mercoledì 29 aprile 2015

Pippo non lo sa, ma è arrivato anche a Forlì

[di Maya Beretta di Libreria Momini]

Quando abbiamo sfogliato per la prima volta i libri della collana Pippo abbiamo pensato: Geniale!
Quando abbiamo letto per la prima volta del progetto Pippo non lo sa abbiamo pensato: Genialissimo, vogliamo farlo anche noi!
Poi questo desiderio è stato messo nel cassetto per un po', ce l'eravamo quasi dimenticato quando la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì ha indetto un bando per eventi collaterali alla mostra Boldini. Lo spettacolo della modernità che sarà ospitata ai Musei San Domenico di Forlì, la nostra città, fino al 14 giugno 2015. Era il nostro momento.


Così ci siamo mobilitate, abbiamo chiesto autorizzazioni, coinvolto scuole, insegnanti, associazioni, amici e artisti locali ed è nata la Pinacoteca dei ri-tratti, un gioco di osservazione, riproduzione, alterazione, manipolazione di ritratti ispirato da Boldini, noto per i suoi ritratti di dame dell'alta società della Belle Epoque. Il fine ultimo è ovviamente quello di vendere quanti più ritratti possibile per arricchire le biblioteche scolastiche di quattro scuole della città.


Che il progetto era bello lo sapevamo già, ma è stata davvero una sorpresa vedere con quale entusiasmo insegnanti, bambini e genitori hanno aderito al gioco!
La nostra associazione, Momini, ha organizzato tre visite alla mostra, guidate dalla nostra cara Nadia Conficoni – insegnante, atelierista, autrice insieme alle colleghe del libro L'esperienza dell'arte - che hanno portato al museo più di trenta famiglie. Dopo le visite abbiamo invitato bambini e genitori a riprodurre le opere che più li avevano colpiti, con risultati davvero interessanti, anche se per noi che da diversi anni facciamo laboratori con bambini e adulti l'aspetto più piacevole è stato senza dubbio vederli lavorare fianco a fianco, con grande concentrazione e impegno, senza interferenze o interruzioni.


Alle famiglie si sono aggiunti più di 300 alunni e insegnanti delle scuole primarie e dell'infanzia che si stanno dedicando al progetto con lezioni e visite alla mostra.
L'associazione Arte e Vita, che si occupa di introdurre alla pittura persone con disabilità psichiche fornendo loro un nuovo mezzo espressivo, ha partecipato con i ragazzi che segue, presentando elaborati sorprendenti.


Grazie a una vulcanica insegnante, un'intera classe di grafici di un istituto professionale si cimenterà con rielaborazioni grafiche di  ritratti di artisti più o meno noti.
E queste sono solo le adesioni più consistenti in termini di numeri perché sono davvero tante le persone che stanno lavorando da casa, chiamano per fare mille domande o ci portano le opere in formati strampalati, tornano a chiedere un po' di fogli in più perché li hanno finiti tutti...

Insomma, siamo davvero entusiaste di questa prima fase e non vediamo l'ora di avere in mano tutte le opere per preparare finalmente la grande mostra all'aperto del 16 maggio. Anche se, dobbiamo ammetterlo, iniziamo a essere un po' preoccupate per l'allestimento perché forse lo spazio che avevamo previsto di usare non è abbastanza grande... ci toccherà invadere tutta la via!

Adesso aspettiamo solo di scoprire quante opere riusciremo a vendere, intanto, comunque vada, grazie ai Topipittori e a Spazio B**K per averci autorizzato a trapiantare il progetto, auguriamo un Pippo ad ogni città!

PS: Se qualche amico dei Topi vuole unirsi a noi accettiamo anche disegni via posta ordinaria entro l'8 maggio!

[ANTEPRIMA]
Il Centro Documentazione Handicap - Cooperativa Accaparlante di Bologna e ZOO organizzano una nuova edizione de Le scarpe di PiPPo per finanziare l'acquisto di albi per la Biblioteca Ragazzi del Centro. L'iniziativa si articola in quattro date, a partire dal 25 maggio, con laboratori per i bambini delle scuole primarie del quartiere Pilastro tenuti, fra gli altri, da Arianna Papini. Sabato 6 giugno la mostra, a Villa Lipparini, nell'ambito di Be' _Bologna Estate, con la vendita delle opere realizzate da autori notti e meno noti. Tenetevi pronti. Vi aggiorneremo appena i dettagli dell'iniziativa saranno disponibili.

