venerdì 5 settembre 2014

La fabbrica del mito, ovvero: l'illustratore come mistificatore.

Norman Rockwell, Breaking home ties, 1954.
Copertina per il Saturday Evening Post.
Il prossimo 11 novembre inaugurerà a Roma American Chronicles, una mostra monografica dedicata a un celeberrimo illustratore americano, Norman Rockwell. Quarantaquattro quadri e 323 illustrazioni originali per il Saturday Evening Post realizzate nel corso di 47 anni, dalla Grande Depressione degli anni Trenta agli anni Settanta. (Qui e qui il video di presentazione)

Le ragioni per visitare questa mostra sono moltissime. Le illustrazioni di Rockwell per le copertine del Saturday Evening Post sbigottiscono per la maestria tecnica e sono certo che saranno decine gli illustratori che si accalcheranno davanti agli originali per carpire i segreti di una tecnica (olio) impeccabile, di una composizione efficace, di una caratterizzazione dei personaggi misurata e allo stesso tempo allegra e arguta, di un'attenzione spasmodica ai dettagli più minuti, alla ricerca di una ricetta impossibile da replicare. E poi, quante sono le mostre di illustrazione che si organizzano in Italia? Tanto vale non perdere l'occasione.

Norman Rockwell, Girl with a black eye, 1953.
Copertina per il Saturday Evening Post.

Ma la ragione per la quale mi viene di scrivere di questa mostra (che ovviamente ancora non ho visto) e, soprattutto, di questo sapientissimo artigiano dell’immagine è che la notizia della prossima inaugurazione mi ha fatto riflettere sulla ragione per la quale - al di là del riconoscimento di una maestria composita e sfaccettata - io abbia sempre liquidato Rockwell con un «non mi piace»: mi faceva - e continua a farmi - lo stesso effetto emetico della melensa grafica vettoriale degli emoticon e degli impertinenti pupattoli fotografati da Anne Geddes. Ma queste sono considerazioni personali, gravemente insufficienti, intrise di superficialità e di emotività. Esigerebbero un approfondimento, anche psichiatrico.

Norman Rockwell, Boy in a dining car, 1947.

Non che il mio scarso gradimento sia fenomeno isolato: anche se i suoi originali si vendono a milioni di dollari (gli ultimi passaggi in asta, fra i 9,1 e i 46 milioni; e basti ricordare che a cifre non molto più alte si vendono dei Picasso, dei Bacon, dei Warhol) la critica non ha mai accolto Rockwell nel novero dei grandi. Solo adesso, con la sua straordinaria rivalutazione finanziaria, qualche voce di lode comincia a levarsi: bisogna pur giustificare lo sperpero di cifre così assurdamente elevate.

Norman Rockwell, Freedom of Speech, 1943.
Dipinto della serie Four Freedoms.

In realtà, la resurrezione critica di Norman Rockwell è cominciata qualche anno fa: nel 2001, subito dopo l’11 settembre, il Guggenheim Museum di New York ha montato in fretta e furia una grande retrospettiva di questo illustratore. Una mostra che ebbe un successo di pubblico straordinario: la gente correva a fiumi a farsi rassicurare - nel momento in cui il suo mito veniva messo così drammaticamente in discussione - dall'immagine di un’America buona e compassionevole, dove  tutti i bambini sono simpatici scavezzacollo, i poliziotti severi ma bonari, i servi negri grati al padrone, i poveri dignitosi, i ricchi condiscendenti ma consapevoli delle proprie responsabilità sociali, la gente accogliente e di mente aperta. Perfino la battaglia per i diritti civili, nelle illustrazioni di Rockwell, diventa asettica e linda come il vestito di una scolaretta.

Norman Rockwell, The problem we all live in, 1964.

In questo senso, il titolo della mostra American Chronicle [Cronache americane] è decisamente fuorviante; ma è anche un ulteriore segnale di quanto questa opera di mistificazione fatta di tacchini ripieni, camicie a scacchi, calzini esausti arrotolati sulle caviglie, nonne interamente rivestire di pizzo e abiti da ballo provati sopra la salopette in jeans sia stata efficace. Quanto questa azione di depurazione e di filtraggio abbia agito nel profondo della psiche collettiva americana: una patente quanto magistrale finzione viene accettata come quintessenza del reale, del genuino, del vero. Sono convinto che sia stato proprio il mezzo, l'illustrazione, a rendere possibile un risultato così stupefacente. E c'è qualcosa di diabolico in questo.

