lunedì 23 luglio 2012

Se non si gioca, che resta?

Dalla parte dei bambini. La scuola dall'obbligo all'oblio, è un libro agile, limpido, appassionante che tratta i temi dell'educazione, della crescita, della scuola e dell'insegnamento. E, soprattutto, di bambini. Nel clima attuale, pagine che suonano, addirittura, rivoluzionarie. Paradossale che l'autrice, Grazia Honegger Fresco, allieva di Maria Montessori (di cui ha scritto una bella biografia), pedagogista, studiosa, insegnante, fondatrice di riviste, formatrice, sia una signora di ottant'anni.
Riflettendo, tuttavia, sulla poca fortuna e lo scarso riconoscimento che in Italia ha ricevuto il pensiero di Maria Montessori, una delle figure più importanti della pedagogia del Novecento, non sorprende che concetti come autonomia, indipendenza e rispetto del bambino risultino, a tutti gli effetti, nuovi e dirompenti, in una nazione in cui la formazione del pensiero autonomo e critico rappresenta un obiettivo più che disatteso, decisamente inviso a tutti i livelli istituzionali e politici (bipartisan, verrebbe da dire). La forza di queste pagine sta nel porre a confronto quel che è – relazioni fra adulti e bambini spesso nel segno della confusione, del conflitto, della sciatteria, dell'ignoranza, della superficialità, dello smarrimento, dell'irresponsabilità -, con quello che in modo semplice e disponendo di forze limitate, ma di idee chiare e di solide e approfondite conoscenze ed esperienze, si potrebbe fare per bene educare i bambini, il che significa accompagnarli in un processo di crescita consapevole e condiviso, verso l'autonomia e la responsabilità.

Arthur Tress, Flying Dream, Queens, NY, 1971.
In 17 capitoli, più una preziosa appendice di consigli a genitori e insegnanti, una bibliografia di base, e due premesse (una, da incidere sulla pietra, di Piero Calamandrei sui moventi alla base dei tentativi di distruggere la scuola di stato; e una di Goffredo Fofi), Grazia Honegger Fresco affronta temi spinosi e spinosissimi, indicando con mirabile chiarezza soluzioni possibili, ricorrendo sempre a esempi concreti, negativi e positivi, di esperienze realizzate da educatori, fondamentali per la comprensione del lettore.

Foto di Julie Blackmon.
Dorothea Lange, The Arnold children, Michigan Hill,Washington, 1939.
In questo libro si parla di cose che oggi suonano quasi fantascientifiche, nel clima di disastro istituzionale che caratterizza la nostra scuola: per esempio, dell'importanza dell'ambiente fisico in cui i bambini crescono, e della cura che di esso ci si deve prendere, adulti e bambini insieme, ognuno secondo le proprie forze; della necessità dell'ordine e della bellezza nell'ambiente educativo; del controllo della voce e dei gesti da parte di chi cresce i bambini; della forza semplice e fondamentale dell'esempio da parte degli adulti per impartire insegnamenti e comportamenti corretti; della necessità di stimolare l'autonomia nel bambino affinché possa imparare con serenità e fiducia a far fronte ai propri bisogni e necessità: lavarsi, vestirsi, mangiare, esprimersi, socializzare, abilità alla base di qualsiasi apprendimento successivo; della necessità per il bambino del gioco libero e di un tempo gratuito, non finalizzati a risultati, non organizzati per ottenere performance; dei benefici educativi che si ottengono nel far interagire bambini di età diverse, non separati rigidamente in fasce di età; della fiducia nei bambini e nelle loro capacità come fattore imprescindibile di crescita in ogni contesto educativo, scuola e famiglia; dell'inutilità e degli effetti negativi dei voti e della competizione nel promuovere il processo di apprendimento; dell'errore come importante fattore di crescita personale, in grado di innescare un processo naturale di autocorrezione e quindi di autoformazione; della necessità di instaurare un clima in cui ai bambini sia estranea la paura di sbagliare; dell'importanza della collaborazione di tutti gli adulti nella gestione della scuola: insegnanti, bidelli, preside, genitori...