lunedì 27 aprile 2015

La fiaba prepara alla vita

Antonio Rodríguez Almodóvar.
Un giorno, abbiamo trovato sulla pagina facebook di Claudia Souza il link a questa intervista ad Antonio Rodríguez Almodóvar*, sul tema delle fiabe, rilasciata a Sandra Penelas e pubblicata sul sito del giornale La Opinión - A Coruña, il 7 marzo 2015. Non conosciamo lo spagnolo, ma da quel poco che abbiamo letto, abbiamo capito che si trattava di parole importanti, fondamentali. Da lì, il desiderio di tradurre e pubblicare l'intervista sul nostro blog, per farla conoscere al pubblico italiano e ai nostri lettori. Così abbiamo contattato Claudia e le abbiamo chiesto se secondo lei questo sarebbe stato possibile. Grazie alla sua risposta, e a Yolanda Reyes, Ana Garralón e a Pablo Cruz della casa editrice Anaya, ci siamo messi in contatto con Antonio Rodríguez Almodóvar che ha mostrato grande entusiasmo e disponibilità verso la nostra proposta, accordandoci il permesso di pubblicare l'intervista. Oggi siamo onorati e orgogliosi di pubblicarla. La traduzione è di Lisa Topi. Grazie a Claudia Souza per averci dato modo di conoscere il lavoro di Rodríguez Almodóvar e grazie a Rodríguez Almodóvar per la generosità con cui ha accolto la nostra richiesta.

La mente dei bambini chiede il conflitto e la fiaba non li traumatizza: li prepara alla vita.
“Non disprezziamo mai l’intelligenza dei bambini, la morale della favola non serve”.

*Autore di oltre cinquanta pubblicazioni, Rodríguez Almodóvar, è autore di un’imponente opera di recupero delle fiabe popolari spagnole. Una delle sue raccolte, più volte ristampata dal 1985, ha già raggiunto cinque milioni di copie. Ieri [06/03/2015 NdT], ospite delle Giornate Internazionali della Letteratura per l’Infanzia e per Ragazzi [dell’Università di Vigo, in Spagna NdT], lo studioso è tornato a rivendicare l’importanza della narrazione che, nei secoli, ha svolto un ruolo essenziale per l’umanità.



Lei ha sempre difeso i valori pedagogici della fiaba popolare eppure, negli ultimi tempi, sono emerse voci critiche nei confronti delle fiabe, che trasmetterebbero stereotipi sessisti o sarebbero troppo drammatiche per i bambini.

Non sono d’accordo. Tutto dipende dalla versione di cui si parla. Io cerco sempre di recuperare le versioni della tradizione orale perché sono quelle che in maggior misura racchiudono dei valori. Se togliessimo la seconda parte da La Bella Addormentata, rimarrebbe un racconto piuttosto insulso di una principessa condannata a un dormire fin quando non riceverà il bacio di un principe azzurro. Poi, però, lei si trova ad affrontare delle prove difficili, quando lui va in guerra e la lascia in balia di una suocera edipica che divora i nipoti. La gente dirà che così è ancora peggio. [risate] La verità è che occorre partire da una base più solida per analizzare le fiabe. Esse hanno un valore simbolico e rappresentano altro da ciò che raccontano: il dolore, il male gratuito, la mancanza di protezione dei bambini...  Il contrasto mentale tra quello che il bambino ascolta e quello che vive è l’aspetto più importante, perché si sentirà protetto dalla sua famiglia e rafforzerà la sua posizione nel mondo. Si tratta di un meccanismo simbolico della mente, sul quale sono stati condotti numerosi studi comparativi.

Crede che ai bambini sia comunemente riconosciuta una capacità inferiore di distinguere la vita reale dalla fantasia per via di un atteggiamento politicamente corretto che, oggi, invade tutti gli ambiti? 

La storia di Hansel e Gretel, che, prima che il sistema di trasmissione orale scomparisse, nelle veglie domestiche delle famiglie spagnole era conosciuta come Periquín y Periquina, ti dice che un giorno o l’altro dovrai andartene di casa, per cui tanto vale che tu sappia che la vita è un cammino arduo. Ma anche che puoi farcela. È un messaggio simbolico che fa sì che il bambino si prepari all’avventura della vita e non creda che sia un percorso tutto rose e fiori.

È uno dei problemi della società odierna, i bambini vivono in una campana di vetro fino all’età adulta.

E così l’incontro con la vita diventa uno scontro, uno shock brutale. Ritrovarsi improvvisamente nella selva della vita senza possedere gli strumenti necessari per orientarsi è molto peggio che ascoltare una fiaba.

C’è posto per la fiaba in un mondo digitale come quello di oggi?

Io credo di sì. Il problema delle versioni digitali è che tendono a semplificare troppo le storie. La struttura narrativa deve includere un conflitto iniziale importante, uno sviluppo sotto forma d’intreccio e un finale coerente. È grazie a ciò se la storia, oltre a fornire al bambino una visione del mondo, può aiutarlo a costruire una propria struttura mentale. L’aspetto più importante delle fiabe, ancor più dei valori che trasmette, è che la sua struttura interna facilita la costruzione dell’architettura mentale del bambino. Machado, uno dei miei autori preferiti, diceva che l’essenziale è formare bene la capacità di comprendere.