Norman Rockwell, Prom Dress, 1949.
Copertina per il Saturday Evening Post.

Il corpus delle immagini confezionate con ossessiva maniacalità da Rockwell ha contribuito, in un arco di tempo lungo quasi quanto il secolo breve a promuovere il sogno americano presso gli americani, forse più ancora del cinema. E lo ha fatto così bene (e attraverso uno strumento così diffuso e coinvolgente come la stampa popolare) che gli americani hanno finito per crederci, per identificarsi completamente e perdutamente in quella narrazione fatta di singole immagini sospese, il cui "prima" e "dopo" è lasciato alla fantasia del singolo lettore, costruendo un  immaginario collettivo autoassolutorio e appagante, cieco alla realtà e totalmente venduto al mito, alla finzione dell'americanità. Non è forse un caso che fra i più grandi collezionisti di Rockwell ci siano il politico populista Ross H Perot e due fra i cineasti che meglio hanno rappresentato questa versione del mito americano: George Lucas e Steven Spielberg. (Qui un servizio Rai sulla mostra Telling Stories: Norman Rockwell from the Collections of George Lucas and Steven Spielberg.)

Norman Rockwell, The Runaway, 1958.
Copertina per il Saturday Evening Post.

Non credo che Rockwell fosse in malafede. Mi sembra lo dimostri un documentario (qui la prima parte, qui la seconda e qui la terza) che descrive, tra l'altro, in modo molto interessante il suo affettuoso rapporto con i modelli che usava per le sue illustrazioni e che costringeva a comporre tableaux vivants che "fotografava a olio", intervenendo solo in quei minuti dettagli mistificatori che servono a rendere espliciti, palpabili e - alla fin fine - veri i cosiddetti valori tradizionali americani.

Norman Rockwell, After the proms, 1957.
La foto preparatoria e la copertina per il Saturday Evening Post.

Ma se usava la gente della strada, i vicini di casa, i bottegai all'angolo per comporre il suo ritratto dell'America, quella che dipingeva era l'America che avrebbe voluto: altra da quella che, anche nella ridente Stockbridge, Massachusetts, aveva sotto gli occhi quotidianamente.

Norman Rockwell, Christmas Homecoming, 1948.
Copertina per il Saturday Evening Post.
Il personaggio con la pipa in alto a destra è Norman Rockwell

In coda a queste riflessioni, mi viene da notare che in Italia non abbiamo mai avuto un aedo così sublime di una narrazione collettiva dell'italianità: un illustratore in grado di plasmnare con tanta acribia un'immagine nella quale gli italiani si potessero riconoscere. Più che una narrazione, abbiamo avuto una retorica dell'illustrazione, altisonante e cinica, che occhieggiava dalle copertine della Domenica del Corriere proponendoci la vita come spettacolo più che lo spettacolo della vita, e creando così i presupposti del dominio di quella cattiva televisione che ha devastato la nostra psiche collettiva.

Norman Rockwell, Girl at mirror, 1954.
Copertina per il Saturday Evening Post.

Direi che nel cambio non ci abbiamo comunque guadagnato.

Norman Rockwell, Un illustratore ispeziona un'illustrazione, Roma, 2014

3 commenti:

migueltanco ha detto...

Penso che la parte interessantissima di Rockwell è quella di unire la memoria emotiva di una paese con la memoria visiva. il fatto di fare sempre la composizione (e tante volte il quadro) dal vivo con persone reali fà che si senta ancora di piu' un'epoca.

Benedetta ha detto...

Mi è venuta voglia di rileggere "I peccati di Peyton Place"! In questo senso trovo Rockwell genuinamente americano e non tanto mistificatore della sua realtà nazionale, proprio per il carattere puritano del suo sguardo, laddove il puritanesimo è a mio avviso, proprio un tratto caratteristico . Comunque non credo sia necessario andare dallo psichiatra, basta un bravo dermatologo per l'orticaria. ( e qui chiudo con un bel sorriso da emoticon :-) )

Rob Dunlavey ha detto...

It's fascinating to wonder how Italians view Rockwell. You accurately described the divisive quality of his work. Rockwell was a deeply complicated person and this fact, while unsurprising (all people are complicated) is made more glaring by the earnest manipulation of his illustrations. He was a product of his times. I don't know if I would rank his oil painting as "masterpieces" though. I would love to see this show and see how it plays in the critical media. I will mention that the Rockwell Museum is a few hours from my home and I've been there a number of times. It's a beautiful place and they sponsor many GREAT illustration exhibits.