Börje Gallén, Children-playing in Stockholm, 1945.
E si potrebbe continuare, poiché questi sono solo alcuni degli argomenti trattati dall'autrice. Difficile scegliere un brano, in un saggio così ricco di pensiero, conoscenze, citazioni - bellissime quella di primo Levi: «La mano è un organo nobile, ma la scuola, tutta presa a occuparsi del cervello l'ha trascurata»; quella di Einstein: «Imparare è sperimentare. Ciò che resta è solo informazione», e quelle della Montessori: «Le mani sono l'organo dell'intelligenza», e la celeberrima (e inascoltatissima): «Ogni aiuto inutile è un arresto dello sviluppo». Tante sono le pagine che meriterebbero di essere citate, le riflessioni che varrebbe la pena di sottolineare, compresi alcuni brani riportati dalla studiosa su esperienze di colleghi educatori, che a volte mettono in luce situazioni talmente assurde da lasciare interdetti, come quella riportata da un pedagogista di Bologna che alla mensa di una scuola elementare si rese conto che i bambini, sette anni, non mangiavano la carne perché non c'era nessuno che gliela tagliasse: da soli non erano capaci.

Foto di Nikos Economopoulos.
Ho scelto di riportare parte del capitolo C'è gioco e gioco, che tratta temi molto importanti.

Da che mondo e mondo e presso ogni popolo, il gioco veramente libero è l'occupazione predominante dei primi anni di vita con una finalità precisa: quella del raggiungimento delle capacità adulte.
Questo gioco originario – potente istinto di crescita e di creatività che ogni bambino o bambina ha dentro di sé come dono fondamentale fin dalla nascita – si evolve, se non ci sono interferenze, in modo personalissimo. Perfino gli altri mammiferi giocano – basta osservare una cucciolata di gatti o di cani – e se non possono farlo, diventano adulti intrattabili, aggressivi. Lo stesso accade agli umani. Se non possono giocare in modo pienamente libero da piccoli, è assai probabile che diventino adulti irritabili incerti, mortificati.


Edwin Rosskam, Children playing ring around a rosie in one of the
better neighborhoods of the Black Belt
, Chicago, Illinois, 1941.
Una volta la parola “gioco” non aveva bisogno di aggettivi. Da tempo, invece, per definire il gioco spontaneo di un bambino, dobbiamo dire “gioco libero”. Questo significa – e non bisogna stancarsi di ripeterlo, perché persino di questo è stata privata l'infanzia – che il gioco oggi è diventato molte altre cose: gioco di competizione, sportivo, didattico, trasformato in memory, tombole e trucchi vari per mercificare il più sterile degli apprendimenti – domande e risposte in stile televisivo – e avvilire sempre di più quella specialissima e del tutto indipendente modalità infantile di piacere e di scoperta.
È diventato altro perfino il gioco del “Pareva che io ero...”, pedagogisti e psicologi se ne sono accaparrati restituendolo non ai bambini, ma a maestre e genitori come gioco simbolico, di
identificazione o dei travestimenti e, di conseguenza, codificato e organizzato a dovere. È un mezzo grazie al quale il piccolo cerca di capire il funzionamento del mondo, familiare e non. Tutti, più o meno, l'abbiamo fatto nell'infanzia: si cominciava così, poi diventava un “far finta” più elaborato, fino all'adolescenza quando, con un pizzico ulteriore di fantasia, creavamo privatissime epopee mentali che non avremmo mai osato confessare ad alcuno.

Russell Lee, The Whinery children playing, Pie Town, New Mexico, 1940
Oggi la fine del gioco spontaneo comincia molto presto, favorita anche dal fatto che non c'è asilo nido o scuola infantile che non abbia previsto “l'angolo del simbolico”, dove tutto è preordinato nei minimi dettagli con mobili finti che costano quanto quelli veri. Con essi i bambini sono in certo modo “obbligati” a giocare alla casa, a fingere di far cucina – tovaglietta tirolese e pentolini di plastica, magari color lilla – o di lavare con acqua inesistente. Siamo a I vestiti nuovi dell'imperatore, la favola di Andersen come prescrizione: si imita a gesti, lasciando fuori la vera immaginazione e senza mai poter sperimentare azioni analoghe in concreto. Già a due o tre anni possono compierle con grande piacere: lavare un piattino, una bambola; tagliare a fettine una banana, spalmare di marmellata una fettina di pane, sgusciare un uovo sodo o un baccello con fagioli o con piselli... questo non è un gioco, ma fare davvero – forse come mamma – che diventa scelta se gli strumenti del fare sono a disposizione. Però agli adulti dà fastidio, è sporchevole, bagna. Meglio il gioco con le cose finte dove tutto resta pulito e dunque: «Adesso, bambini, andate in casetta.»