Da cui l’importanza di avere a disposizione le fiabe sia a casa sia a scuola.

Certo, e che gli insegnanti le raccontino con trasporto perché il valore affettivo è decisivo affinché ci si concentri sulla storia e la mente si senta confortata. Il politicamente corretto ha fatto disastri e costretto le case editrici a pubblicare delle fiabe mal costruite, se non delle porcherie, da cui oggi siamo invasi. Devo spezzare una lancia a favore degli illustratori spagnoli perché tra di loro ci sono persone davvero straordinarie. Poi, però, appena leggi la storia ti domandi se mai succederà qualcosa. Non è giusto. La mente del bambino chiede altro, un conflitto! Come si può pensare che possa essere traumatizzato? È tutto il contrario. Senza un referente simbolico grazie al quale capiscano da soli che le difficoltà esistono, i bambini cresceranno in un mondo ovattato, dove è legittimo pensare che tutto sia semplice. L’indottrinamento non funziona con i bambini, per stimolare la comprensione del mondo in tutta la sua durezza servono delle fiabe ben scritte.

Ana María Matute, che l’ha soprannominata il terzo fratello Grimm, ha sempre rivendicato la qualità letteraria delle fiabe.

Sì, oltre che ben costruita, la fiaba è bella e apporta un valore importantissimo. Il valore estetico della vita e della vita letteraria non si acquisisce da un giorno all’altro, è una costruzione che richiede pazienza perché si radichi profondamente in noi il desiderio della buona letteratura. E con le storie da quattro soldi questo non avviene. Manca nella letteratura per l’infanzia e per ragazzi una critica seria ed è triste che questa sia solo una disciplina facoltativa nel percorso di formazione degli insegnanti. Dovrebbe comparire tra i fondamentali ai quali è riservato un corso annuale.

 

I bambini che oggi leggono e apprezzano le fiabe sono i lettori del futuro?

Certamente. O i non lettori, perché la passione per la lettura si alimenta solo con le belle storie. Una volta, esistevano decine di fiabe da raccontare nelle veglie domestiche e ogni famiglia ne aveva una preferita che aiutava a rafforzare il senso del gruppo. C’è chi mi ha ringraziato più volte per aver riportato alla luce la fiaba di suo nonno, della quale non aveva mai più trovato traccia, e poi mi ha detto che la storia non era così come l’avevo raccontata [risate]. Non disprezziamo mai l’intelligenza dei bambini, per favore. Devono pervenire a una buona strutturazione mentale ed è necessario che siano loro stessi a interpretare e dedurre. Diamogli tempo, non c’è fretta. La morale della favola non serve. Ana María Matute era un’acerrima nemica della morale della favola. Diceva sempre che i bambini non sono stupidi. Limitiamoci a raccontare la fiaba e basta. Il contrario sarebbe offensivo e irrispettoso delle grandi capacità dei bambini.

In Italia Rodríguez Almodóvar ha pubblicato Il bosco dei sogni (Salani, 2011). Premio Nacional de Literatura in Spagna nel 2005; e La vera storia di Cappuccetto Rosso (Kalandraka, 2009), basata sulla versione della fiaba della tradizione orale francese e del nord Italia.

sabato 25 aprile 2015

Una mattina, mi son svegliato / 3

Tradizione vuole che il 25 aprile, sul nostro blog, si festeggi così, con una delle canzoni più belle che esistono: Bella ciao.
La storia di Bella ciao affonda la sua storia in luoghi lontani e tradizioni diverse. Nel 2006, un ingegnere, Fausto Giovannardi, a Parigi, scopre per caso un cd: Klezmer. Yiddish swing music, venti brani di varie orchestre. Lo compra, lo ascolta, e in un pezzo riconosce la musica di Bella ciao. Il titolo è Koilen; l'esecutore, Mishka Ziganoff; la registrazione, del 1919. Come il pezzo sia arrivato in Italia non si sa. Alcune ricerche rivelano che Mishka Ziganoff era un ebreo originario dell'est Europa: un Cristian gypsy accordionist, fisarmonicista zingaro cristiano, nato a Odessa, che aprì un ristorante a New York: parlava correttamente l'yiddish e lavorava come musicista klezmer. La canzone Koilen è una versione della canzone yiddish Dus Zekele Koilen.



