mercoledì 11 marzo 2015

Incontrare il mondo a metà strada

Da alcune settimane mi interrogo su cosa scrivere di Six drawing lessons di William Kentridge, il libro scaturito dalle Charles Eliot Norton Lectures che ha tenuto a Harvard nel 2012 e pubblicato dalla Harvard University Press lo scorso anno. (Per intendersi bene, le Norton Lectures sono quelle delle Lezioni americane di Italo Calvino e delle Sei passeggiate nei boschi narrativi di Umberto Eco; se volete approfondire, leggete qui).

È un libro che mi ha affascinato e, a tratti, entusiasmato. Sotto molti aspetti lo potrei definire un libro rivelatore o, almeno, lo è stato per me che sono decisamente digiuno di arte, disegno e teoria degli stessi. La conclusione a cui sono giunto è affidarmi ad alcuni brani che ho trovato particolarmente illuminanti, legati a una breve frase incontrata quasi all'inizio del libro


Questa frase chiave del libro si trova a pagina 4, scritta in lettere maiuscole in Gotham color granata:

MEETING THE WORLD HALFWAY

Cioè, incontrare il mondo a metà strada.
È questo, secondo la mia interpretazione, il concetto della sua attività di disegnatore che Kentridge ha inteso promuovere nelle sei lezioni di Harvard. E dico disegnatore non a caso, perché è Kentridge stesso ad affermare di essere sempre disegnatore, anche quando usa le parole, la cinepresa, o mezzi diversi da carta e carboncino, suoi utensili d’elezione.



Che cosa significa incontrare il mondo a metà strada ce lo spiega lui stesso nella prima lezione, riferendosi ai suoi collage di cartoncino nero rozzamente strappato.
Domandate a qualcuno di disegnare un cavallo e (se non è Delacroix) la cosa non gli sarà facile. Che distanza c’è fra la schiena e gli zoccoli? Qual è la distanza fra la mandibola e l'ala dell’atlante? Quale il rapporto fra il garrese, la cresta e la punta della spalla? […] Ma basta muovere dei pezzi di carta nera e il cavallo compare davanti ai nostri occhi. Qualcosa che non sappiamo di sapere. Qualcosa che possiamo riconoscere senza conoscere.
Questa tensione verso il senso – prendere i frammenti e comporre l’immagine - è presente non solo in questo nostro guardare ombre, ma in tutto ciò che vediamo. Il vedere è diventato metafora di tutte le immagini e di tutti i modi in cui ci appropriamo del mondo.
Anche se le forme sono sintetiche e l’immagine semplificata, abbiamo il cavallo sotto gli occhi. Anche se fosse un singolo glifo, vedremmo il cavallo nei frammenti e riconosceremmo Ronzinante.



Dentro c’è il senso del CAVALLO, dell’essere cavallo, che aspetta di essere innescato. Ronzinante, Bucefalo, il cavallo di Troia, Stubbs, il fotofinish di una corsa: è tutto lì dentro. E un processo duplice: il foglio di carta viene verso di noi e  il nostro senso del cavallo gli va incontro. Incontriamo il mondo a mezza via. Il foglio di carta, con le sue forme nere, diventa la membrana attraverso la quale incontriamo il mondo. Una cosa allo stesso tempo ovvia e sorprendente. Il disegno diventa il punto d’incontro, ma anche la soglia sulla quale il mondo incontra noi: dove incontra lo Stubbs, il Ronzinante, le voci dell’enciclopedia, i ricordi delle galoppate e quelli di una caduta da cavallo, trascinati, con il piede impigliato nella staffa, trascinati sul percorso della buca 9 del campo di golf del Sani Pass Holiday Resort, all’età di dieci anni.
In qualche silenzioso, invisibile vestibolo del cervello, le immagini sono accolte, prese in custodia, interrogate e inviate – rinfrescate -  al luogo di destinazione, in forma di cavallo. Il foglio di carta è semplicemente un’estensione visibile della retina, una dimostrazione emblematica di ciò che non possiamo fare a meno di vedere. Le nostre proiezioni, il nostro muoverci verso l’immagine è una parte essenziale di ciò che è visibile, dell’essere nel mondo con gli occhi aperti. [pp. 16-18]



Questa idea del foglio come membrana tra noi e il mondo è stato probabilmente mutuato da una pratica divinatoria africana nella quale un lenzuolo bianco viene steso in una stanza scarsamente illuminata e,  con l’aiuto del divinatore, il soggetto guarda il lenzuolo e vede immagini del futuro, degli amici, dei nemici: tutte proiezioni del suo occhio verso l’esterno.