Russell Lee, Children playing in front of saloon, Gemmel, Minnesota, 1937.
Perché non entrambe le esperienze, lasciando loro le invenzioni personali?
Il gioco libero, abbia o no a monte un vissuto concreto, non ha bisogno di un ambiente organizzato. I bambini sanno improvvisare molto bene con oggetti di casa e pezzi di costruzioni, con ghiande e sassolini trovati all'aperto, rivivendo qualcosa di significativo, cavalcando un sasso o strapazzando i pupazzi dopo il primo giorno di scuola. «Se non si gioca, che resta?» scriveva Tolstoj nei suoi ricordi di infanzia.
 
Tutto questo un tempo continuava, certo in modo più complessi, nei primi anni delle elementari, oggi invece scompare di colpo non appena se ne oltrepassa la soglia. «Ma che fai, giochi?»; «Non stare lì a giocare!» e «Non perdere tempo con i tuoi soliti giochini!». Il diritto al gioco indipendente è finito, malvisto come oziosa distrazione dai doveri dello studio: qualcosa di inutile se non di dannoso.

Robert Doisneau, Alsazia, 1945.
Nella società presente che traduce tutto in poeter d'acquisto, non è accettabile il gioco che non insegni e non produca qualcosa. Deve essere finalizzato a risultati misurabili, con relativa caccia agli errori, fino alle degenerazioni “tifose”. Può essere persino ozioso, non nel senso nobile dei filosofi classici, ma come fuga dalla responsabilità e del rischio (quanti adulti sono maestri in questo). Più che il piacere di giocare vale la competizione e a essa dai primi anni vengono ammaestrati figli e allievi, nipoti e bambini incontrati per caso, tutti trasformati anzitempo in piccoli adulti abili nel monetizzare precocemente ogni cosa, ottenere profitti, mercificare anche le relazioni più significative: l'anticamera del bullismo. L'elemento inquinante per eccellenza - il voto – fin dalle prime classi di primaria, coincide più o meno con la scomparsa del gioco libero nella seconda infanzia. 

1880 circa, Inghilterra, Bambini che giocano per strada.
Un grande educatore, il francese Arno Stern, da anni denuncia la fine precoce e sempre più accentuata dell'infanzia con l'annullamento di quel tempo gratuito in cui tutto si fa per il puro gusto di fare, per riconoscersi nel gioco di un altro o nella storia che si inventa giocando con poco, una vecchia scatola o un sacchetto pieno di ritagli colorati. Questo, sostiene Stern, vale anche per il gusto di tracciare liberamente segni senza che qualcuno cominci a domandare: «Che hai voluto fare?»; o anche: «Perché hai fatto il sole viola?» (Kandinskij non osava cavalli verdi?). Oppure: «Perché non hai fatto il prato sotto i piedi di questi due?» (e Chagall non faceva volare nel cielo dei suoi ricordi i personaggi?). Per troppi adulti un “bel” disegno è un disegno stereotipato e così un “bel” gioco. 

Henri Cartier-Bresson, The Berlin Wall, 1962.
Di fronte al mistero della mente infantile siamo subito pronti a indagare se quel rosso sbaffato di nero o quel comignolo storto siano sintomi utili a fini diagnostici oppure chiamiamo arte qualunque segno abbia fatto il bambino X per confrontarlo con quello del bambino Y. Anche il gioco splendido delle tracce di colore diventa compito e occasione di giudizio. 

W. Eugene Smith, The Walk to Paradise Garden, 1946.
Non li ascoltiamo e vogliamo addomesticarli a modo nostro, esplorando (inutilmente) i loro segreti più profondi: in realtà restiamo sempre e solo alla superficie, avendoli però offesi con le nostre intrusioni. […] Quanto agli oggetti – complici gli adulti che schivano ogni possibile conflitto – figli o allievi crescono nella fiera della inutilità e del possesso fine a se stesso, già orientati a sentirsi forti solo perché collezionano “roba”, merce. Intanto abbiamo messo radici a tutti i mali del mondo che si fondano appunto sul contrasto fra chi ha e chi non ha, sulla minore o maggiore sicurezza basata sul posesso, allenando fin dai primi anni alla competizione e alla paura di non farcela.

3 commenti:

Andrea Calisi ha detto...

molto interessante. comprerò questo libro. grazie per la segnalazione

illustrAutori ha detto...

fantastico, grazie mille

enricapilot ha detto...

Grazie per questo articolo. Grazie all'autrice per aver scritto il libro. Per me è uno stimolo ulteriore a riflettere sulla competizione e a rivalutare situazioni che ci paiono date "senza scelta", come il fare competitivo in ogni ambito del vivere, ma che possono invece essere occasioni di "scelta".