Giunto misteriosamente in Italia, il motivo divenne celebre in due diverse versioni: come canzone simbolo della Resistenza e come canto di lotta delle mondine. Il testo di quest'ultima versione, scritto nel 1951, si deve a Vasco Scansani su richiesta di Giovanna Daffini, "la voce delle mondariso".  
Bella, ciao divenne inno ufficiale della Resistenza solo vent'anni dopo la fine della guerra. Prima del 1945, secondo recenti studi, a cantarla nelle varsione oggi notissima erano alcuni gruppi di partigiani nel modenese e attorno a Bologna. La Bella ciao partigiana, come spiega Wikipedia, riprendeva nel testo la struttura del canto tradizionale Fior di tomba, e musicalmente e nell'iterazione del ciao un canto infantile diffuso in tutto il nord Italia, La me nòna l'è vecchierella. Un'altra possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento, che mutata leggermente passò in Piemonte con il titolo di La daré d'côla môntagna, e in Trentino, Il fiore di Teresina, poi in Veneto, Stamattina mi sono alzata.
L'innesco della popolarità mondiale di Bella, ciao fu il Primo festival mondiale della gioventù democratica, tenutosi a Praga nell’estate 1947, dove numerosi giovani partigiani emiliani parteciparono alla rassegna canora Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace. Da questo momento la fama di Bella, ciao si è allargata a tutto il mondo, ed è stata assunta nelle più diverse situazioni, a canto di resistenza, come per esempio è avvenuto durante la campagna elettorale di Tsipras e nelle manifestazioni di solidarietà a Charlie Hebdo.
Oggi ve la proponiamo in una strepitosa interpretazione live di Goran Bregovic (Parigi, 2013), in cui Bella, ciao si ricongiunge alle proprie radici balcaniche. Buon 25 aprile a tutti.

(Di Bella ciao, su questo blog, abbiamo scritto qui e qui).
 


Goran Bregovic - Bella Ciao - ( LIVE ) Paris 2013 di black_jack8945


venerdì 24 aprile 2015

Archì non è Arlecchino!


[di Lisa Topi]


Non fatevi ingannare dai colori in copertina: Sebbene gli somigli, Archì non è arlecchino.
Archì è il protagonista del nuovo libro di Roberto Piumini, illustrato da Emmanuelle Bastien. Un personaggio tanto leggero che, se dalla finestra arrivasse una folata di vento a sfogliare le pagine del libro, lo vedremmo volare via.

  Archì from Topipittori on Vimeo.

È un omino tondo e multiforme, tanto che scorrendo la sequenza in movimento lo si vede scomporsi e ricomporsi come fosse la linea di un diagramma, un gomitolo, uno stormo di uccelli, un bambino che ha nascosto dei giocattoli sotto il cappotto ma, uno dopo l’altro, li perde per strada. Io, a quattro anni, riuscii a camuffare sotto i vestiti un barattolo di vernice e una collezione di macchinine. Ma non è certo un ladro Archì.



Ha il passo goffo e comico dei piccoli, cammina, dondola, cade, si rialza e ricomincia. E dei bambini ha anche il pragmatismo. Non sa bene chi sia, sa solo che una cosa, se ha le ali va o che se soffi forte, suona. Proprio così fanno molti bambini che, quando inciampano in una novità la interpretano attraverso quel che sanno – e quanto più questa è lontana tanto più poetico è il nesso –  cosa che gli adulti scambiano per un esercizio di fantasia. Nel momento in cui si suona, un tubo di cartone non finge di essere una tromba, è una tromba.


Lui, del resto, può essere una bottiglia, un naso, una seggiola, un becco, un otto, un pesce, una scolaresca in fila indiana. È tante figure quante se ne possono immaginare combinando i suoi elementi. È tutt’uno con il mondo, perché i pezzetti che lo compongono si sparpagliano continuamente adattandosi alle metamorfosi della natura. Separarsene non lo spaventa, in fondo bastano la punta del suo naso, due mani e un paio di scarpe per inseguire il suo cappello in fuga. Non si prende troppo sul serio Archì.


La prima volta che ho letto questo libro ho pensato istantaneamente a un racconto di Katherine Mansfield, letto anni fa. Mi ha sorpreso riprendere il libro in mano e accorgermi che il ricordo era ancora più vicino alla realtà di quanto mi aspettassi. Ferragosto, questo il titolo, è la descrizione di una folla eccentricamente vestita a festa, che per lunghi paragrafi avanza sulle pendici di una collina, come se fosse un unico, rotolante essere polimorfo.


Non si può leggere la prosa di Katherine Mansfield senza percepire la sovrastruttura dei suoni e della ritmica. In questo racconto, la musica è anche uno dei personaggi, che si frantuma in tanti allegri pezzettini, si ricompone, si frantuma di nuovo, si dissolve, [mentre] la folla si disperde, risalendo lentamente il pendio.  Così, diversamente, si può provare a leggere Archì a voce alta come una filastrocca, con il respiro della virgola che cade a metà di dodecasillabi (il più delle volte) dall'andamento fluttuante.

La fauna del ferragosto è variopinta e, a tratti, perturbante. C’è chi saltella su una gamba sola, chi gira su se stesso, si siede con solennità, si rialza. Ci sono donne grasse in corsetti di velluto, megere secche come ombrelli logori, vecchissimi bebè in calessi che paiono culle a dondolo. Linguette che smussano gli angoli dei coni alla crema e bocche che bevono limonate sbrodolandosi sui vestiti. Si annunciano prodigi, si offrono preveggenze e oggetti di ogni fattura, solletichini, bambolotti, rose e piume. Come assomiglia ad Archì l’uomo robusto con la faccia rosea e dei calzoni di flanella biancastra, una giacca blu con un fazzoletto rosa che sbuca dal taschino e un cappello di paglia troppo piccolo in bilico sulla nuca. Ognuno di loro, e tutti insieme, potrebbero essere Archì.



