mercoledì 8 gennaio 2014

Prendere in mano il proprio destino

«Ho scritto il mio primo racconto quando avevo dieci anni: il titolo era Over de Rainbow. [...] Il Mago di Oz (il film, non il libro che non lessi da bambino) fu la mia primissima influenza letteraria.»
Quanto contino gli incontri con le storie che si hanno da bambini, è noto. E come tutte le cose note, finisce per diventare scontato. Ma se è un personaggio come Salman Rushdie ad affermare questa verità, l'attenzione si ferma. Qualche tempo fa leggendo un saggio sui colori, ho scoperto che si deve al film del 1939 Il Mago di Oz, diretto da diretto da Victor Fleming, l'inizio della carriera di scrittore di questo colosso della letteratura contemporanea, come si legge nel brano che ho appena riportato.
La citazione viene dal breve scritto che Rushdie ha dedicato al film Il Mago di Oz, saggio omonimo uscito nel 1992 per Linea d'Ombra Edizioni e poi riedito da Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, e oggi esaurito. Un volume dal mio punto di vista interessante perché in esso Rushdie analizza uno dei più famosi film della storia del cinema a partire dall'esperienza profonda che ne fece da bambino, prospettiva che lo mette nelle condizioni di riflettere su molti e rilevanti fatti inerenti all'infanzia e alla scrittura a essa dedicata. Valga, prima fra tutte, questa, a titolo di esempio:


«Il Mago di Oz fece di me uno scrittore. Molti anni dopo, quando incominciai a pensare al racconto che diventò poi Harun e il Mare delle Storie, avevo la forte sensazione che se avessi saputo cogliere il tono giusto sarebbe stato possibile scrivere il racconto in modo tale da renderlo interessante per i bambini e per gli adulti; o, per usare la frase cara a quelli che scrivono i risvolti di copertina, ai “bambini dai sette ai settant'anni”. Il mondo del libro è diventato una faccenda dominata da rigide categorie e demarcazioni, in cui i libri per bambini non sono soltanto una specie di ghetto, ma un ghetto suddiviso in base a un certo numero di fasce di età. Il cinema, tuttavia, ha regolarmente scavalcato tali distinzioni. Da Spielberg a Scwarzenegger, da Disney a Gilliam, ha offerto film che bambini e adulti si godono seduti fianco a fianco, uniti da ciò che stanno guardando. Mi è capitato di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit? in uno spettacolo pomeridiano pieno di bambini gaiamente turbolenti, e di tornare la sera dopo, a un'ora troppo tarda per un pubblico infantile, per potermi godere tutte le battute, gli scherzi e stupirmi una volta di più dinanzi alla genialità del concetto di Cartoonia. Ma tra tutti i film quello che più mi ha aiutato a trovare il tono giusto per Harun è stato Il Mago di Oz


In seguito, ripercorrendo la trama del film (e in parte del libro da cui è tratto, cioè Il meraviglioso mago di Oz, di Frank Baum), Rushdie osserva:
«Il Kansas descritto da Frank Baum è un luogo deprimente in cui tutto è grigio, a perdita d'occhio: è grigia la prateria ed è grigia la casa in cui abita Dorothy. E per quanto riguarda Zia Emma e Zio Henry, “il sole e il vento avevano tolto ogni luminosità ai loro occhi e li avevano fatti diventare di un grigio smorto; avevano portato via il rosso dalle loro guance e dalle loro labbra, che erano grigie anch'esse. Lei era magra e scarna e non sorrideva mai”. In quanto a Zio Henry “Non rideva mai; anche lui era grigio, dalla lunga barba agli stivali”. Il cielo? Era persino più grigio del solito. Toto fortunatamente non era grigio. Aveva salvato “Dorothy dal diventare grigia come tutto ciò che la circondava”. Neanche lui aveva dei bei colori vivaci, sebbene i suoi occhi fossero scintillanti e avesse un bel pelo lucente come la seta: Toto era nero.


È dal quel grigiore - il grigiore di quel mondo desolato che si accumulava, il grigiore che si aggiungeva al grigiore – che giunge la sventura. Il tornado è il grigiore concentrato, trascinato in un turbine e liberato, per così dire, contro se stesso. A questo il film è sorprendentemente fedele: le scene del Kansas sono girate in quel che si chiama bianco e nero, ma che in realtà è fatto di una molteplicità di sfumature di grigio, e le immagini si oscurano sino a quando il tornado le risucchia e le fa a pezzi.»


