[di Angela Nanetti]
L’infanzia per me, prima ancora di un’età, è un modo di relazionarsi col mondo; e dunque un linguaggio.
E se la lingua è il ponte del sé con gli altri e con l’altrove, ponte di interconnessioni mobili in continuo divenire, il linguaggio infantile lo è in modo del tutto particolare e specifico, così come particolare e specifica è questa prima tappa della vicenda umana. Unica, preziosa, irripetibile.
Dunque il linguaggio, che sappia veicolare il pensiero infantile, l’immaginario infantile, lo sguardo infantile sul mondo. Che non sono “diminuiti” e “diminutivi”, ma sono “altri” rispetto a quelli degli adulti.
Federica Iacobelli nel suo La città è una nave riesce meravigliosamente in questa impresa difficile, raccontando insieme l’infanzia e la sua infanzia, dai cinque ai dieci anni. In dieci tappe che sono dieci narrazioni, per le quali utilizza, mescolandoli, la terza persona e il parlato interiore. Con queste tecniche, usate sapientemente, racconta un vissuto infantile con i suoi amori e gelosie, le paure e gli incanti, le domande e le delusioni, rendendolo al lettore autentico e palpitante. E intorno a esso una città di acqua e di terra che trema, di vicoli che scendono al mare, di ville alte e basse, di mare sbirciato da uno scampolo di terrazzo e di palazzi che sul mare stanno a galla, ma rischiano sempre di affondare. Una città instabile nella sua mutevolezza come il bradisismo che la tormenta, come la vita che scorre. Ed ecco un esempio:
La bambina corse alla finestra. Ci arrivava appena con la testa, ma se poi saliva sulle punte vedeva un muro fatto con le rocce e oltre quel muro solo onde, tante onde... La bambina si voltò solo un momento. Lachis stava disegnando con lo zio, mentre il papà stava telefonando. Era difficile, il lavoro di architetti, è più difficile in un posto come questo. In un posto come questo bisognava stare attenti, perché il palazzo doveva stare a galla. Partire no, non era mai riuscito a farlo, perché era troppo grosso e troppo vecchio; ma se affondava con lo studio e coi disegni? Se si bagnava? Se sparivano i progetti?...
Un palazzo come una nave, che può salpare o affondare, paura e desiderio nel contempo. Ecco l’infanzia.
Al termine della lettura mi sono sentita dentro sospesa, come se avessi l’anima sulla punta delle dita.
L’infanzia per me, prima ancora di un’età, è un modo di relazionarsi col mondo; e dunque un linguaggio.
E se la lingua è il ponte del sé con gli altri e con l’altrove, ponte di interconnessioni mobili in continuo divenire, il linguaggio infantile lo è in modo del tutto particolare e specifico, così come particolare e specifica è questa prima tappa della vicenda umana. Unica, preziosa, irripetibile.
Dunque il linguaggio, che sappia veicolare il pensiero infantile, l’immaginario infantile, lo sguardo infantile sul mondo. Che non sono “diminuiti” e “diminutivi”, ma sono “altri” rispetto a quelli degli adulti.
Federica Iacobelli nel suo La città è una nave riesce meravigliosamente in questa impresa difficile, raccontando insieme l’infanzia e la sua infanzia, dai cinque ai dieci anni. In dieci tappe che sono dieci narrazioni, per le quali utilizza, mescolandoli, la terza persona e il parlato interiore. Con queste tecniche, usate sapientemente, racconta un vissuto infantile con i suoi amori e gelosie, le paure e gli incanti, le domande e le delusioni, rendendolo al lettore autentico e palpitante. E intorno a esso una città di acqua e di terra che trema, di vicoli che scendono al mare, di ville alte e basse, di mare sbirciato da uno scampolo di terrazzo e di palazzi che sul mare stanno a galla, ma rischiano sempre di affondare. Una città instabile nella sua mutevolezza come il bradisismo che la tormenta, come la vita che scorre. Ed ecco un esempio:
La bambina corse alla finestra. Ci arrivava appena con la testa, ma se poi saliva sulle punte vedeva un muro fatto con le rocce e oltre quel muro solo onde, tante onde... La bambina si voltò solo un momento. Lachis stava disegnando con lo zio, mentre il papà stava telefonando. Era difficile, il lavoro di architetti, è più difficile in un posto come questo. In un posto come questo bisognava stare attenti, perché il palazzo doveva stare a galla. Partire no, non era mai riuscito a farlo, perché era troppo grosso e troppo vecchio; ma se affondava con lo studio e coi disegni? Se si bagnava? Se sparivano i progetti?...
Un palazzo come una nave, che può salpare o affondare, paura e desiderio nel contempo. Ecco l’infanzia.
Al termine della lettura mi sono sentita dentro sospesa, come se avessi l’anima sulla punta delle dita.
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