Ma c’è una cosa che, più di qualsiasi somiglianza, li allontana. Il racconto di Katherine Mansfield si chiude con un’interrogazione raggelante, l’idea di un panorama vertiginoso sulla cima della collina, che è negato al lettore. Il sospetto di un abisso. Il nostro Archì nel suo percorso si è liberato da solletichini, bambolotti, rose e piume ed è giunto, anche lui, in cima, ma ha davanti a sé lo spazio limpido di un orizzonte da esplorare.


mercoledì 22 aprile 2015

Alle radici dell'albo / 1: il mondo alla rovescia

Per il mio compleanno del lontano 1998, ho ricevuto in regalo da un'amica napoletana una piastrella decorata da una divertente scenetta, nella quale una sardina apriva una scatoletta di omini sott'olio.

Nell'iconografia popolare napoletana, le immagini di un mondo sovvertito sono molto comuni e apprezzate.

D'altra parte, quello del mondo alla rovescia è uno dei grandi topos iconografici, che ha ispirato innumerevoli autori, da Collodi a Rodari, per restare solo alla lingua italiana, ma che è sempre stato presente nella letteratura e nell'iconografia popolare.

Nel suo famoso saggio L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Michail Bachtin identifica questo tema con il momento del carnevale, passaggio dall’inverno alla primavera, morte di un mondo tramontato e nascita di una nuova stagione di abbondanza. Nel periodo di carnevale, nel Medioevo, le gerarchie della vita ordinaria erano sovvertite. Le regole erano stravolte così che tutti potessero vivere una «vita all’incontrario», un «mondo alla rovescia». Gli umili diventavano potenti, e viceversa, il padrone faceva da servo al proprio servitore. Ciò che era superiore era tirato verso il basso così da costringerlo a rinnovarsi e a rigenerarsi. Durante il carnevale tutte le figure erano duplici, accoppiate per contrasto: magro-grasso, alto-basso, giovane-vecchio, eccetera e gli oggetti, vestiti indossati alla rovescia, come «gonne sulla testa», «vasi al posto di copricapi», oppure «l’uso di utensili come armi», ecc. Forse per questa ragione ai bambini piace tanto il mondo rovesciato in cui, insieme a tutti gli altri, anche i rapporti fra grandi e piccoli si sovvertono e cambiano di segno, stabilendo nuove regole e assetti, impensabili in regime di 'normalità'.



Risalendo l'albero genealogico del picture book, abbiamo trovato questo chapbook, un libretto venduto per un penny o poco più dagli strilloni per le strade e nei mercati delle città britanniche.



Sono stati questi strilloni i primi promotori della lettura che, offrendo fogli scandalistici, calendari, ballate, immagini devozioni e libretti da pochi soldi hanno dato il via alla diffusione massiccia di immagini e libri destinati all'infanzia e, più in generale, alle persone incolte e semianalfabete.



Come non leggere, in queste xilografie rozze e male inchiostrate, i progenitori dei divertentissimi Nonsense books di Edward Lear (del quale avevamo già parlato qui), o delle coloratissime tavole di Atak per Mondo Matto?





The world turned upside down, or, No news, and strange News.
York: printed and sold by J. Kendrew, Colliergate (1820 circa).
L'esemplare della Miniature Books Collection della Library of Congress è scaricabile in formato pdf qui.

Chi volesse approfondire il tema del mondo alla rovescia non potrà fare a meno de Il mondo alla rovescia di Giuseppe Cocchiara (Bollati Boringhieri, 2015).

lunedì 20 aprile 2015

Navigare attraverso la vita


In occasione della Bologna Children’s Book Fair, si è tenuta la prima edizione degli #StatiGeneraliFilosofiaBambini. Un evento che mi ha incuriosito perché dedicato a un tema appassionante, quello del rapporto fra la filosofia e i bambini. Lo scetticismo con cui si guarda alla filosofia per l’infanzia deve molto al pregiudizio per cui i bambini sono 'semplici', e la filosofia, 'complessa', quindi non adatta a piccole menti in formazione. Eppure è l’“orecchio acerbo” che sa ascoltare la meraviglia delle cose, guidando alla scoperta del mondo. Ciò che spingeva i primi filosofi a ricercare nella natura l’origine di tutto è, in fondo, lo stesso principio che anima un bambino quando fa cadere il cucchiaino dal seggiolone un numero infinito di volte, o a incantarlo quando osserva sonagli suonati dal vento.