Da questo mondo plumbeo, la protagonista è catapultata, per volontà del tornado descritto da Rushdie, nel mondo di Oz, dove ogni cosa è, all'opposto, accesa di vividi colori, e dove il colore è talmente importante che tutti gli elementi centrali della storia trovano una connotazione cromatica: il sentiero dorato, la Città di Smeraldo, le scarpette rosse (che nel libro, però, sono d'argento).


Rushdie a proposito di questo passaggio che è, a un tempo, cromatico e psicologico, nota: «Dorothy ha fatto ben più che uscire dal grigiore...» è entrata «nel Technicolor. Il suo non essere a casa è sottolineato dal fatto che [..]  non entrerà più in nessun interno fino a quando non arriverà alla città di Smeraldo. Dal tornado al Mago, Dorothy non viene mai a trovarsi sotto a un tetto.»


E ricordando la sua esperienza di piccolo spettatore, mettendo a confronto i due mondi in opposizione, quello cromatico di Oz e quello acromatico da cui proviene Dorothy, assunti a metafora dell'esperienza umana, si chiede: «E questo sarebbe il posto “che non ha pari al mondo”? Sarebbe questo il Paradiso Perduto che ci viene chiesto di preferire (come fa Dorothy) al mondo di Oz?
Ricordo, o immagino di ricordare che, quando vidi per la prima volta il film, e allora abitavo in una bella casa, quella di Dorothy mi sembrò una topaia. Ovviamente, pensavo, se io fossi stato sbattuto su Oz avrei naturalmente voluto ritornare a casa, ma allora io avevo un sacco di buoni motivi per volerci tornare. Ma Dorothy? Forse si sarebbe dovuto invitarla a restare: qualunque posto sembra migliore di quello.»


E prosegue, implacabile, dopo una attenta disamina del come e del perché questo famoso film hollywodiano fu realizzato, fra imprevisti, contraddizioni, errori e conflitti di ogni tipo:
«Chiunque abbia accettato l'idea degli scenggiatori che questo sia un film sulla superiorità della propria casetta rispetto a luoghi lontani, che la morale del Mago di Oz sia così vomitevolmente dolciastra, farebbe bene ad ascoltare il tono struggente di desiderio della voce di Judy Garland mentre il suo viso si volge all'insù verso il cielo. Ciò che esprime in quel momento, ciò che incarna con la purezza di un archetipo, è il sogno di partire, un sogno almeno altrettanto forte del sogno opposto delle radici.


Alla base del Mago di Oz c'è una forte tensione tra questi due sogni; ma quando sale la musica e quella voce grande e limpida vola tra gli intensissimi desideri espressi dalla canzone, chi potrebbe avere dei dubbi su quale dei due messaggi è il più forte? Nel suo momento emotivamente più intenso questo è indiscutibilmente un film sulla gioia dell'andare via, del lasciare il grigiore e entrare nel colore, del farsi una nuova vita in un posto “dove non ci sono guai”. Over the Rainbow è, o dovrebbe essere, l'inno degli emigranti di tutto il mondo, di tutti coloro che vanno in cerca di un mondo dove “i sogni più impossibili diventano realtà”. È una celebrazione dell'Evasione, un grande Peana all'Io senza Radici, un inno – l'inno per eccellenza – all'Altrove.»


Nelle prime pagine del saggio, Rushdie scrive:
«Ho incominciato con questi ricordi personali perché Il Mago di Oz è un film la cui forza sta nel mostrare l'inadeguatezza degli adulti, anche degli adulti buoni, e nel farci vedere come la debolezza dei grandi costringa i bambini a prendere in mano il loro destino e quindi a diventare grandi loro stessi. Il viaggio dal Kansas a Oz è un rito di passaggio da un mondo in cui Zia Emma e Zio Henry, che fanno da genitori a Dorothy, sono impotenti ad aiutarla a salvare il suo cane Toto dalle grinfie di Miss Gulch, a un mondo i cui abitanti hanno le sue stesse dimensioni e in cui non viene mai, assolutamente mai trattata come una bambina, bensì come un'eroina.»
Ecco perché un inno all'Altrove è un inno molto adatto ai bambini e alla loro crescita. Le parole di questo libro mi sono apparse molto adeguate per cominciare il 2014 di questo blog.
Buon anno e buon lavoro a tutti.



2 commenti:

Ila ha detto...

Buon Anno a voi.
Post letto d'un fiato.
Inutile dire che son cresciuta anche con questo film; e la canzone cantata da Dorothy la amo a tal punto da averla come suoneria... (per questo poi non rispondo al telefono, preferisco lasciarlo cantare!).

*___* (emoticon sognante)

Ila

Topipittori ha detto...

Grazie Ilaria... è molto da Dorothy lasciar cantare il telefono : )