Trama: Germain (Fabrice Luchini), un maturo professore di letteratura di un prestigioso liceo francese, dall'emblematico nome “Gustave Flaubert”, ad apertura di anno scolastico si lamenta con la sua compagna, scicchissima e pasticciona gallerista d'arte contemporanea (Kristin Scott Thomas), della limitatezza dei componimenti dei propri studenti, che dovendo raccontare il proprio fine settimana, non sono in grado di produrre più di tre righe in croce a base di pizze, tv e cellulari. Finché dalla massa anonima e sgrammaticata dei fogli di protocollo, non fa capolino un imprevisto gioiello: l'avvincente e ben scritto tema del sedicenne Claude (Ernst Umhauer), che racconta una giornata trascorsa a casa di Rapha (Denis Ménochet), un compagno di classe, in ogni dettaglio e con risvolti sottilmente inquietanti, per l'acume e la verità delle osservazioni sia sui propri pensieri sia sui personaggi, gli ambienti e le situazioni descritti.
Se per questo maturo signore, infatti, la letteratura è cultura, bellezza, passione, civiltà, per Claude, esattamente come per Shahrazād, è la vita stessa. Di più: è riscatto, pura sopravvivenza: è la casa che la vita non gli ha concesso e di cui si vuole impadronire. Se il professore si limita a insegnarla, la letteratura, Claude si espone a viverla, ustionandosi, rischiandone le conseguenze in prima persona, assottigliando il confine fra finzione e realtà, fino a renderlo indistinguibile, a sé e agli altri.
E viene da chiedersi allora se, paradossalmente, non siano più adatti all'istituzione “Flaubert” ragazzi che non sanno raccontare che di cellulari, tv e pizze, ma tutto sommato discliplinati e ben disposti al ruolo di discenti, che adolescenti come Claude, la cui prerogativa fondamentale è quella di guardare tutto quello che gli accade intorno, osservare persone e luoghi, ascoltare conversazioni, decifrare caratteri ed emozioni, personali e altrui, ipotizzare cause e moventi, per immaginare quello che poi potrebbe accadere e scriverlo, raccontarlo senza veli.
La seconda cosa che mi ha fatto venire in mente questo film, infatti, appena uscita dal cinema, è la celebre confidenza fatta da Sigmund Freud a Carl Gustav Jung, accolti da una folla festante, all'arrivo negli Stati Uniti: “Non sanno che portiamo loro la peste”. Come la psicoanalisi, e più ancora di essa, la letteratura rappresenta, fin dai suoi inizi, per la società la “peste”, vale a dire uno sguardo non conforme, non allineato, una trasgressione dichiarata alle convenzioni culturali e alle necessità sociali. In questo senso, esemplare è la riflessione della gallerista d'arte, che domandandosi a cosa serva la letteratura, si risponde da sé: “A niente. Ricorda che l'assassino di John Lennon aveva in tasca una copia del Giovane Holden”, mettendo in luce la profonda verità che la letteratura è davvero “pericolosa”, in quanto non fornisce istruzioni per l'uso, idee preconfezionate e rassicuranti, ma propone visioni inquietanti e ipotesi destabilizzanti, che sta al lettore e alla sua capacità di lettura elaborare e discernere.
Per quale strana ragione e insanabile contraddizione, dunque, si pretende di insegnare a scuola la letteratura? Non sarà una letteratura disinnescata quella che l'istituzione propone, attraverso pratiche che ne fanno un materia scolastica conformista, non credibile e addomesticata? E non sarà per questa ragione che i ragazzi (messa per un attimo da parte la responsabilità di media massificanti), davanti a questo colossale inganno, rifiutano la lettura come la più trita, la più noiosa, la meno emozionante delle esperienze?
Emblematico è l'atteggiamento del professore, a questo riguardo, che pur avendo fatto della letteratura lo scopo della sua vita, nell'insegnamento e nella pratica (in giovane età è stato autore di un romanzo dal titolo L'enfant e l'orage), esattamente come tutti gli altri personaggi del film, non si rende conto che finire nel racconto di uno scrittore può voler dire pagare un conto salatissimo in termini di accettabilità e dignità della propria immagine (e non per nulla il libro che lo manderà k.o. è Voyage au bout de la nuit, il più oscuro, ambiguo, contrastato, odiato e amato romanzo del Novecento)
Certo, siamo davanti a un film che porta alle estreme, forse irreali, conseguenze un fatto tutto sommato ordinario: l'incontro fra un professore e un allievo dotato di talento nella scrittura. E coinvolgere lo spettatore in una narrazione che ipotizza “Cosa succederebbe se...”, è un meccanismo narrativo già sfruttato e di comprovato funzionamento.
Ma quando si parla di letteratura e di lettura, a mio avviso le figure di questo professore curioso, ma nel suo sapere sprovveduto, e di Claude e del suo insaziabile desiderio di comprendere e di entrare con l'immaginazione nella verità delle vite altrui, sarebbe meglio tenerle sempre ben presenti. (gz)
1 commento:
Molto interessante Giovanna, come sempre.
Soprattutto l'antitesi tra scuola e cultura, che sembra paradossale, ma non lo è affatto.
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