Allora, se i bambini sono filosofi 'naturali' che bisogno c’è di portare la filosofia nelle scuole e di progettare laboratori sul tema? Beh, se i bambini nascessero già filosofi, tutti vivremmo felici e contenti in un mondo senza ammiccanti Violette, Grand Theft Auto, “devi”, “non devi”, “vorrei, ma non posso”. La realtà è che i bambini assorbono come spugne tutto quello che hanno intorno, quindi anche instabilità economiche ed emotive, irrefrenabile bisogno di possedere per colmare vuoti, insicurezze, conflitti, antagonismi, disparità sociali eccetera.

E non c’è nulla di più triste che gli occhi spenti di un bambino arreso, congelato in pose d’adulto, a recitare parole non sue in insulse tiritere. I bambini sono naturalmente curiosi; all’età dei perché arrivano affamati di mondo: vogliono sapere, sperimentare, creare; con l'inizio della scuola, sviluppano senso del dovere, capacità di apprendimento e abilità sociali, ma il pensiero fluido, dinamico, spontaneo comincia ad atrofizzarsi. Questo stupisce, perché i bambini sono per definizione 'creativi', produttori infaticabili di sorprese e fantasie bislacche.

In passato, il modello educativo esigeva che il bambino diventasse ben presto un adulto in miniatura, assumendo e facendo proprie le strutture etiche, culturali e sociali che gli venivano trasmesse, in modo da inserirsi il prima possibile nel mondo produttivo e riprodurre a sua volta il modello appreso.
Oggi è diverso, non esiste più un modello univoco da seguire in un mondo sempre più frammentato, in cui gli individui faticano a trovare il proprio posto o anche solo un orientamento. In questo contesto, la naturale attitudine filosofica dei bambini si rivela uno strumento prezioso da coltivare, una abilità indispensabile per orientarsi e comprendere un mondo sempre più complesso.

Bologna Children’s Book Fair, StatiGenerali filosofia e bambini.

Insomma, il binomio bambino-filosofo andrebbe salvaguardato in un processo educativo in cui la scuola e le strutture ludico-didattiche si rivelano spesso carenti nella formazione di individui che saranno adulti in un mondo sempre più eterogeneo e iperstimolato, privi di strumenti e risorse adeguati a proteggerli e a mantenerli saldi nel corso della navigazione. I bambini, insomma, dovrebbero imparare a essere bravi marinai, acquisire la capacità di vedere nell’ostacolo la possibilità, nella tempesta il cambio di rotta; le risorse di pensiero acquisite, in questo senso, valgono più del 10 in pagella, se in seguito diventano una ricchezza da utilizzare nel corso della vita. 

Bologna Children’s Book Fair, StatiGenerali filosofia e bambini.

È qui che entra o rientra in gioco la filosofia, la più antica fra le discipline, come guida per l’uomo contemporaneo. Chi l’avrebbe mai detto? Con i bambini, la filosofia perde la sua veste storico-teoretica per diventare allenamento all’immaginazione, alla possibilità, al pensiero critico. Un insegnamento necessario perché tanti bambini tendono a ragionare fin da piccoli secondo schemi di pensiero rigidi che hanno assimilato, scelgliendo la via più facile, quella che gli è stata insegnata, non quella che loro stessi hanno ricercato e scoperto; in questo modo, il pensiero si atrofizza, perde la propria capacità esplorativa e conoscitiva, proprio come i muscoli quando si sta per lungo tempo a letto.

Carlo M. Cirino, Filosofiacoibambini.
Mercoledì 1 aprile, la Bologna Children’s Book Fair ha ospitato gli #StatiGeneraliFilosofiaBambini, la prima tavola rotonda tra i protagonisti di questa ricerca in Italia, promossa da Ilaria Rodella e Francesco Mapelli dei Ludosofici.  Momento di incontro e confronto tra realtà che, attraverso lo strumento della filosofia, condividono l’ambizione di crescere nuove generazioni capaci di porsi in maniera criticamente attiva di fronte a una realtà complessa e mutevole.
Molti gli approcci presentati dai relatori, ognuno con la propria peculiarità. A moderare, Dorella Cianci, professoressa di Teoria, storia e metodi dell’Educazione presso l’Università Lumsa di Roma, nonché ricercatrice per la rivista “Amica Sofia”.


A cominciare è Antonio Cosentino, fondatore del Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica (CRIF) e promotore della Philosophy for Children (P4C) di Matthew Lipman. Correvano gli anni Settanta, quando il filosofo statunitense, vedendo la difficoltà dei suoi studenti universitari nello sviluppare ragionamenti complessi, decise di introdurre i fondamenti di logica nell’educazione dei bambini, nella convinzione che i bambini sviluppino la capacità di pensare concetti astratti sin dalla più tenera età e tramite l’esercizio logico possano migliorare la propria capicità di ragionamento. Cosentino promuove una “pratica filosofica di comunità” che opera all’interno di un preciso setting, volto a decostruire l’ambiente di routine (per esempio, la classe) per preparare a contesti nuovi. La pratica filosofica si svolge seguendo un repertorio fisso che assume formalmente i connotati di un rito, spaziando dal punto di vista contenutistico fra i grandi temi della filosofia.

