrare che non abbia capito nulla, ignora che nel passato del dipinto c'è un disegno di Leonardo, e nel suo futuro la duchessa brutta di Alice nel paese delle meraviglie illustrata da Tenniel. Ma se è la vicina a mantener vivo il ricordo del quadro, va benissimo lo stesso.

Duchessa brutta, John Tenniel
Il ritratto di Alexander Mornauer è arrivato nella collezione solo nel 1991, ma vent'anni prima un ragazzino avrebbe potuto stupirsi della sua somiglianza con Raymond Burr – il Perry Mason della serie TV. Ovviamente questo non è il tipo di osservazione che si sarebbe potuta fare ai Tatti o, immagino, in presenza di sir John Pope-Hennessy, ma non importa. Bisogna pur cominciare da qualche parte, e qualsiasi cosa ti attiri in un quadro è meglio di niente. Ed è certamente più utile che sentirsi dire: «Guarda. È un capolavoro».
Alexander Mornauer, Portrait, National Gallery.

A volte, leggendo un libro – un romanzo, ad esempio –, ci imbattiamo in un pensiero o in un sentimento che abbiamo provato anche noi: però non ne avevamo mai parlato con nessuno, credendo che si trattasse di un fatto del tutto personale. Poi lo ritroviamo lì, nero su bianco, ed è come se l'autore ci avesse teso la mano.
Ho messo una riflessione simile in bocca a Hector, il preside eccentrico di
The History Boys; ma cose del genere, che potremmo chiamare indizi di umanità, si trovano anche nei quadri. L'esempio più notevole è in una delle opere più celebri della National Gallery, ovvero Il battesimo di Cristo di Piero della Francesca – ed è l'uomo che si toglie la camicia. 





Raymond Burr
C'è qualcosa di misteriosamente rasserenante nel fatto che cinquecento anni fa ci si togliesse la camicia proprio come facciamo noi oggi, e questo elemento di naturalismo è ancora più vivido per il contrasto con le figure ieratiche del Cristo e del Battista in primo piano, che sono, come tutte le figure di Piero della Francesca, austere e per niente sorridenti, pochissimo adatte alla pubblicità di un dentifricio.

Piero della Francesca, Il battesimo di Cristo. National Gallery, London.

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