Un momento della prima lezione.
Ma se è apparentemente semplice, con l’aiuto del divinatore, proiettare le immagini da noi al mondo su un lenzuolo bianco, ben più difficile pare sia risolvere l’urgenza del fare, il concentrarsi dell’energia intorno al foglio bianco, al foglio vuoto.
Un’energia concentrata, ma che non sa cosa debba fare; l’impulso a fare qualcosa – un disegno, una pittura – in attesa di istruzioni chiare. Che cosa bisogna fare? Quali sono le immagini che devono essere create? Come se queste istruzioni mi potessero dire: stiamo aspettando di fare la rivoluzione proletaria; stiamo aspettando di uscire dalla caverna e vedere il sole [qui il riferimento è alla caverna platonica, che è stata elemento portante della prima lezione]. Invece, la sola cosa in cui ho fiducia è il procedere in cerchio, l’indovinello che non ha una chiara risposta.


Un momento della prima lezione
Nello studio, questo si manifesta nella distanza fra l’energia del muscolo che si tende e la spossatezza, l’incapacità, che a volte mi prende, di stare sveglio. È un sonno difensivo: l’incapacità di sapere che cosa debba essere fatto, come farlo e perché debba essere fatto che si maschera da stanchezza. Una vera stanchezza che si maschera da finta stanchezza. Il bisogno e il non-bisogno di fare qualcosa. Questa non è un’immagine che arda dal desiderio di mostrare, o raccontare se è una storia o un’esperienza: questo è non-bisogno. Ma la pressione di qualcosa che c’è è bisogno.



Rilke ha scritto la poesia La pantera quando era segretario dello scultore Auguste Rodin. Era bloccato dal CHE COSA scrivere, dal sapere di essere poeta e non sapere che cosa le parole avrebbero dovuto descrivere. Rodin lo spedì allo zoo con l’ordine di non tornare finché non avesse scritto qualcosa su quel che aveva visto: una delle grandi poesie del Novecento è nata come compito, come esercizio. […] A volte guardo ciò che ho speso una mattina a disegnare, mi siedo su una sedia nel retro dello studio per avere una visione più ampia; poi chiudo un occhio e lo riguardo, poi l’altro occhio, cercando con un atto volitivo di migliorare quel che vedo. Poi chiudo gli occhi e mi abbandono al mantra «Lascia che questo tempo passi. Lascia che questo tempo passi.» […] La pantera di Parigi, lo studio di Johannesburg si incontrano sulla pagina. La pantera, mutata in parole, raggiunge la proiezione del mondo esterno che la aspetta. Che aspetta la sua particolare miscela di energia, la certezza del suo desiderio e il vuoto radicale nel suo centro. [pp. 154-156]


Le cose che vorrei aggiungere sono abbastanza imprecise. Ma preciso è il desiderio che qualcuno (magari gli amici di Quodlibet?) legga questo post e si faccia venire in mente di pubblicare questo libro in Italia. Lo meriterebbe. Sarei disposto anche a tradurlo.

Il libro è disponibile anche in formato eBook, qui. Ma suggerisco di non perdersi il piacere di un manufatto impeccabile sotto ogni aspetto e acquistare l'edizione cartacea.
In rete si trovano i filmati delle Norton Lectures di William Kentridge in questo sito. Abbiate pazienza e scorrete fino in fondo la pagina: Kentridge è l'ultimo della fila. È un po' farraginoso accedervi e scaricare, ma penso ne valga davvero la pena.

Di William Kentridge avevamo già parlato qui.

[Le traduzioni sono mie e me ne assumo la responsabilità. Le enfasi nel testo sono dell'autore.]

1 commento:

Rob Dunlavey ha detto...

Paolo, Thank you for this post. I have lately wondered what I have to learn from Kentridge and this is very helpful. My appreciation is superficial probably but I often think about the the process whereby forms move out from my thinking into the real world… and back!