Francesco Mapelli, Ludosofici.
Livio Rossetti è uno dei fondatori di Amica Sofia, associazione di promozione sociale per la ricerca e la diffusione delle pratiche di filosofia dialogica nella scuola e nella società, a cui dà voce l’omonima rivista. Rossetti promuove una filosofia, la Philosophy with Children, che inviti bambini e non a individuare un oggetto di riflessione ad alta voce e a esprimere la propria opinione a riguardo, confrontandosi con i diversi punti di vista che emergono nel gruppo, senza schemi precostituiti o strutture.
Filosofiacoibambini, invece, è un metodo educativo originale, nato a Pesaro nel 2008 dalla collaborazione tra Carlo M. Cirino e Cecilia Giampaoli, e poi portato avanti da Cirino come tesi di dottorato.

Il progetto si propone di accompagnare i bambini alla scoperta di forme autentiche di conoscenza (idee, parole, concetti, sentimenti, emozioni) e mettere in moto il meccanismo immaginativo tramite laboratori che si servono di pretesti ludico/simbolici per stimolare il ragionamento controfattuale. Infine, Francesco Mapelli e Ilaria Rodella sono i Ludosofici, progettatori di esperienze artistico-filosofiche. L’arte del copiare e il valore educativo del gioco permettono di coinvolgere i bambini in idee astratte che nutrono però la nostra quotidianità. Ecco che quindi i laboratori guardano al mondo dell’arte, utile strumento per rendere visibile concetti difficili da spiegare.

Durante il pomeriggio, dalle parole si è passati ai fatti e, grazie all’ospitalità della biblioteca del MAMbo il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Bologna, i relatori si sono messi alla prova con i laboratori pratici. I bambini coinvolti hanno sperimentato una sessione prova di Philosophy for Children, a cura di Cosentino, il laboratorio Che cos’è il cucchiaio?, a cura di Filosofiacoibambini e il laboratorio Tu chi sei? Piacere mi presento, a cura dei Ludosofici.

Al MAMbo, un momento del laboratorio di Carlo Maria Cirino.

Una volta accesa, la mente procede e non la ferma più nessuno, è come una corsa all’aria aperta in primavera. Certo, occorre una certa perseveranza nell’allenamento, infatti tutti i diversi approcci proposti lo promuovono, perché se un singolo laboratorio, un’ora passata a riflettere può essere insolitamente stimolante e divertente, un percorso strutturato ha effetti sorprendenti su bambini. Nessuno dei laboratori di filosofia che ho presentato dà ai bambini il contentino dell’elaborato da portare a casa, in compenso a lungo andare, può diventare uno strumento essenziale per il bambino ad avvicinare la realtà che lo circonda.

Il pensiero critico, la capacità di mettere in discussione e vedere le cose da punti di vista diversi, adottando soluzioni creative e non scontate, è ciò che permetterà ai piccoli di fare esperienze di conoscenza e di viverle con consapevolezza, facendone strumenti di vita, e non nozioni da stivare nei magazzini della memoria. La pratica del pensiero critico darà loro la flessibilità necessaria per adattarsi a situazioni nuove, prendere decisioni improvvise, scegliere rapidamente senza bloccarsi nel panico della confusione. Tutte caratteristiche che forse cinquant’anni fa non erano necessarie, ma oggi sono imprescindibili per chiunque voglia essere un buon marinaio e non farsi prendere alla sprovvista dalle tempeste della vita.

Al MAMbo, un momento del laboratorio di Carlo Maria Cirino.

venerdì 17 aprile 2015

This is…: un esperimento che diventa libro

This is… Questo è un libro.
E questo libro è cominciato come un pretesto per mettere alla prova alcuni pensieri e idee diverse, alla fine del mio corso di illustrazione. Ma dato che avevo poco tempo a disposizione per farlo, ho deciso di raccogliere tutti questi pensieri e idee in un libro solo, giusto per verificarle, convinto che il risultato non sarebbe stato altro che un esperimento.

Ho un nipotino e, all’epoca, cominciava a imparare le prime parole. Avevo notato che “etichettava” le cose con le parole che conosceva: con molto orgoglio, puntava il dito e dichiarava: «faccia», «occhi», «bocca» e «albero». Questo modo rudimentale di descrivere il mondo, ad ascoltarlo, sembrava proprio poesia.



La sensazione provata ascoltandolo, si è mescolata alle parole ascoltate a una conferenza TED da poco sentita: una scienziata parlava delle sue ricerche sulla capacità dei bambini di apprendere le lingue (perché anche da piccolissimi siamo in grado di distinguere fra le diverse lingue e questo ci permette di capire cosa dobbiamo imparare). Così è nata l’idea di un libro bilingue: una lista delicata e un po’ casuale di cose che un bambino potesse identificare, attraverso parole e simboli.
Ho sviluppato le immagini a partire dall’idea di utilizzare forme semplici e riconoscibili. Il miglior esempio è la prima parola del libro: casa. La forma che ho attribuito alla casa è quella che comunemente disegniamo e riconosciamo, anche se nessuno di noi (salvo qualche rara eccezione, vive in una casa che ha quella forma riconoscibile). Ma è proprio questa la forma da usare e da indicare come casa.



Un’altra cosa che mi interessava sviluppare era la forma del libro. Mi piace pensare al libro come a un oggetto: pagine trasparenti, buchi fustellati, fili e cose del genere non fanno che aggiungere interesse alle pagine. Naturalmente, devono avere un proprio posto, una misura; e in un libro come questo, così semplice, volevo che ci fosse qualcosa che mantenesse vivo l’interesse, che facesse procedere nella lettura, facesse desiderare di continuare a seguire la storia. Tutto è cominciato con un pensiero semplice: «E se il lettore potesse avere un’anticipazione della pagina successiva? In questo modo potrebbe intuire cosa sta per accadere. Se nella prossima pagina vediamo una nuvola all’orizzonte, giriamo la pagina per vedere la pioggia. La stessa idea è applicata al testo: il libro è una sola, unica, lunga frase che comincia con «This is…» e procede con un ritmo costante e continue ripetizioni della congiunzione “e” che ho pensato di usare per replicare il modo semplice di mio nipote di esprimersi per elenchi. Così, ho cercato un ritmo lento e un testo nel quale ogni cosa fosse ugualmente interessante.



Come ho detto, non avevo molto tempo, così mi sono lanciato nel progetto, facendo molti esperimenti e tentativi concentrati in un paio di settimane. Tutto si è concluso in stamperia dove, in una sola notte, ho serigrafato tutto il libro. Sono genuinamente convinto che molti dei lavori migliori vengano realizzati in tempi stretti, senza spazio per pensare troppo, prendendo decisioni intuitivamente e sapendo che l’errore non è una eventualità.


Dopo questa prima fase, e dopo che il progetto è interessato a Topipittori, a cui l'avevo spedito, ho cominciato a lavorare sul libro insieme all'editore. Per arrivare a quello che oggi è in libreria mi sono dovuto applicare a due problemi. Il primo era trasformare il concetto sviluppato in un oggetto tecnicamente producibile. Questo significava aggiungere pagine e riconfigurarle, in modo da uniformarle almeno in altezza (ma conservando la base variabile). Poi volevo aggiungere qualcosa alla fine del libro che permettesse di leggerlo come il resoconto di una passeggiata (che cioè avesse una sequenza narrativa più forte ed evidente) e  invitasse a tornare a casa (a tornare, cioè, alla prima pagina per ricominciare di nuovo, in un’altra lingua.) Dato che il libro era scritto in forma di elenco, avrebbe potuto continuare all’infinito, quindi ho dovuto pensare a un cambio di tono che rendesse esplicito il fatto che il libro era giunto alla fine.


Il secondo problema, una volta apportate queste modifiche, era fare sì che il libro continuasse a essere fedele all'idea originaria. Per questo è stato necessario riflettere a fondo: il tipo di lavoro che non vorresti mai trasparisse dalle pagine di un libro. Ho dedicato molto tempo all’osservazione del libretto da cui era nato il tutto, e a pensarci, per capire bene come funzionasse, quali meccanismi lo muovessero. In questa fase è stato importante sentirmi autorizzato ad apportare sensibili cambiamenti alla struttura del libro, per ritrovare le condizioni in cui avevo lavorato all’inizio del progetto. Alcune pagine sono state scartate, altre recuperate.





Ogni decisione, in questa fase del lavoro, è stata orientata a conservare l’energia e lo spirito del libro originario. Anche nella stampa e nella confezione: mi ha molto sorpreso che l’editore abbia pensato a una cucitura che richiamasse quella da me fatta a mano per il progetto iniziale. Da tutte queste decisioni sono scaturiti i dettagli che rendono questo libro, ai miei occhi, davvero amabile. Spero siate d'accordo con me!



Adesso che il libro è finito è un piacere osservare con quanta lentezza gli altri lo sfoglino e lo leggano. Spero che This is... sia usato dai bambini, ma che anche gli adulti trovino un modo di applicare le parole alle immagini, magari in una nuova lingua, giocando con le pagine per costruire piccole storie.


Se volete saperne di più su Joe Lyward:
Web: www.joelyward.co.uk
Twitter: @joelyward
Instagram: @lywardian

This is… un libro in quattro lingue
di Joe Lyward
24 pagine in formato variabile.
Brossura con cucitura Singer a filza.
isbn 978 88 98523 24 5
15 euro